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Dichiarazione di Giuliano AMATO

Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: L' Ulivo)  -  Ministro  Interno (Partito: Ulivo) 


 

"Nel Pd sono caduti gli steccati ideologici laici e cattolici possono e devono convivere" - Intervista

  • (03 marzo 2008) - fonte: La Repubblica - inserita il 03 marzo 2008 da 31
    «Basta con i vecchi steccati ideologici. Laici e cattolici possono e devono convivere in un grande partito. Lo sforzo di Veltroni va nella direzione giusta: l'et-et non è il frutto di un'incertezza identitaria, ma l'unico modo per ritrovare una responsabilità condivisa e il bene comune tra credenti e non credenti».
    Nel giorno della famiglia in 100 piazze d'Italia, enei pieno di una campagna elettorale dominata dalle polemiche sul rapporto tra religione e politica e tra stato e chiesa, Giuliano Amato torna a parlare dei temi che gli sono più cari.
    Ministro Amato, possibile che il centrosinistra non sia ancora riuscito a trovare un «patto di convivenza» politica tra laici e cattolici?
    «Mi colpisce l'incomprensione che continua ad accompagnare lo sforzo del Pd per ricomporre lo specchio rotto. Sembra che i frammenti dello specchio vogliano dettare le regole del loro superamento. C'è chi sfotte Veltroni perché tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti, cerca di passare dall'aut aut all'et-et. E se non è aut aut, allora è il caravanserraglio. Ebbene, chi la mette cosi merita che gli si dica che non ha capito i termini del nostro problema nazionale e ha perso totalmente la nozione di bene comune».
    Ma lei non teme che per favorire la ricomposizione si finisca per non sapere più cosa dire, e ci si arrenda alle gerarchie ecclesiastiche, o ci si rifugi nella generica libertà di coscienza?
    «La mera libertà di coscienza non è un collante e questo, sia chiaro, vale sia per gli uni che per gli altri. Occorre il coraggio di sapersi affacciare a un territorio comune. Per i non credenti è il coraggio di ammettere che vivono in un mondo in buona parte sconosciuto nel quale, come giustamente dice la carta dei valori del Pd, la stessa condizione umana è oggetto di cambiamenti fatti anche da noi. Quindi serve quel dialogo tra politica, religione e filosofia che definisca i limiti non di ciò che possiamo sapere, ma di ciò che possiamo fare. Proprio Veronesi è uno di quelli che ha sempre auspicato questo dialogo, e non è tra i testardi della "ubris" non credente refrattaria ad ogni limite. Quando leggo invece che io, non credente, non posso stare nel Pd perché riconosce il ruolo delle religioni nello spazio pubblico resto di sasso. Questo, alcuni secoli dopo Galileo, è Galileo alla rovescia. Le questioni che fanno parte dello spazio pubblico per milioni di esseri umani evocano la religione in un mondo ci offre il bene infinito e il male infinito. Nelle nostre giornate entrano le chirurgie non invasive con le quali si riescono a fare meraviglie impensabili 100 anni fa ed entrano le nostre bambine che fanno le cubiste. Allora chiedo a chi è assolutamente certo di se stesso: su che cosa fondi le tue certezze?».
    Per un Odifreddi che lascia il Pd per estremismo laicista, però, ci sono parecchi «devoti» che cercano di imprigionarlo nel neo-guelfismo.
    «Anche dall'altra parte ci vuole il coraggio di capire che il bene comune di una società di diversi non necessariamente coincide con i propri "credenda". Specie nelle società in cui abbiamo più religioni con "credenda" diversi. La settimana scorsa ero in Slo venia a un seminario sul tema "noi e i musulmani', e uno studioso non cattolico ha argomentato che etnie e religioni creano comunità che poi devono convivere in società in cui tutte sono chiamate a un bene comune. Ebbene questo è esattamente Maritain. Se lo ricordino anche quei nostri cattolici per i quali questa distinzione non esiste, e il bene comune coincide sempre con i loro "credenda"». L'accordo con i radicali per il Pd è un problema o un'opportunità?
    «Avere dentro un'espressione storica del laicismo e allo stesso tempo una rappresentanza forte del mondo cattolico è esattamente quello che serve per ricomporre lo specchio. I grandi partiti lo fanno: nessuno pone ai repubblicani americani il problema di avere dentro di sé gli evangelici e i non credenti. Su questo, in Italia, c'è davvero un'inquietante arretratezza dei paradigmi mentali. Vogliamo avere ancora la mappa della politica dei tempi di Porta Pia? No, non ci sto».
