ATTIVITA' CULTURALI, QUALITA' DELLA VITA E SPORT
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(27 novembre 2005) - fonte: www.margheritaperlunione.it - inserita il 07 maggio 2010 da 14181
Politiche dello sport
di Donato Renato Mosella, Giuseppe Scalera
C’è in Italia una crescente domanda di attività sportiva, ben evidenziata dai numeri dell’ISTAT. Se nel 1997 i cittadini che praticavano sport con continuità rappresentavano il 17,9% della popolazione, nel 1999 erano il 18,1%, nel 2001 il 19,2% e nel 2003 il 20,8%, pari a circa 11 milioni e mezzo di persone con più di tre anni. Nello stesso 2003 gli Italiani che svolgevano attività fisiche, motorie e sportive leggere, a carattere saltuario/occasionale erano il 37,6%, pari a circa 21 milioni di individui. Questo aumento della domanda di sport rispecchia un modo nuovo di concepire e vivere l’attività sportiva da parte dei cittadini, che si indirizza principalmente verso forme che però non trovano riscontro nell’ordinamento sportivo vigente. L’aumento dei praticanti riguarda infatti solo marginalmente lo sport di prestazione legato alle attività delle Federazioni Sportive Nazionali (FSN) e Discipline Associate (DA) riunite nel Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI). Nel 1997 gli atleti tesserati alle FSN e alle DA erano circa 3,3 milioni, diventati poco più di 3,5 milioni nel 2003.
Questi numeri stanno a dimostrare due cose: 1. che lo sport facente capo alle Federazioni e Discipline Associate cresce a ritmo inferiore rispetto a quello che si colloca al loro esterno; 2. che lo sport a prevalenti fini agonistici è diventato negli anni di gran lunga minoritario rispetto allo “sport per tutti”, termine che sta ad indicare un’attività sportiva legata solo marginalmente o per nulla alla prestazione, e che piuttosto si caratterizza come diritto di ogni cittadino a fruire dei benefici della pratica sportiva a prescindere dall’età, dal censo, dalle abilità psicofisiche, dalle condizioni di salute e dall’area geografica di residenza. Diverso, se non in antitesi, è l’impatto sociale di questi due modi di concepire lo sport, poiché: - lo sport a prevalenti finalità agonistiche è sport di selezione: ricercando chi possa conseguire medaglie e record, deve necessariamente basarsi sulla selezione e l’addestramento dei più bravi, dei talenti; e chi non ha le qualità indispensabili ne resta fuori; - lo sport per tutti si basa invece sul principio dell’inclusione, puntando a fare entrare nelle sue fila il maggior numero possibile di persone, senza guardare alle loro potenzialità agonistiche. L’orizzonte europeo dello sport per tutti Lo sport per tutti disegna l’orizzonte sportivo verso cui tende da tempo l’Europa comunitaria, che molto ha contribuito a precisare i contenuti di questo tipo di sport, dalla Raccomandazione 588 del 26 gennaio 1970 dell’Assemblea del Consiglio d’Europa, alla “Carta europea dello sport per tutti” approvata il 20/21 marzo 1975 in seno al Consiglio d’Europa stesso, alla “Dichiarazione sullo sport” annessa al Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, fino alla “Dichiarazione relativa alle caratteristiche specifiche dello sport e alle sue funzioni sociali in Europa nell’attuazione delle politiche comuni”, annessa al Trattato di Nizza, del 7/9 dicembre 2000. Lo sport per tutti vi è considerato come uno strumento efficace per la realizzazione di finalità sociali importanti, quali l’educazione giovanile, la tutela sanitaria della popolazione, l’inclusione e la coesione sociale, il contrasto alla sedentarietà e la riscoperta attiva dell’ambiente. Esso si colloca ormai come espressione del diritto di cittadinanza e attività che concorre a realizzare il nuovo Welfare. La riflessione su compiti e finalità dello sport per tutti si è molto sviluppata anche in Italia. Importanti indicazioni da recepire nella realizzazione di un valido quadro di riferimento per lo sport per tutti sono state espresse nel dicembre 2002 dal Forum del Terzo Settore con la “Carta dei principi dello sport per tutti”. In definitiva, le premesse teoriche dello sport per tutti sono state ampiamente delineate. Rimane da ammettere che un sistema sportivo moderno, funzionale ai bisogni attuali della popolazione e del Paese, deve promuovere e sostenere con pari impegno tanto lo sport di selezione e a prevalenti finalità agonistiche, quanto lo sport di inclusione e a prevalenti finalità sociali. Le lacune dell’ordinamento sportivo vigente Purtroppo in Italia così non è, per via di un ordinamento sportivo nato nel 1942 - quando si poteva concepire unicamente lo sport olimpico - e in seguito modificato solo marginalmente. L’Italia è oggi l’unico