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Dichiarazione di Piero FASSINO

Alla data della dichiarazione: Deputato


 

Democrazia in Medio Oriente, c’entra anche la politica di Bush

  • (20 marzo 2005) - fonte: La Stampa - inserita il 26 dicembre 2007 da 7
    L'invito del presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, era stato garbato nella forma ma inequivoco nella sostanza. In un’intervista pubblicata ieri da La Stampa, aveva affermato: «Penso di poter chiedere a Fassino e a Rutelli, ai riformisti del centrosinistra, di aver meno timidezza nell’affrontare il tema della libertà e delle democrazie nelle aree del mondo in cui mancano». Di più: chiedeva che venisse riconosciuto che all’origine dei fermenti democratici in atto in diversi paesi, arabi e non, c’è anche - in qualche modo - quella che definisce «una sorta di intolleranza» dell’amministrazione Bush e di parte dell’Europa verso dittature che hanno goduto di indifferenza e silenziose complicità. Chiamato in causa, Piero Fassino, leader dei Ds, non mostra - in verità - alcuna timidezza: e dopo le novità di analisi introdotte all’ultimo Congresso, compie un altro piccolo «strappo». Spiega Fassino: «Quando Bush dice "io mi batto perché nei paesi arabi ci sia libertà e democrazia", manifesta un atteggiamento molto diverso da quello tradizionale dei repubblicani americani che con Kissinger, in nome del realismo politico, negli Anni 80 sostenevano le dittature militari e fasciste in Sud America. C’è un rovesciamento». E non basta. Perché anche sul rapporto tra Europa e regimi islamici, sulla Cuba della buona sanità e delle carcerazioni, sviluppa un ragionamento innovativo e coraggioso. Lo fa nel giorno in cui a Roma la sinistra radicale torna in piazza contro la guerra e gli Usa: e anche questo potrebbe contribuire ad aprire una nuova e salutare polemica nel pentolone in ebollizione della sinistra italiana. Onorevole Fassino, come risponde all’invito rivolto al centrosinistra dal presidente Casini? «Vorrei dire in premessa che il tema che Casini pone non riguarda solo la sinistra. Riguarda tutti. E la questione, a dirla in due parole, è: la necessità, in un mondo caratterizzato da un grado di interdipendenza sempre più alto, di battersi perché democrazia, diritti e libertà siano anch’essi valori affermati ovunque. Non si può pensare che la globalizzazione investa soltanto la sfera economica e non anche quella politica. E’ un grande tema: e cioè, come si costruisce una strategia capace di dare al pianeta quell’ordine democratico che non ha». Non è questione di oggi, in verità... «Sì, ma oggi la contraddizione si è fatta insostenibile, perché viviamo in un mondo globale in tutto, dalla produzione all’informazione, ma non nella sovranità politica. Ci misuriamo ormai ogni giorno con processi globali che di fatto non sono più governabili dai singoli Stati e dalla loro sovranità. In fondo, perfino la vicenda della Cina e il dibattito sui dazi ci pone questo problema. Quando si evocano i dazi, si fa riferimento a uno strumento puramente difensivo e per questo non praticabile: e allora perché viene invocato? Perché non ci sono altri mezzi che per ora appaiano in grado di governare il pianeta». E’ certamente così, ma qual è il nesso con la questione posta al centrosinistra dal presidente Casini? «A me pare evidente. C’è un grande tema di fronte a noi e riguarda, in qualche modo, anche la guerra in Iraq: c’è bisogno di un ordine nuovo e di un luogo di governo democratico del mondo che ancora non c’è e per il quale bisogna battersi. La vicenda irachena, se vuole, è la prova che non è la guerra, da sola, la soluzione di questo problema, perché non è immaginabile che ogni crisi si affronti con le armi. In più, nessun paese - da solo - può risolvere le questioni di cui parliamo: perché sempre l’Iraq dimostra che gli Stati Uniti, da soli, hanno grandi difficoltà a dare un ordine al mondo. Il problema, in realtà, è ormai chiaro: come si costruisce quella che io chiamo una "politica preventiva" che sostituisca la filosofia della guerra preventiva?». In fondo è l’interrogativo che pone anche il presidente della Camera. Che però vi chiede di riconoscere, per esempio, che molti dei fermenti democratici avviati nel mondo arabo non possono essere considerati casuali. Come risponde? «Che sta cambiando qualcosa, nel mondo. Siamo sempre più interdipendenti e globalizzati. Saltano tutte le barriere, e assieme ai protezionismi economici entrano in discussione anche le autarchie politiche, le dittature che pensano di poter governare senza i diritti e le libertà che ormai sono un valore riconosciuto in tutto il pianeta. Quel che sta accadendo nel mondo arabo è straordinariamente importante. Siamo di fronte a una sequenza di avvenimenti appunto non casuali». E originati da cosa, allora? Casini dice: forse una certa mano dura avuta dagli Stati Uniti e, in parte, anche dall’Europa non è estranea a quel che accade. Lei concorda? «Io penso che i processi che investono soprattutto il mondo islamico - e che vanno dalla massiccia partecipazione alle elezioni in Iraq e in Palestina alla decisione di Mubarak di passare al multipartitismo, dalle riforme che riconoscono diritti alle donne in Marocco fino alla primavera di Beirut - segnalano una novità enorme: le società islamiche