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Casca anche Rutelli l’ultimo birillo.
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(29 aprile 2008) - fonte: Il Giornale - inserita il 29 aprile 2008 da 31
Ciò che li ha ammazzati è la presunzione degli intellettuali, la spocchia degli intellettuali, l’arroganza, l’ignoranza degli intellettuali.
Guardi Rutelli, guardi Veltroni e che vedi? Scatole vuote.
Magari dici: simpatici. Belle frequentazioni, bella cravatta, belle case, bel quadro.
Intorno a loro le corti dei pezzenti in cerca di consulenze per cui Rutelli è stato condannato a un risarcimento miliardario.
Corti di psichiatri strademocratici, attricette, venditori di fumo, di musiche copiate, di rap copiati, di film orecchiati, tutti a masticare l’inglese che non sanno, ad alludere alle allusioni degli altri, ad obamare gli Obama degli altri
Roma è caduta. Ma non in mano ai barbari. Roma è caduta in mano ai romani.
Quando cadde in mano ai lanzichenecchi nel 1527 e fu messa a sacco, il Conestabile Borbone perse la testa che gli portò via con una archibugiata Benvenuto Cellini artista criminale come Caravaggio, detenuto in Castello.
Ma quando Roma cadde in mano alle sinistre l’intimidazione intellettuale fu tale che nessuno osò prendere, metaforicamente parlando, alcun archibugio, perché uno dei più pregiati e anche socchiusi intellettuali, l’Argan storico dell’arte, fu insediato in Campidoglio con la sua aria cattivissima di chi soffre di una digestione perennemente irrisolta.
Fu una decisione, allora «del partito», e quando si diceva «il partito» si intendeva «quel partito» e cioè proprio «il» partito, che infatti subito dopo mise a sindaco di Roma l’iracondo, furibondo, odiosissimo Luigi Petroselli che morì d’infarto essendo un fumatore alla turca e su di lui «il partito» creò l’aura del martirio.
Petroselli era morto come se l’avessero ucciso. Poi ci fu Ugo Vetere, meno charmant, ma un piccolo Breznev, per così dire, una parentesi di piccoli imperatori della decadenza che si succedevano disordinatamente e senza lasciar traccia fino alla diarchia Rutelli-Veltroni, Bibì e Bibò, il piacione e il kennediano, l’uno uscito dai lombi di Marco Pannella, l’altro dalla sua storia ben costruita che sappiamo, in un mondo di figurine, panini, chewingum, film, videocassette, libri allegati come gadget.
Sotto le apparenze, nulla. O quasi. Poiché viaggiamo tutti, sappiamo che cosa voglia dire una grande capitale europea: Londra, Barcellona, Parigi, Berlino, Vienna.
Guardate Roma che è Roma, con il tesoro, il prestigio, la potenzialità come si dice oggi.
Che cosa ne hanno fatto? Nulla. Baldorie, carnevali, maratone, estati strillate, concerti rock: una città negata a chi ha superato i sessanta anni e non sa che farsene, di maratone e concerti rock.
Una città in cui se hai bambini piccoli, puoi anche spararti, fatte salve alcune piccole isole di proporzioni minuscole rispetto alla città.
Ieri la caduta della capitale è venuta dal popolo acquartierato fuori dal Campidoglio.
Con Alemanno c’era Benvenuto Cellini e con Rutelli il Conestabile di Borbone coi suoi Lanzi, quelli della peste.
I lanzi dei giorni nostri sono la massa dei disgraziati brutti sporchi e cattivi dell’emigrazione clandestina e sregolata che hanno sparso la nuova peste che è la paura.
Roma non conosceva la paura. Ora la conosce. Oltre la paura, l’oltraggio.
Gli intellettuali schizzinosi, rognosi, superciliosi, gli intellettuali da operetta e da column al veleno hanno osato dare del razzista a chi ha preso la peste della paura.
Se le ragazzine hanno paura di essere stuprate a mezzogiorno uscendo da scuola, sono razziste.
Se le madri e i padri sono incazzati, sono razzisti.
Se gli ultimi gravissimi episodi di violenza spargono peste e paura, allora vuol dire che le vittime sono razziste.
Anzi, fasciste. Abbiamo letto di Valentino Parlato che di Alemanno, giura, sente «il puzzo».
Non «la» puzza, ma «il» puzzo, che è più ideologico, più infamante.
Sono finiti nella discarica, questo è certo.
Ma è anche certo che ci sono finiti da soli.
È come la fine dei dinosauri comunisti che il 13 aprile sono stati ammazzati dal meteorite e si sono estinti.
Bum, ciao. Rifondaroli, neo, post, quasi, comunisti: bianche ossa. Qualche zanna, molte creste.
E così quelli del loft. Già gente che chiama loft l’ufficio è così provinciale, così infantile, così al secondo anno di architettura, così appena tornata da Soho, che bisognerebbe solo per questo mandarla a pedate a studiare e anche a lavorare in una officina meccanica, magari alla fresa o reparto scocche.
Loft. Comunque si sono estinti anche loro. Gli obesi di cultura imparaticchia, orecchiuta e orecchiata, malappresa.
Tutti a toccarsi le palle fino a farsele cadere per terra e poi tutti in ginocchio a ritrovare ciascuno le proprie.
Inutile. La scaramanzia non ha funzionato. Benvenuto Cellini con un colpo di archibugio a uno, una spingardada all’altro, ha portato via a chi la cravatta e, a chi ce l’aveva, la testa.
A sera ieri sul Campidoglio garrivano, ovvero sventolavano con molta allegria, le bandiere tricolori di fronte alla copia quasi perfetta del Marc’Aurelio che non è più quello originale, perché quello gli architetti l’hanno messo sotto chiave.
Noi romani usiamo – usavamo – dire di una persona che rivela lati oscuri e obliqui: «Scopre in oro come il cavallo di Marc’Aurelio».
Adesso quello che ci hanno messo è di plastica, ma la banda dei lanzi che è stata cacciata ha seguitato a scoprire in oro lo stesso fino alla fine.
Loro agivano così: in pubblico mandavano Veltroni, o Rutelli, che ci capivano una cippa e si vedeva, ma che avevano alle spalle «il partito».
Loro cantavano, gorgheggiavano, vestivano, spendevano i soldi degli altri, apparivano.
E dietro di loro «il partito» muoveva i suoi cingoli, i suoi assessori, le sue macchine amministrative. Una armata rossa micidiale, implacabile, vecchia, priva di fantasia, lontana anni luce dalle capacità gestionali che si richiedono per una moderna capitale.
Ma si trattava appunto del feudo del «partito». Il «partito» era e restava il partito indipendentemente dal nome. Chi se ne frega se si chiama oggi Pci, o Pds, o Ds, o Ulivo, o Pd.
Quelli si svegliavano la mattina e guardavano il meteo: come ci chiamiamo oggi? Regolavano l’orologio e andavano avanti.
Il popolo romano è un popolo sanguigno. Quello fiorentino sa essere feroce però è infiocchettato, quello napoletano è spagnolesco anche quando ti taglia la gola, i romani sono più gente da Castello con l’archibugione.
Chiamano capitan Alemanno che è un tipo freddo, tranquillo, uno che parla poco e prende la mira giusta e quello fa aggiustare la mira.
Il popolo di Roma ci mette polvere e palla e il resto è fatto.
Fonte: Il Giornale | vai alla pagina » Segnala errori / abusi