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«Vigilanza europea in capo alla Bce» - INTERVISTA
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(11 ottobre 2008) - fonte: Il Sole 24 Ore - Franco Locatelli - inserita il 11 ottobre 2008 da 31
Per due volte presidente del Consiglio e per tre ministro del Tesoro, Giuliano Amato sa benissimo come si vive una crisi finanziaria da brividi alla guida del Governo e sa che in questi casi l'unica cosa che conta è recuperare al più presto la fiducia dei mercati. Per questo non si sorprende del ritorno dello Stato nelle banche ma, in questa intervista, difende con passione la riforma che porta il suo nome e che avviò nei primi anni 90 la trasformazione e privatizzazione del sistema bancario italiano.
Presidente, il crollo delle Borse sembra inarrestabile e il Fondo monetario internazionale prevede la recessione globale: in una situazione così drammatica che cosa possono e debbono fare i Governi e le Banche centrali?
Nell'immediato possono solo coordinarsi perchè è impossibile creare una global governance dall'oggi al domani. Purtroppo finora hanno detto di voler fare azioni coordinate sul piano internazionale ma hanno fatto poco, anche perché inizialmente c'era in molti l'illusione che, essendo nata negli Usa, la crisi dovesse risolversi esclusivamente là. Adesso si è finalmente capito che non poteva andare così perché i cosiddetti trouble assets hanno fatto il giro del mondo e portato ovunque l'infezione. Ma c'è un'altra ragione per la quale immaginare che la crisi finanziaria si potesse risolvere esclusivamente negli Usa era del tutto fallace.
Quale?
L'effetto panico, che è per definizione irrazionale e che a maggior ragione avrebbe richiesto il massimo di coordinamento tra le autorità centrali. In realtà Governi e Banche centrali sono partiti scoordinati fin dall'inizio.
È una critica che riguarda in particolare l'Europa?
L'Europa ha esercitato un coordinamento superiore a quello che si è registrato a livello globale ma inferiore alle ragioni del nostro mercato europeo, che esige soluzioni uniformi per tutto ciò che è cross-border. Paghiamo il prezzo di non aver provveduto per tempo a dotare la Bce dei poteri di vigilanza su scala europea.
Non è da oggi che si invoca una vigilanza finanziaria e bancaria di tipo europeo: perché non ci si è mai arrivati?
Perché si è preferita la politica dello struzzo. Non dimenticherò mai la riunione dell'Ecofin alla quale partecipai come ministro del Governo italiano per esaminare il Rapporto Lamfalussy prima che nascesse la Bce. In quell'occasione ricordo perfettamente che i governatori delle Banche centrali nazionali ci avvertirono che, in caso di crisi sistemica, in Europa mancava un'autorità competente, ma ci pregarono anche di cancellare dai comunicati finali qualunque riferimento in proposito perché, a loro avviso, poteva creare ansietà sui mercati e tra gli investitori.
Così l'Europa è arrivata impreparata a una crisi come quella di questi giorni e la vigilanza europea è rimasta una chimera.
Abbiamo convissuto per anni con un potenziale esplosivo in cantina e adesso che la crisi sistemica è arrivata ci sentiamo disarmati. Ecco perché è ancora più urgente di prima dotare la Bce di poteri di vigilanza e realizzare il massimo di coordinamento tra i Governi.
Qualche tentativo c'è stato e ancora adesso si ipotizzano nuovi vertici internazionali d'emergenza.
Il fatto è che non si è andati al cuore del problema perchè non si è trovata la strada giusta per far scattare la scintilla della fiducia, che dipende da molte variabili ma che oggi più che mai è la chiave di tutto. Finché ognuno va per conto suo in un mondo che è ormai globalizzato è difficile recuperare la fiducia dei mercati.
È questa la ragione per cui nemmeno il piano Paulson è bastato?
Evidentemente anche il piano americano è stato giudicato insufficiente nelle sue modalità e nell'entità dei suoi stanziamenti. Gli Usa hanno destinato 700 miliardi di dollari alla sterilizzazione dei titoli tossici ma negli stessi giorni in cui si varava il piano Paulson l'Fmi ha stimato che i trouble assets sparsi nel mondo ammontano a 1.400 miliardi di dollari. Anche l'uomo della strada capisce che per superare la crisi c'è ancora molto da fare.