paese occidentale in cui la funzione di promuovere e organizzare lo sport nel suo insieme è affidata non già ad un’agenzia o a un’istituzione pubblica ma al Comitato Olimpico Nazionale, che gestisce la totalità dei fondi derivanti da concorsi e lotterie sportive destinati a sostenere lo sport. Aver dato il monopolio dell’organizzazione sportiva al Comitato Olimpico Nazionale ha indirizzato ed indirizza il nostro sistema sportivo quasi esclusivamente verso lo sport di selezione e di prestazione. Ne fa prova che per decenni e fino a pochi anni fa il CONI destinava all’associazionismo di promozione sportiva meno dell’1% dei propri introiti, percentuale oggi accresciuta, ma comunque inferiore al 5%. Ci sono stati nel tempo tentativi di portare il CONI a riconoscere e a farsi realmente carico dello sport per tutti, ma è innegabile che ogni volta essi siano rimasti lettera morta per il disinteresse o l’ostilità del CONI stesso. Basti citare le occasioni rappresentate dalla 1^ “Conferenza nazionale dello sport”(10-13 novembre 1982), o la costituzione del Comitato nazionale per lo Sviluppo delle Sport (a metà anni Ottanta) e del Comitato Nazionale Sport per Tutti (a metà anni Novanta). Si può dire perciò che lo sport per tutti si sia affermato nel Paese, fino a coinvolgere oggi milioni di cittadini, per evoluzione spontanea del costume sportivo e per libera iniziativa di quella parte dell’associazionismo facente capo ai cosiddetti Enti di promozione sportiva, fino a pochi mesi fa tenuti fuori dal CONI, anche se da esso riconosciuti. Nei tempi più recenti ha concorso ad affermare lo sport per tutti l’offerta di impianti e club privati sviluppatasi per rispondere alla nuova domanda sportiva. All’affermazione dello sport per tutti hanno contribuito gli Enti Locali e le Regioni, dopo che il DPR 616/77 (art. 56 comma b) poneva tra le competenze ad esse attribuite «la promozione di attività sportive e ricreative e la realizzazione dei relativi impianti ed attrezzature, di intesa, per le attività e gli impianti di interesse dei giovani in età scolare, con gli organi scolastici». Ciò restando ferme «le attribuzioni del CONI per l'organizzazione delle attività agonistiche ad ogni livello e le relative attività promozionali». Oggi abbiamo una situazione ancora più complessa e confusa in fatto di competenze sullo sport per tutti. Nell’ottobre 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione ha indicato nella politica sportiva materia di legislazione concorrente, ovvero posta nelle mani delle Regioni, fermo restando che spetta allo Stato dare le necessarie linee di indirizzo. Successivamente, però, la modifica dello Statuto del CONI, voluta dal Governo Berlusconi (Decreto Legislativo 15/2004), ha riconfermato che «Il CONI è la Confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate». Le associazioni che si occupano di sport sociale e di sport per tutti, nonostante in totale abbiano circa gli stessi tesserati delle Federazioni, sono state escluse volutamente da questa dicitura. Vero è che esse hanno ottenuto una rappresentanza minima nel Consiglio Nazionale (CN) e nella Giunta CONI, ma il timone del sistema sportivo italiano continua ad essere nelle mani dello sport di prestazione. Lo stesso statuto CONI del 2004 disegna così i compiti dell’Ente: «L'ente cura l'organizzazione ed il potenziamento dello sport nazionale, ed in particolare la preparazione degli atleti e l’approntamento dei mezzi idonei per le Olimpiadi e per tutte le altre manifestazioni sportive nazionali o internazionali…. Cura inoltre… la promozione della massima diffusione della pratica sportiva». La lacuna è evidente. Da nessuna parte è indicato chiaramente che tra i compiti del CONI, accanto alla preparazione olimpica, vi sia la promozione dello sport per tutti. Ma anzi si specifica che la funzione peculiare o prevalente del CONI è selezionare e preparare gli atleti di alto livello che possano gareggiare nelle competizioni internazionali. Ciò nonostante si afferma che al CONI spetta organizzare l’insieme dello sport nazionale, così bloccando la strada a qualsivoglia altro soggetto che possa farsi carico dei compiti di governo dello sport per tutti. Da questo equivoco, di cui le Regioni si sono ampiamente lamentate, perché di fatto vanifica la titolarità della materia sportiva assegnata loro dalle modifiche al Titolo V, è tempo di uscire. Non è possibile che il CONI, anche trincerandosi dietro il suo nuovo Statuto, da un lato rivendichi la titolarità esclusiva della gestione di tutto lo sport italiano e dall’altro pretenda di continuare ad essere soltanto la Confederazione delle Federazioni. Dal canto loro le Regioni hanno