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La prima della Scala è inutile, aboliamola.
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(09 dicembre 2008) - fonte: La Stampa - inserita il 18 dicembre 2008 da 3625
La prima della Scala? Aboliamola. È un rito o provinciale o inutile o irritante. O più probabilmente tutte e tre le cose insieme. Il day after del mezzo fiasco del Don Carlo è stato utilizzato per fare la radiografia dei fischi e dei «buuu!» che hanno accolto, in ordine decrescente di disapprovazione, il regista Stéphane Braunschweig, il direttore Daniele Gatti e la compagnia cantante. Tante le ipotesi. Sono stati i vedovi di Muti. Anzi, i sostenitori di Giuseppe Filianoti, il tenore dimissionato prima della prima. Macché, i soliti guastatori che vengono da fuori (Parma e Piacenza, pare), mandati da chissà chi. No, sono quelli che non vogliono Gatti come possibile futuro direttore musicale della Scala. E avanti così, ad libitum.
Ma tutto questo esercizio dietrologico è peggio che insulso: è inutile. Perché il punto è un altro. È che il Sant’Ambroeus scaligero non ha più alcun significato. Un tempo, era una festa cittadina, il momento in cui Milano si autocelebrava festeggiando i suoi simboli sacri e profani, cioè il suo Santo e il suo Teatro. Ora, il Santo non si sa, ma certo nel Teatro non si rispecchia più la Milano tradizionale. Da troppi anni, la prima è un’insensata fiera delle vanità che vede sfilare ogni sorta di improbabili personaggi, impegnati a mimare un rito sociale e culturale di cui sanno poco e capiscono niente.
Una volta, le vere grandi famiglie milanesi facevano della Scala il loro blasone, investendoci soldi, passione e competenza. Ma i tre quarti degli spettatori di domenica non avevano la più pallida idea di cosa siano il Don Carlo o Verdi: erano lì non per vedere, ma per farsi vedere. E l’opera diventava semplicemente una cornice, più lunga e fastidiosa di un concerto rock o di una sfilata di moda o di un qualche evento benefico (anzi, charity: questa gente parla così) a favor di telecamere. E infatti non c’è niente di più avvilente che leggere i loro commenti, salvo forse il fatto che i giornali li pubblicano. Al massimo, gli happy few arrivano a dire che il tenore è un ciccione o che le scene sono spoglie. Come dire che la Divina Commedia ha dei bei versi o Gauguin usa molto colore.
E poi la rilevanza mediatica dell’avvenimento, anzi dell’Evento, come lo chiamano, è sì l’unica occasione in cui l’opera finisce in prima pagina. Però ci finisce per le ragioni sbagliate. Non perché il presente e possibilmente il futuro del più importante contributo della civiltà italiana a quella mondiale negli ultimi tre secoli stia a cuore alla cosiddetta pubblica opinione. Ma perché diventa importante sapere cosa ne pensano Valeria Marini o Marta Marzotto, mentre la Scala, che segue una sua linea intellettuale e culturale, discutibile com’è discutibile tutto, ma ben definita, è ostaggio del primo pirla che compra un biglietto ed è di malumore (il che non significa affatto che non si possa fischiare, pratica legittima e talora doverosa. Ma che bisognerebbe non farlo in maniera così becera e scopertamente prevenuta: che il Don Carlo sarebbe stato massacrato lo si sapeva da una settimana almeno). Stéphane Lissner ha visto giusto: la vera prima della Scala, anzi la vera prima degna della Scala, è stata l’anteprima per i giovani di giovedì. Per preparazione, compostezza ed eleganza (quella vera, non i vestiti dei sarti, sorry, stilisti) a Milano i ragazzi battono tre a zero i notabili. Che è poi l’unico motivo di consolazione, o almeno di speranza.
Infine, l’ultima ragione per cui la primona va abolita è che nel resto del mondo civilizzato non esiste. Non è qui il caso di riaprire la questione se ai teatri italiani convenga o no il modello «di stagione» piuttosto di quello «di repertorio». Né di negare che con Lissner la Scala abbia molto aumentato la sua produttività, che del resto prima era indecente. Sta di fatto però che le recite d’opera nel 2008/9 saranno 228 a Vienna, 194 a Zurigo, 170 a Parigi, 164 a Monaco, 101 a Milano (e 15 a Napoli). Un teatro non dovrebbe «aprire». Perché non dovrebbe chiudere mai.
Fonte: La Stampa | vai alla pagina » Segnala errori / abusi