sono investite da processi di secolarizzazione che mettono in discussione il rapporto tra politica e religione, fino a ora in questi paesi inscindibile. Si introduce un grande fatto di modernità: il principio di laicità, di separazione tra la sfera religiosa, quella politica e quella istituzionale. E’ straordinariamente importante, perché è la secolarizzazione che in quei paesi porta alla democrazia». Detto tutto questo, lei però non arriva ad affermare, come fa invece Casini, che questi fermenti democratici sono - in parte - anche uno dei risultati della guerra in Iraq, è così? «Non ho alcuna difficoltà a riconoscere che questi processi sono anche il frutto di una maggior intransigenza dell’Occidente verso chi nega i valori di libertà. Anche se non mi pare fondato stabilire un nesso automatico tra la guerra in Iraq e la democrazia. Non c’è dubbio, tuttavia, che quando Bush dice "io mi batto perché nei paesi arabi ci siano libertà e democrazia", questo sia un atteggiamento molto diverso da quello dei repubblicani americani, che negli Anni 80, con Kissinger - in nome del realismo politico - sostenevano le dittature militari fasciste in Sud America, fingendo di non sapere che torturavano e uccidevano gli oppositori. Oggi c’è un rovesciamento. E anche in Europa comincia a esserci una intransigenza nuova nei confronti di chi nega le libertà. E’ importante: vuol dire che in Occidente ci stiamo liberando di una grave contraddizione». A cosa si riferisce? «Accettavamo che in altre parti del mondo libertà e diritti fossero violati, e giustificavamo quelle violazioni invocando le differenze. Se non c’era libertà in un paese islamico, dicevamo "beh, certo, è una società islamica!". Era una equivalenza infondata: non è scritto da nessuna parte che una società islamica non possa essere democratica. Perché, per esempio, è così importante quel che accade in Turchia? Perché lì si sta giocando esattamente questa scommessa: dimostrare che Islam e democrazia sono compatibili. Perché è importante la primavera di Beirut? Perché in un paese multireligioso - in cui una delle religioni fondamentali è quella musulmana - i giovani vanno in piazza e dicono: vogliamo vivere in una società laica, libera, ognuno pratichi la sua religione ma la religione non comprima la libertà di nessuno. E’ un fatto straordinario, che noi dobbiamo sostenere. Dico tutti noi. Ecco, allora, cosa replico a Casini. Lui rivolge una sollecitazione alla sinistra, io dico: attento, non è solo la sinistra, è tutto l’Occidente che deve liberarsi di un certo relativismo culturale che lo ha portato ad essere distratto sul tema della violazione dei diritti e delle libertà altrove». Va bene, ma per quel che riguarda la sinistra italiana? «Visto che io sono il leader dei Ds, non ho alcun dubbio a parlar chiaro: noi siamo dalla parte dei giovani in piazza a Beirut, degli otto milioni di iracheni che sono andati a votare, delle donne marocchine che si battono per i propri diritti. La sinistra non può che stare dalla parte della libertà. Dovunque. Proprio per questo dico che per realizzare il salto verso un mondo che individui i luoghi e le sedi di governance globale e riesca ad affermare la democrazia ovunque, occorre un mutamento anche degli strumenti. Abbiamo bisogno di quella che io chiamo una "politica preventiva", che non aspetti, non assista passivamente al precipitare delle crisi. Se non si vuole la guerra preventiva, allora si ha il dovere - tutti - non solo di dire che si è contro la guerra, ma anche di costruire una strategia politica che agisca in tempo, così da evitare il ricorso alle armi. Penso all’Iran. Aspettiamo che la la crisi diventi così acuta che non resti altro da fare che mandare gli eserciti, oppure si avvia subito un negoziato, si discute con le autorità iraniane, le si sollecita con strumenti politici, economici, diplomatici per arrivare a un accordo che garantisca che il nucleare iraniano non è pericoloso? Insomma, si mette in campo una strategia preventiva o no? Perché, guardi, ce n’è molti di dittatori in giro per il mondo: che facciamo, li togliamo tutti di mezzo con una sequenza infinita di guerre, o proviamo con la politica?». Questo vale anche per Cuba? Ha letto l’altro giorno il maestro Abbado lodare, sul «Corriere della Sera», la sanità, i livelli di istruzione e l’attenzione per l’arte che ha Castro. «E’ sicuramente vero che a Cuba c’è un’assistenza sanitaria e livelli di istruzione che i bimbi delle baraccopoli di Caracas o Bogotà nemmeno sognano. Questo è certo: ma non legittima la negazione della libertà, l’incarcerazione degli oppositori e la riduzione di diritti inviolabili. Quindi da uomo di sinistra dico: mi batto perché a Cuba ci sia la stessa libertà che c’è in Italia e nel resto del mondo. Naturalmente capisco da quali considerazioni muove Abbado: dal fatto che, in fondo, a Cuba sono garantiti alcuni diritti materiali, e non è certo poco. Ma credo che non sia accettabile l’idea che in nome di questo si limitino libertà e democrazia. Per altro, è la storia a dimostrare che dove c’è libertà c’è anche maggiore prosperità».
    Fonte: La Stampa | vai alla pagina
    Argomenti: missioni internazionali, guerra, medio oriente, iraq | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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