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Amo Israele, ma a Gaza esagera le armi portano in un vicolo cieco
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(07 gennaio 2009) - fonte: repubblica.it - inserita il 07 gennaio 2009 da 100
CARO direttore, ho letto con emozione l'appello di Abraham Yehoshua che chiede una tregua a Gaza, subito. Qualche giorno fa Yehoshua aveva considerato inevitabile una reazione militare di Israele ai razzi di Hamas; ma ora, di fronte alla tragedia di Gaza, si rivolge al suo governo con parole di grande dignità e saggezza. "I palestinesi sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza."Più avanti egli aggiunge: "Faremmo bene a levarci dalla testa al più presto l'illusione di poter annientare Hamas, di poterla sradicare dalla striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile." Ci sarebbe poco da aggiungere a queste considerazioni, se non l'ammirazione verso il coraggio e la lungimiranza di una delle più grandi personalità della cultura israeliana; ed insieme verso una società democratica nella quale, sia pure in un momento così drammatico, si mantiene aperto un dibattito così significativo e radicale.
Quanta distanza rispetto alla virulenza ideologica, all'aggressività e alla rozzezza che si manifestano nel dibattito pubblico nel nostro paese. Non posso che rilevare con amarezza che può accadere di essere additati come estremisti solo per aver ripetuto le parole di critica del presidente Sarkozy o del segretario generale dell'Onu per la violenza sproporzionata della reazione israeliana. Cosa che appare tra l'altro evidente al buon senso di qualsiasi persona alle immagini di distruzione ed alla tragica contabilità dei morti. Colpisce anche la distorsione e la deformazione delle questioni reali e delle opinioni espresse. Tutto sembra ridursi all'interrogativo retorico: "Trattare o no con Hamas?".
Ora è chiaro che la questione è posta così in termini esclusivamente ideologici e simbolici. Dal punto di vista politico, al di là di ogni ipocrisia, è evidente che la trattativa con Hamas si è avviata sia attraverso l'Egitto, sia con il viaggio di Sarkozy in Siria, sia attraverso contatti discreti in atto da tempo da parte di funzionari di diversi paesi europei. È ovvio che la tregua deve comportare la garanzia che cessi il lancio di razzi contro Israele e anche per questo sarebbe utile, a mio giudizio, una presenza di osservatori internazionali sul terreno come da tempo sostengo e come proposi in qualità di ministro degli esteri del nostro Paese.
Spero che questa trattativa abbia successo. Spero che il governo israeliano voglia intendere l'appello di Abraham Yehoshua. Dall'altra parte è evidente a tutti che non si può chiedere a Israele di negoziare un trattato di pace con Hamas fino a quando questi non riconosce lo stato di Israele e il suo diritto a esistere. Ma nessuno infatti lo chiede e ogni polemica su questo punto è solo uno stucchevole esercizio retorico. È con l'Autorità nazionale palestinese e con il presidente Abu Mazen che il governo israeliano negozia da circa un anno. Ero ad Annapolis nel momento in cui tenendo le mani di Olmert e di Abu Mazen, il presidente Bush assunse l'impegno solenne che entro la fine del suo mandato ci sarebbe stato un trattato di pace tra israeliani e palestinesi. E non era un mistero l'intenzione di Abu Mazen di sottoporre quel trattato ad un referendum con l'obiettivo di riunificare il popolo palestinese nel segno di una politica di pace, ridimensionando democraticamente il ruolo di Hamas. Avevamo sostenuto e incoraggiato questo processo.
Quali sono i risultati? Un anno di defatiganti trattative che hanno logorato il prestigio e la credibilità della leadership palestinese senza alcun sostanziale passo in avanti. Non vi sono in questo anche le responsabilità del governo israeliano e della comunità internazionale? Ma non si capisce che è proprio questo fallimento della politica, questa mancanza di coraggio e di generosità che ridanno forza al radicalismo di Hamas? Strano destino quello di quei palestinesi che ora tutti chiamano moderati. Gli Usa, l'Europa, Israele dicono di volerli aiutare ma spesso sembrano non considerarli neppure meritevoli di rispetto e di ascolto. È Abu Mazen che chiede che si fermi la guerra israeliana a Gaza. Non Hamas: i capi di Hamas sono divisi, ma la parte più radicale di essi sa che la guerra alimenta l'odio e il fondamentalismo e che i martiri di Gaza infiammeranno il mondo arabo e renderanno ancora più precarie e vacillanti le leadership legate all'occidente.
D'altro canto Israele ha già ucciso negli ultimi anni decine e decine di dirigenti di Hamas a cominciare del fondatore del movimento, lo sceicco Yassin. Ma non ha risolto alcun problema. Perché con gli assassinii - ancorché mirati - non si risolvono i problemi politici. Perché l'uso della forza è a volte inevitabile, ma deve essere al servizio della politica e del diritto e non può sostituirsi ad essi. Ecco perché ci si deve fermare. Non solo per l'intollerabile prezzo di vite spezzate e di bambini uccisi; ma perché la vittima politica di questa guerra rischia di essere proprio la speranza di pace e la leadership palestinese più moderata e aperta. Conosco Abu Mazen da molti anni. Ero con lui il giorno in cui il parlamento palestinese gli votò la fiducia come primo ministro scelto - molto mal volentieri - da Yasser Arafat. Volevo che egli sentisse il sostegno nostro e dell'Internazionale socialista al leader che con maggiore coraggio aveva sempre contrastato il terrorismo e difeso la via pacifica e non violenta all'indipendenza palestinese.
Ora ha bisogno di essere aiutato a porre fine alla tragedia di Gaza anche per non finire in uno stato di impotenza e di delegittimazione.
Sarebbe davvero un esito tragico e paradossale per la grande crociata dei neoconservatori che volevano portare la democrazia nel mondo islamico concludere il proprio mandato con la demolizione di uno dei pochi embrioni di democrazia che esistono nel mondo arabo. E sarebbe una tragedia per Israele condannata a convivere per sempre con l'anarchia e con il terrorismo.
Vorrei rassicurare il dottor Pacifici che non sarei comunque andato ad una manifestazione per Israele che non sembra tenere in alcun conto le ragioni e la tragedia dei palestinesi così come nei giorni scorsi non sono andato a manifestazioni per la Palestina nelle quali non si riconoscevano i diritti del popolo israeliano. Chi vuole la pace deve essere vicino alle ragioni dell'uno e degli altri. Come facemmo noi con il governo Prodi nel Libano, contribuendo a fermare la guerra e schierando i soldati italiani ed europei per proteggere sia i libanesi che gli israeliani.
In quell'agosto del 2006, come si ricorda, fui a Beirut tra le macerie dei bombardamenti. Dopo aver incontrato a Gerusalemme i familiari dei militari israeliani catturati da Hezbollah (ma questo non lo si ricorda perché non è utile alla propaganda). In quello stesso 14 agosto scrissi da Beirut una lettera personale a David Grossman, il cui figlio era caduto combattendo per il suo paese nell'ultima notte di guerra. Egli volle poi ringraziarmi e mi donò un suo libro con una dedica con parole affettuose per il mio impegno per la pace in quella tormentata regione del mondo. Questa è l'Israele che amo e nessun comunicato del bellicoso dottor Pacifici potrà cancellare la forza di questo legame.
Fonte: repubblica.it | vai alla pagina » Segnala errori / abusi