dichiarato a più riprese la loro indisponibilità a far parte di organismi di coordinamento e di indirizzo dello sport per tutti che siano posti all’interno del CONI e quindi ad esso subordinati. Le società sportive non profit motore dello sport sociale La conseguenza, grave in termini sociali, è che lo sport per tutti, in quanto terra di nessuno dal punto di vista legislativo e finanziario, sta scivolando sempre più nelle mani del mercato, dei club profit dove si accede solo se si può pagare. Il moltiplicarsi di palestre e di centri fitness risponde comunque a un forte e generalizzato bisogno di salute, e dunque sarebbe un fenomeno da accogliere positivamente se il loro diffondersi non stesse avvenendo al di fuori di qualsiasi regolamentazione quanto a standard di qualità e di sicurezza. Anche in questo campo appare necessario un intervento legislativo, considerando che un’attività fisica svolta secondo criteri improvvisati, con strumenti non calibrati alle condizioni reali del fruitore e alla sua storia sanitaria, può mettere a repentaglio la salute di questi invece che salvaguardarla e migliorarla. Punto fondamentale di una regolamentazione dovrebbe essere proprio il porre ogni centro di questo tipo sotto la responsabilità di un laureato in Scienze motorie, con il vantaggio, tra l’altro, di assicurare a tali laureati quegli sbocchi professionali che la scuola da sola non può garantire. Altrettanto necessario è prevedere controlli nei circuiti di palestre e centri di body-building, visto che le ricerche indicano che sono proprio questi i luoghi dove più alto e il rischio di assunzione di integratori di incerta provenienza e composizione, nonché di anabolizzanti. Manca comunque nelle palestre e nei centri fitness commerciali la propensione a svolgere attraverso le attività motorie e sportive quelle mission sociali caratteristiche dell’associazionismo di volontariato. Affinché la pratica sportiva sia per i cittadini un’occasione di educazione, di prevenzione sanitaria, di socializzazione, di contrasto alla marginalità giovanile, di integrazione dei diversamente abili e di altre cose altrettanto importanti, c’è bisogno che essa si svolga, nel quadro di riferimenti legislativi certi, ad opera di società sportive vere; dove non si acceda come semplici clienti; che siano comunità di persone che condividono un’esperienza di vita, e che vedono nelle attività sportive un mezzo per raggiungere finalità umane e sociali rilevanti. Si pensi ai giovani, che nella società sportiva autentica hanno modo di svolgere percorsi importanti di ricerca di identità, sperimentando relazioni significative con gli adulti e con i pari, il rispetto delle regole democratiche che impostano la vita in comune, la cooperazione, il volontariato, l’assunzione di responsabilità (spesso questi ragazzi diventano essi stessi allenatori e dirigenti…). Secondo le ricerche, abbiamo un grande patrimonio, fatto di molte decine di migliaia di società sportive non profit (tra 80.000 e 100.0000), tutte basate sul volontariato e molte delle quali espressione di un associazionismo a spiccata sensibilità sociale. È un patrimonio da utilizzare al meglio, nonché da sostenere per evitare che esse stesse ed i loro operatori tradiscano la loro vocazione originale per orientarsi al mercato remunerativo. Le condizioni per lo sviluppo di uno sport di alto profilo sociale Abbiamo bisogno di una pratica sportiva di alto profilo sociale, che aiuti a migliorare la qualità della vita delle persone, che restituisca senso e speranza ai giovani, che educhi a diventare cittadini rispettosi delle regole e del prossimo. Sono compiti che lo sport, e in particolare lo sport per tutti, può svolgere, ma occorre creare le condizioni affinché le svolga: - facendo chiarezza con una legge quadro che dica quali sono diritti e doveri di ogni componente (compresa la Scuola), e come queste si raccordano tra di loro; - aiutando le società sportive tradizionali nel loro lavoro svolto nelle pieghe del sociale, evitando che questo patrimonio associativo (che solo in Italia esiste così ricco, e che altri paesi ci invidiano) si snaturi e si converta alla corsa al mercato (le norme per le Società sportive dilettantistiche, legge n. 289/2002, varate dal Governo Berlusconi sono di scarsa utilità per le piccole società sportive di paese e di quartiere, che sono poi la maggioranza). È discutibile, quindi da rivedere, anche il colpo di mano con cui il registro delle società sportive dilettantistiche, che inizialmente il Governo aveva intenzione di istituire presso le Regioni, è stato poi affidato al CONI rafforzandone il ruolo di unico gestore nazionale del fenomeno sportivo. Ne