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Dichiarazione di Ferdinando ADORNATO

Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: UDC) 


 

E' ora di aprire un nuovo tempo della Repubblica.

  • (25 luglio 2008) - fonte: Liberal - Ferdinando Adornato - inserita il 26 luglio 2008 da 31

    Si può dire che la transizione italiana sia finalmente compiuta? Si può dire che il quadro sistemico configurato dalle elezioni dell’aprile 2008 sia definitivo e possa, dunque, durare nel tempo? A noi sembra che si debba rispondere di no. Per diverse, obiettive ragioni.

    I quattro nodi irrisolti
    La prima è legata allo scenario storico. Quando, negli anni Novanta, crollò la cosiddetta prima Repubblica, quattro erano le grandi questioni che giustificavano la transizione verso un nuovo tempo della Repubblica: 1) La questione istituzionale, già posta alla fine degli anni Settanta (Craxi) affrontata lungo il corso degli anni Ottanta (De Mita) e infine riproposta, sia pure con colpevole approssimazione, dal movimento referendario. 2) La questione giudiziaria, esplosa drammaticamente in un inedito e pericoloso conflitto con la politica di settori della magistratura, dei media e dell’opinione pubblica. 3) La questione dell’unità nazionale e del federalismo, nel permanente rischio di una frattura storico-sociale tra Nord e Sud. 4) La questione della modernizzazione liberale, sentita come ineludibile, in tutti i campi della vita pubblica, per mettersi al passo con il resto dell’Occidente. Ebbene, tutte queste questioni sono ancora davanti a noi, irrisolte; anzi, incancrenite dal tempo perduto. Abbiamo alle spalle un ventennio sprecato.

    Le pochissime istituzioni riformate (regioni, comuni, legge elettorale) lo sono state in modo approssimativo, obbedendo a suggestioni ideologiche o di convenienza, fuori da un omogeneo disegno nazionale condiviso. Perciò non si può dire che la transizione italiana sia compiuta. Essa lo sarà solo quando tali nodi troveranno finalmente soluzione. Ne consegue che il contesto politico (contenuti, alleanze, legittimazione reciproca etc…) che permetterà di scioglierli, deciderà anche il definitivo assetto del Paese. Chi e come realizzerà finalmente le grandi riforme? Chi e come farà davvero nascere la Seconda Repubblica? È questa la domanda che deciderà il futuro del Paese. E sarebbe un delitto far passare anche questa legislatura senza rispondere.

    In realtà, il contesto dovrebbe essere obbligato: trattandosi di questioni di fondo della nostra vita collettiva bisognerebbe trovare le sedi e gli strumenti per soluzioni condivise. Ma finora non ci siamo riusciti. Il panorama è stato dominato, e ancora continua ad esserlo, da una sorta di guerra civile ideologica nella quale anche una parola debole come “dialogo” si trasforma in una missione impossibile. La Francia di Sarkozy è riuscita in pochi anni a riformare la propria Costituzione. Ed è tornata a giocare un ruolo propulsivo nello scacchiere europeo e mediorientale. L’Italia di questo primo decennio del nuovo secolo è invece imprigionata nelle sabbie mobili dell’impotenza politica.

    Una democrazia senza partiti?
    La seconda ragione della nostra risposta negativa è legata al problema della rappresentanza. Quale che sia il giudizio sui vecchi partiti, neanche i più disinvolti protagonisti dell’antipolitica, risiedano nel Palazzo o fuori, hanno il coraggio di teorizzare (neppure quando la praticano) che sia possibile una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo ciò che oggi rischia l’Italia. Di fronte alla lunga consunzione degli storici insediamenti politici (già prevista da Aldo Moro) e, poi, alla loro traumatica scomparsa, la politica italiana avrebbe dovuto procedere ad un serio lavoro di ricostruzione: dei fondamenti identitari, spiazzati dai mutamenti dell’assetto geopolitico mondiale; della forma partito per renderla adeguata ai nuovi sistemi di comunicazione e alle mutate caratteristiche della partecipazione; dei meccanismi di selezione della classe dirigente, accertato l’esaurimento delle tradizionali sedi di formazione e la crisi del collateralismo.

    In una parola, c’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per individuare la strada di nuovi partiti di massa del XXI secolo. Più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Viceversa abbiamo assistito ad un generale decadimento, a volte imbarbarimento, del pensiero politico. Così, tra i vecchi partiti tramontati e i nuovi partiti necessari, ha vinto la pragmatica e sbrigativa soluzione del non-partito. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: la decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali, oligarchici e padronali; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale.

    La necessità di dotarsi di leader capaci di significative suggestioni simboliche, circostanza normale per ogni democrazia liberale, ha finito, in questo quadro, per determinare l’avvento di un leaderismo senza partiti, fenomeno invece assai anomalo in tutto il mondo occidentale. Dunque, a meno di non voler sostenere l’utopia di una democrazia senza partiti, non c’è dubbio che, anche dal punto di vista della rappresentanza, la transizione non è finita e, di conseguenza, l’attuale assetto sistemico non può considerarsi definitivo.