    Ci sono anche battaglie oscurantiste, e spesso strumentali. Come vogliamo definire la nuova crociata contro la legge 194?
    «Ferrara lo sa che sulla 194 non c'è molto da aggiungere o da cambiare. Mentre penso che abbia sacrosanta ragione sugli aborti di stato e sull'esistenza nel mondo di legislazioni che legittimano o addirittura richiedono l'aborto. Ma non può fare una campagna nella quale la 194 o le leggi similari di altri paesi civili come l'Italia cadono nello stesso calderone».
    Calderone per calderone: che impressione le fa il programma elettorale del Pdl?
    «Mi chiedo: ma è Tremonti l'autore di quel programma o è un altro? Lui si preoccupa dei rischi che l'economia italiana corre in questo avvio di recessione mondiale. Ma ad essi risponde con promesse più protezionistiche che di sviluppo. Io condivido la sua diagnosi, non la sua terapia. Nel programma del Pdl però non c'è né la diagnosi né la terapia. C'è invece uno straordinario appello al liberalismo, che non vorrei fosse richiesto come prassi solo alla Guardia di Finanza».
    Le sembra realistica la rimonta elettorale di Veltroni? Ci crede anche lei, o lo fa solo per «contratto»?
    «Vivo anch'io la percezione del recupero. Guardo con attenzione alla situazione del Senato dove, grazie alle follie della legge elettorale, è più facile che ci si ritrovi con una situazione simile a quella di due anni fa. Berlusconi allora fece uno straordinario finale di campagna elettorale e recuperò molto. Vediamo cosa succederà adesso. Ma non è un caso che molti di noi facciano il tifo per Obama, uno che è partito molto indietro e che invece oggi è a un passo dalla vittoria». Lei parla come un politico ancora pieno di voglia e di passione. Eppure non si ricandiderà. Cos'è stata la sua: un atto di generosità o una rinuncia forzata?
    «Senta, prima di tutto non è che me ne vado. Continuerò a fare quello che faccio, senza sedere in Parlamento. Ci ho pensato bene, arrivando a 70 anni: concorrere alla politica con le idee più che con il potere personale, in fondo, è quello che ho sempre fatto. Ho confrontato il programma di Morando con quello che avevo scritto perle elezioni europee nel 2005. Ci sono molti punti in comune. Quel programma era il frutto di un'elaborazione schiettamente riformista e fu accantonato quando fu fatto il programma dell'Unione, per parte della quale esso era troppo di "destra". Ora, a distanza di tre anni e senza che nessuno lo abbia evocato, quel programma è tornato. Questo è il segno che il mio lavoro, nel centrosinistra, a qualcosa è servito. Ci ho sempre messo questi semi di programma, e in parte ho contribuito a realizzarli nelle tante esperienze di governo che ho fatto».
    Lei sa che c'è anche chi la critica, per non aver assunto fino in fondo certe responsabilità, o magari in qualche caso per non aver voluto mai accettare fino in fondo certi rischi.
    «Certo, c'è chi mi dice che non ho fatto quello che avrei dovuto, cioè assumere responsabilità di leadership, nell'area socialista dello schieramento e non solo. Penso che chi mi critica per questo, in fondo, mi fa un complimento che non merito: cioè il fatto di avere qualità di leader che non ho utilizzato. Non è vero, perché quelle qualità io non le avevo. Credo di aver fatto molto per la politica italiana. Non voglio auto-elogiarmi, ma vedo il rispetto con cui sono accolto all'estero, l'orgoglio che leggo negli occhi degli italiani quando vengono ad ascoltarmi in qualunque platea, perché un politico italiano che è un ministro che li rappresenta parla a braccio senza mai leggere un precotto scritto da altri e sempre con cognizione di causa su argomenti diversi. Ecco, io questo sono stato in grado di darlo al mio Paese».
    Non le sembra riduttivo? Giuliano Amato, per storia personale e per esperienza politica, non avrebbe anche potuto avere le sue «divisioni»?
    «No, perché non sarei stato capace di guidarle. Ci sono figure così: Antonio Giolitti, per esempio. Ricordo che persino Giorgio Napolitano, nel Pci, fu criticato per lo stesso motivo, e io lo difesi per questo quando presentai il suo libro autobiografico. Non è questione di mancanza di coraggio o di non assunzione di responsabilità. E' questione di consapevolezza di ciò che si è, e di ciò che si è in grado di fare. Ma sia chiaro, il mio non è un commiato, un addio alla politica. Io ci sarò, anche se in un ruolo diverso».

    Fonte: La Repubblica | vai alla pagina
    Argomenti: cattolici, elezioni politiche 2008, pd | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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