deriva che il CONI, essendo il solo soggetto deputato a concedere il riconoscimento dello status di società sportiva dilettantistica, di fatto decide anche quali società possono fruire di finanziamenti pubblici o dei vantaggi concessi dalla Legge 289/2002; - incoraggiando e rimotivando il volontariato sportivo, che resta il motore di qualunque progetto di sport a forte vocazione sociale; - istituendo un’Agenzia nazionale, nella quale confluiscano tutti i soggetti da coinvolgere nella promozione dello sport per tutti, quale organismo che dia gli indirizzi di una politica sportiva di settore, coordini interventi specifici, svolga funzioni di ricerca e di vigilanza. E poiché la materia passa attraverso le competenze Regionali, analoghi organismi andrebbero costituiti, a cascata, a livello regionale; - prevedendo che nella costruzione o riadattamento di impianti sportivi sia data la precedenza ad impianti di base polivalenti da mettere a disposizione dello sport per tutti; e che, ove manchino le condizioni per realizzare tali impianti, si proceda all’adeguamento come aree attrezzate di quota degli spazi pubblici disponibili, quali i parchi e le zone destinate a verde. Dall’Infanzia alla Terza Età Nella già citata “Carta dei principi dello sport per tutti” licenziata dal Forum del Terzo Settore, si dice che: «lo sport costituisce un elemento irrinunciabile della dimensione educativa, per il ruolo che esso svolge nella formazione del fanciullo e dell’educazione continua degli adulti. È una indicazione rilevante, perché indica nella pratica motoria e sportiva estesa dall’infanzia alla Terza Età uno strumento che concorre alla formazione continua della persona. All’inizio di questo percorso si innesta il grande problema dello sport scolastico. La scuola potrebbe svolgere un ruolo importante nella promozione della pratica sportiva e per l’affermazione di una cultura radicata dello sport agito in prima persona. Purtroppo finora essa è stata la grande assente nello sviluppo dello sport in Italia. L’educazione motoria e pre-sportiva deve avere un sicuro “peso specifico” già presso gli allievi della scuola primaria, per poi rafforzarsi ulteriormente nelle fasce di età successive. Il problema del settore, comunque, non si risolve pesando le ore di educazione fisica. Il nodo vero è riuscire a far nascere e decollare un associazionismo sportivo scolastico efficace, destinando a ciò le risorse economiche ed umane necessarie. Già oggi sul territorio si fanno sporadicamente cose egregie quando si trovano forme di collaborazione tra lo sport scolastico e l’associazionismo sportivo locale: questo rapporto fecondo di cooperazione è nelle corde della scuola dell’autonomia, va solo stimolato e sostenuto, anche perché potrebbe essere uno strumento efficace per contrastare la dispersione scolastica. Tenendo ben presente, anche qui, che se lo sport nella scuola è indirizzato alla performance, alla selezione precoce dei migliori, non avrà effetti di inclusione ma di esclusione, diventando, all’opposto, elemento che potenzialmente aumenta la dispersione. Al capo opposto del percorso si colloca lo sport per la Terza Età. Il progressivo invecchiamento medio della popolazione pone nuovi problemi in prospettiva e sempre più ne porrà in futuro. Sarà importante che il maggior numero possibile di cittadini arrivi alla Terza Età, e in essa proceda, nelle migliori condizioni di salute possibili, anche per frenare l’incidenza della spesa socioassistenziale e sanitaria. Cosa può fare in questo campo lo sport è stato chiaramente enunciato dalla Organizzazione mondiale della sanità (OMS), che ha indicato nella sedentarietà una delle maggiori cause di malattie cardiovascolari, di diabete e di obesità. Circa l'80% delle cardiopatie coronariche precoci sono dovute all'associazione di una cattiva alimentazione, inattività fisica e tabagismo. Secondo l'OMS perfino un terzo dei tumori (attesi) potrebbe essere evitato associando una sana alimentazione con una attività fisica praticata regolarmente nel corso della vita. Si tratta di una condizione che purtroppo in Italia non trova riscontro. Le rilevazioni ISTAT mostrano che la pratica di attività sportiva continuativa cala drasticamente e progressivamente dopo i 40 anni: comprende il 16,1% dei cittadini di 40-49 anni, 11,1% dei cittadini di 50-59 anni e appena il 4,7% della popolazione dai 60 anni in su. Vanno create le condizioni per un’inversione di tendenza, tenendo conto che la popolazione anziana, in gran parte costituita da pensionati, è proprio quella che meno può permettersi l’accesso a club fitness privati e che ha bisogno di un livello di assistenza e di competenza maggiore