Nouriel Roubini ha messo sotto accusa le Banche centrali sostenendo che dovrebbero ridurre i tassi d'interesse di almeno un altro punto: lei che cosa ne pensa?
Siamo sicuri che riducendo di un altro punto i tassi si recupera la fiducia dei mercati? Non lo so, ma il problema è tutto qui.
Come si riaccende la scintilla della fiducia?
Nessuno conosce la formula magica. La fiducia è un valore impalpabile, che dipende dalle circostanze ma che certamente non è solo un elemento tecnico. Qualche volta si può recuperare cambiando le facce, qualche altra cambiando le regole oppure cambiando le une e le altre.
Lei da dove comincerebbe?
Mi ha fatto molto pensare il caso Lehman. Credo che ci sia anche qualcosa di ancestrale nei meccanismi che stanno alla base della fiducia. Per recuperarla talvolta bisogna passare anche dalla punizione di chi ha sbagliato. E poi bisogna accertare dove sono le polpette avvelenate dei trouble asset e chi li tiene in casa. Non è accettabile che si sappia che ci sono ma non chi le ha e quante ne ha. Se il marcio non salta fuori la sfiducia rimane e la speculazione è inarrestabile.
In una situazione così difficile come giudica l'operato del Governo Berlusconi?
Complessivamente mi pare che si sia mosso bene, anche se da ultimo ci sono state dichiarazioni pericolosamente estemporanee. Si è cercato il coordinamento a livello europeo e si è approvato un decreto sulla stabilità delle banche e sulla difesa del risparmio che ha l'obiettivo di bloccare il panico. Anche il discorso che il ministro Tremonti ha fatto giovedì in Parlamento è stato chiaro e condivisibile. Si può discutere qualche aspetto delicato del decreto anti-crisi ma la filosofia è giusta.
C'è chi rileva nel decreto aspetti ambigui nel rapporto tra Tesoro e Banca d'Italia e tra Tesoro e manager bancari: la sua opinione qual è?
Spero che nella discussione parlamentare si accentui il carattere assolutamente provvisorio e contingente dell'eventuale ingresso dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà.
Lei ha dato il nome alla riforma che ha trasformato le banche italiane e ne ha avviato la privatizzazione: che impressione le fa vedere che il pendolo ritorna indietro e che lo Stato rientra in forze nel credito?
Prendo atto che il ritorno dello Stato nelle banche non è dovuto al fallimento del mercato ma al fallimento di un mercato, quello statunitense, provocato dall'infelice e malaugurata regolazione con cui lo si è abbandonato a se stesso. Ecco perché nei fatti di questi giorni non vedo smentita la riforma che porta il mio nome. Noi paghiamo colpe che non abbiamo e cioè l'effetto del fallimento della regulation americana e di fenomeni parossistici che dovevano essere affrontati prima.
Se fosse ancora a Palazzo Chigi o al Tesoro, anche lei avrebbe deciso il salvataggio pubblico delle banche?
Se per salvare le banche non c'è altro modo che far intervenire lo Stato è giusto e doveroso farlo, purché sia ben chiaro che si tratta di un intervento temporaneo e che si possa tornare quanto prima al capitale privato.
Cambierà anche in Italia il modo di fare banca? Non sarebbe il caso di mandare in archivio la banca tuttofare?
La banca tuttofare funziona se davvero si sa fare tutto bene, altrimenti è meglio concentrarsi su quel che si sa realmente fare. Non so se toccherà a noi aggiornare le regole o se la nuova regulation non debba partire dagli Usa ma certo c'è molto da cambiare, a cominciare dalle regole contabili e dal ruolo delle agenzie di rating, che sono gravate da continui conflitti d'interesse. Quanto a noi non possiamo davvero perdere l'occasione per costruire al più presto la vigilanza europea.
Fonte: Il Sole 24 Ore - Franco Locatelli | vai alla pagina » Segnala errori / abusi