    Anzi, nel ventennio sprecato, si è perfino aggravata la crisi tra rappresentanza e territorio, creando i presupposti non già di una generica disaffezione, ma di una vera e propria rottura storica, quasi antropologica, tra partiti e cittadini. Eppure non sembra esserci nel mondo politico la necessaria consapevolezza. Ci si accontenta di seguire la logica delle convenienze di breve momento. Ci si illude che la democrazia sia solo la periodica registrazione del consenso elettorale (o dei sondaggi). Non è così. Non è così negli Stati Uniti, figuriamoci se può essere così nello scenario europeo. Quando una democrazia viene ridotta a questo, vuol dire che è già entrata nel tempo della sua crisi. Giacciono ancora irrisolti, negli attuali contenitori, due enormi nodi strutturali: la questione identitaria e la questione democratica. Nodi di fondo, che pongono l’attuale “mercato politico” in aperta contraddizione con l’articolo 49 della Costituzione. Tutto ciò mentre la dialettica dell’economia mondiale determina inediti scenari di pauperizzazione. Il combinato disposto tra crisi democratica e crisi sociale è da sempre un segnale di estremo pericolo per la convivenza civile delle nazioni.

    Il bipartitismo che non c’è
    L’evidenza di tali scenari ha indotto la sinistra e la destra, prima delle ultime elezioni, a realizzare due suggestivi “colpi di scena”: la nascita del Pd e del Pdl, evocando l’avvento di un bipartitismo capace di segnare in modo irreversibile il sistema italiano, e di risolvere i nodi della sua lunga transizione. È davvero così? O siamo di fronte all’ennesima illusione spacciata per realtà? La nostra sensazione è proprio quest’ultima: di trovarci di fronte ad un “finto bipartitismo senza partiti”. L’apparentamento con la Lega da una parte e con l’Italia del Valori dall’altra, assieme alla persistenza di partitini organizzati, ha prodotto in realtà due “coalizioni camuffate”.

    Semplificate certamente, ma pur sempre coalizioni: costruite non già soltanto sulla coerenza del programma, ma soprattutto sulla conquista del premio di maggioranza. Il dopo elezioni ha reso manifesta la finzione: dei rispettivi fronti, Bossi e Di Pietro, hanno subito dato vita a un cinema indipendente. Il risultato è che il governo in carica è, ancora una volta, costretto a mediare quotidianamente tra le diverse posizioni degli alleati. E perfino a registrare imbarazzanti scontri sul valore dei valori: l’unità nazionale. Può un ministro della Repubblica vilipendere gli stessi simboli che dovrebbe rappresentare? E può un maggioranza di governo conciliare uomini come Fini e Bossi che hanno opinioni così diverse su argomenti fondamentali della nostra democrazia? In questo scenario la decisiva discussione sul federalismo fiscale non trova certo il terreno più fertile per diventare davvero una svolta condivisa dell’intera comunità nazionale. Dal canto suo l’opposizione di sinistra non solo ha dovuto rinunciare a fare, come aveva dichiarato, un unico gruppo parlamentare, ma si è trovata costretta a dividersi, anche qui, addirittura intorno ad elementi costitutivi della civiltà politica: il rispetto per il Capo dello Stato e per il Pontefice. Su quali basi allora ci si era presentati assieme alle elezioni?

    Insomma, l’Italia ha inventato il “bipartitismo di coalizione”, evidentemente solo un’illusione scenica, per di più non riuscita. Un bipartitismo di marketing che solo per ciò che riguarda il Pd aveva preso le mosse da una seria operazione politica in favore della governabilità, cioè la rottura con l’area antagonista (per passare poi però dalla padella alla brace con Di Pietro), mentre per il Pdl ha determinato l’opposto: la rottura con una forza di centro. In ogni caso si tratta di un bipartitismo fondato, come si dice oggi, su partiti “liquidi”. Non c’è dubbio, infatti che, sia nel Pdl che nel Pd, sia marcata la sofferenza generata dalla mancata soluzione di quella questione identitaria e di quella questione democratica che segnano, come abbiamo detto, il declino dei partiti nell’attuale fase storica.

    Pdl e Pd: questione identitaria e questione democratica
    Il Pdl. Si tratta, per ora, solo di un “cartello”, figlio di una precipitosa fusione elettorale tra An e Forza Italia. Vedremo quali caratteristiche assumerà dopo la sua costituzione, annunciata per gennaio, ma su alcuni elementi di fondo si può già ragionare. Proprio qui a Todi, abbiamo teorizzato per anni il progetto di una casa comune dei moderati, frutto dell’evoluzione dei diversi partiti del centrodestra lungo l’asse del cattolicesimo liberale. La Casa delle libertà, che non era affatto un ectoplasma, ma un potenziale seme di futuro, poteva essere il laboratorio di una ricostruzione democratica della politica italiana e l’embrione di un nuovo vero partito popolare. Ma Berlusconi ha deciso di recidere questo seme.