da parte degli operatori sportivi. Le “marginalità” dello sport L’analisi per ripartizione geografica dei dati ISTAT sulla pratica sportiva mostra come l’Italia meridionale e insulare sia ben al di sotto delle medie nazionali. Altri indicatori evidenziano come dai potenziali benefici dell’attività sportiva restino tagliate fuori particolari aree di “povertà”, tra cui le popolazioni dei quartieri a rischio delle grandi città, e non solo per la mancanza di impianti e di zone verdi. Esistono dunque aree sociali e geografiche di sottosviluppo sportivo, di “marginalità” verso cui vanno effettuati interventi specifici, incentivando le amministrazioni locali e l’associazionismo di settore a farsene carico. Così per: • i disabili, poiché, nonostante i passi avanti compiuti negli ultimi anni, i diversamente abili non hanno accesso ad un gran numero di impianti, e ancor meno a strutture attrezzate a misura dei loro problemi; • gli immigrati, e soprattutto i loro figli per accelerare attraverso lo strumento condiviso dello sport quell’integrazione che incontra palesi difficoltà anche nella scuola; • i giovani dei quartieri a rischio, per i quali lo sport diventa occasione per togliersi dalla strada e per crescere in un gruppo di pari all’interno di un progetto educativo condotto da un adulto. Lo sport professionistico Da questo quadro di rinnovamento resta fuori lo sport di prestazione, che ha anch’esso i suoi problemi. È innegabile che il grande sport svolga esso stesso un’importante funzione sociale, contribuendo con le sue vittorie a rafforzare l’identità nazionale (il tricolore scende in piazza quasi soltanto con le grandi vittorie sportive) e con i suoi campioni a fornire esempi positivi ai giovani. Un certo inaridimento etico (e quindi svuotamento di senso) di questo sport è però altrettanto innegabile, attestato com’è da tanti fatti di cronaca: scandali, fallimenti, casi doping, liti giudiziarie ne fanno testimonianza. Sembra necessario operare per ripristinare per quanto possibile la coesione interna del sistema, legandola ad un rinnovato patto di mutualità tra componenti “ricche” e “povere”. Da questo punto di vista sta succedendo nello sport (nel calcio anzitutto) ciò che il Governo Berlusconi ha lasciato accadesse nel resto del Paese: pochi diventano sempre più ricchi, molti diventano sempre più poveri. La bellezza dello sport è anche la sua aleatorietà. Un sistema in cui vincono sempre gli stessi, che si suddividono la grande maggioranza delle risorse, lasciando agli altri le briciole e il compito di fare da sparring partner, è industria dello spettacolo ma non è più competizione leale, e perciò non è più sport. È da rivedere la Legge ’91 sul professionismo sportivo. È davvero imbarazzante che, nell’attuale momento difficile del Paese, in cui tanti lavoratori dipendenti non sanno come arrivare a fine mese, si debba ammettere che gli sportivi professionisti siano considerati lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, con contributi previdenziali ENPALS e ritenute IRPEF a carico dei Club. Più equo è che tornino ad essere riconosciuti per ciò che in realtà sono: liberi professionisti dello spettacolo, che mettono all’asta le loro prestazioni sul mercato internazionale tramite agenti specializzati. Se tornassero ad essere considerati liberi professionisti l’onere di versare contributi e tasse sarebbe loro, e verrebbe tolto ai club, cancellando il principale motivo di fallimento di questi. Sono tutti motivi per ripensare lo status dello sportivo professionista. Più in generale occorre cominciare a fissare i parametri per evitare che il nostro sistema sportivo agonistico salti sotto la pressione di quella sua parte votata al business dello spettacolo. È questo un rischio che allarma da tempo gli organismi comunitari europei. Nel documento «Evoluzione e prospettive dell’azione comunitaria del settore sport», opera della “Direzione Generale 10 Cultura e sport della Commissione Europea”, pubblicato nel settembre 1998, già si diceva che: «il sistema sportivo europeo rischia di scoppiare sotto la pressione dei gruppi economici che desiderano ispirarsi a formule per lo sport agonistico già sperimentate in altre parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti. Un eccesso di commercializzazione, peraltro, potrebbe rimettere in discussione la solidarietà esistente fra sport professionistico e sport dilettantistico e fra le varie discipline sportive, con il rischio di far scomparire le discipline sportive considerate poco redditizie». Ciò nonostante la strada intrapresa sembra essere proprio questa.
Fonte: www.margheritaperlunione.it | vai alla pagina » Segnala errori / abusi