    Nella mia relazione a un convegno, che ha avuto una certa eco pubblica, dicevo che il “berlusconismo” non sarebbe stato solo l’espressione di una concezione solipsistica del potere ma il lievito storico di un nuovo orizzonte politico a due condizioni: 1) garantire “la continuità storica dell’alleanza, la sua tenuta, il suo naturale sviluppo” 2) realizzare “la grande operazione culturale di costruire una stabile rete di formazione, di aggiornamento e di promozione della classe dirigente in modo da creare un’estesa e stabile comunità di governo, culturalmente consapevole”. Ebbene non è andata così. La continuità storica dell’alleanza è stata volontariamente cancellata, salvo che per la Lega. Quanto al secondo punto, mi pare evidente che sia stata scelta la strada opposta. E così, purtroppo, il berlusconismo rimane ancora, sostanzialmente, uno stile di potere e di consenso elettorale legati esclusivamente al carisma personale, non il collante storico di una nuova, stabile costruzione politica.

    Così il Pdl va nascendo intorno a “noccioli valoriali” assai diversi da quelli del cattolicesimo liberale e del popolarismo europeo. Il nucleo più forte viene paradossalmente in prestito “dall’esterno”: dalla Lega, che ormai ha fatto prevalere le sue idee forza: la diffidenza nei confronti della globalizzazione, una certa declinazione dei concetti di sicurezza civile, economica e sociale che rimanda più a un protezionismo nord-centrico che al federalismo liberale. Tremonti ne è un magistrale interprete. Un secondo nucleo forte viene interpretato dall’area socialista di Forza Italia, ormai maggioritaria, che offre anche i migliori uomini all’attuale governo. Le parole chiave sono ancora quelle martelliane dei “meriti e bisogni” e quelle craxiane di “modernizzazione e decisionismo”. La resa dei conti con la magistratura è la sua colonna sonora.

    Un terzo nucleo forte, di impronta prettamente berlusconiana, (che rappresenta il vero “spirito di comunità” del Pdl) orienta i concetti di felicità, di autostima personale e di relazioni con l’altro intorno al mito del successo e al dominio dell’immagine. L’importante è raggiungere l’obiettivo che ci si propone; il modo attraverso il quale ci si arriva, conta meno. L’irresistibilità dei sogni che, nel mito americano, è legata al trionfo della bontà e della moralità umana contro ogni ingiustizia, nel mito italiano ritorna così, more solito, all’irrilevanza dei mezzi rispetto al fine. Si tratta dunque di un’aggregazione inedita per la storia d’Italia, una sorta di “nuova destra”, nella quale convivono, finora in modo disordinato, eredità craxiane, ispirazioni post moderne, suggestioni populiste e una forte vena di liberalismo antiburocratico. Forse ha ragione Berlusconi quando descrive il suo movimento come anarchico nei valori: ma proprio qui nasce la questione identitaria del Pdl, tuttora irrisolta e, comunque, lo ripeto, troppo legata alle singole persone (essenzialmente Berlusconi e Tremonti) per garantire la stabilità di un insediamento storico. Certamente ci sono nel Pdl anche numerose aree e personalità legate all’ispirazione cristiana e cattolico-liberale. Di più: per realpolitik il Pdl è sempre molto attento a non creare frizioni con la Chiesa; ma se anche i suoi dirigenti lo negano, esibendo il certificato di garanzia del Ppe, appare abbastanza evidente come i principii e gli esponenti di tali aree, a differenza di ciò che succedeva al tempo della Cdl, rivestono ormai un ruolo del tutto marginale nel core business del partito di Berlusconi.

    Ciò appare del resto del tutto coerente per un soggetto nato escludendo, a priori, ogni rapporto con un partito di ispirazione cattolica, come l’Udc a meno che non fosse disposto, appunto, a rinunciare alla sua identità. Se la questione identitaria rimane, comunque, come è ovvio, controversa e controvertibile, non c’è invece alcun dubbio sul fatto che la questione democratica rappresenti, per il Pdl, una vera spada di Damocle. Sulla scia di Forza Italia, che ha tenuto solo due congressi in tutta la storia, non sono previste strutture ordinarie di discussione. L’unico sistema di promozione sono le nomination del leader e tutti i meccanismi di selezione non sono meritocratici (come si propone al resto del Paese) ma esclusivamente di tipo oligarchico-padronale. Può darsi che la spinta della comunità di An riesca a modificare la situazione.

    Fonte: Liberal - Ferdinando Adornato | vai alla pagina
    Argomenti: legge elettorale, riforme istituzionali, magistratura, democrazia, partiti, comuni, federalismo, globalizzazione, bipartitismo, Regioni, Repubblica | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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