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Dichiarazione di Nicola MANCINO
«Il Parlamento scelga i reati da perseguire. Troppi giudici al Csm va ridotto il peso delle correnti» - INTERVISTA
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(07 gennaio 2009) - fonte: Corriere della Sera - Giovanni Bianconi - inserita il 07 gennaio 2009 da 31
Dice Nicola Mancino, vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura: «Si sentono troppo spesso dichiarazioni da cui emerge una voglia di "fare la guerra", per esempio contro i magistrati, che sembrano sottolineare la volontà di "riformare contro", piuttosto che di riformare. Ma sono del tutto inutili».
Perché inutili, presidente?
«Perché la guerra non si fa. E poi perché si creano condizioni di incomunicabilità che non aiutano, mentre su materie come la giustizia le distanze tra maggioranza e opposizione andrebbero superate, come auspicato dal capo dello Stato».
Lei è sicuro che ciò sia possibile?
«Sicuro no, fiducioso sì. Una maggioranza parlamentare solida come quella uscita dalle ultime elezioni ha una responsabilità in più nella ricerca del dialogo e deve essere convinta che riforme così importanti, per lasciare un segno profondo e durevole, hanno bisogno dell'apporto dell'opposizione. E l'opposizione, ovviamente, deve predisporsi al confronto, senza pregiudiziali e senza attendere di dire la sua solo dopo avere conosciuto le proposte del governo».
Ha in mente qualche intervento per ridurre i tempi dei processi troppo lunghi e costosi?
«Buona parte dei codici sono superati, e non è più tempo di aggiunte o di modificazioni a testi emanati da molti decenni. Per quanto siano state apportate modifiche anche apprezzabili ma non ancora definitive al codice di procedura civile, resto dell'idea che il ricorso alla delega sulla base di principi e criteri oggettivi sia lo strumento più efficace da porre a disposizione di un gruppo di esperti coordinato dal ministro. I lavori della commissione Pisapia sulla riforma del codice penale, e della commissione Riccio sulla procedura penale possono essere un'utile traccia anche per l'attuale governo».
Intanto però il dibattito s'infiamma su altre proposte di riforma. L'ultima, del ministro-ombra del pd, prevede tre giudici anziché uno per decidere l'arresto di un indagato.
«Personalmente sono d'accordo. In occasione della discussione del decreto- rifiuti in Campania, il Csm non solo condivise che su quell'area fossero tre i giudici delle indagini preliminari, ma pose anche il problema di estendere la composizione collegiale all'intero territorio nazionale».
Ma poi c'è il rischio che i giudici non bastino.
«Si potrà attingere dai concorsi in atto e recuperare magistrati attraverso la riforma delle circoscrizioni giudiziarie, chiudendo uffici che non hanno più ragione di esistere; compito, quest'ultimo, che spetta principalmente al ministro della Giustizia, anche se difficile e impopolare. Le questioni di garanzia dovrebbero sempre prevalere rispetto alla penuria di persone e di mezzi; nel settore penale la deroga al principio della collegialità è sempre un problema. Tre giudici in luogo di uno possono evitare alcune gravi anomalie, come quelle verificatesi, ad esempio, nei recenti casi di Pescara e di Potenza».
Lei parla di gravi anomalie in inchieste che riguardano amministratori locali ed esponenti politici, mentre i magistrati ribattono che il vero problema è la corruzione.
«Che va certamente colpita, ma con provvedimenti giudiziari che rispondano a requisiti di equilibrio e di "giustezza" che in alcuni casi sono sembrati trascurati».
E del presunto abuso delle intercettazioni nelle inchieste giudiziarie che cosa pensa?
«Che debbano servire a completare, non a dare inizio a un'indagine. Ma anche che non è giustificabile tenere fuori dall'ambito in cui possono essere utilizzate reati come la corruzione e la concussione».
C'è pure chi mette in discussione il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Lei è sempre a favore?
«Non io, ma la Costituzione. Tuttavia mi rendo conto che, in tempi di emergenza come gli attuali, se si vuole evitare che la scelta dei processi sia operata dai pubblici ministeri, solo il Parlamento a maggioranza qualificata, del 65 o 70 per cento, può stabilire le priorità».
Quale emergenza, scusi?
«Quella dei troppi procedimenti pendenti, per cui c'è il rischio che siano i singoli magistrati a scegliere quali trattare. Meglio allora che sia il Parlamento, con una maggioranza che coinvolga almeno una parte dell'opposizione, a stabilire le priorità sui reati da perseguire. Ma sempre come soluzione temporanea a situazioni eccezionali. Col ritorno alla normalità, dopo la riforma, una potatura dei reati che non destano più allarme sociale è una strada da percorrere».
Il governo annuncia di voler separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, che vogliono chiamare "avvocati dell'accusa"...
«Penso che il pubblico ministero debba continuare a fare parte dell'ordine giudiziario sia pure con funzioni fortemente differenziate rispetto al giudicante. Non mi piace la figura di un pm ghettizzato nella sua esclusiva funzione inquirente, che non subito ma nel tempo sarebbe destinata a dare attuazione a indirizzi punitivi governativi, quindi di parte. L'accusa dev'essere obiettiva, documentata; nell'ultima riforma del codice è stabilito che, ove emergessero prove di innocenza, il pm è tenuto a chiedere l'assoluzione dell'imputato. Un pm-parte che più parte non si può, farebbe altrettanto? Quanto all'uso di certi termini, mi pare che ci sia una certa dose di dilettantismo. Del resto, con la riforma Castelli-Mastella e la decadenza automatica di tanti incarichi direttivi dopo otto anni trascorsi nella stessa sede, non c'è stato un passaggio consistente di magistrati da una funzione all'altra. Segno che già oggi la prima scelta del magistrato condiziona lo sviluppo della sua carriera».
E l'idea di un Csm separato per i soli pubblici ministeri?
«La previsione costituzionale di attribuire al capo dello Stato la presidenza del Consiglio superiore si è mostrata, in cinquant'anni di esperienza, lungimirante e stabilizzatrice, e ha permesso di superare fasi di stallo e soprattutto le a volte aspre polemiche nate dal difficile rapporto politica-giustizia. Proprio il ruolo super partes del Presidente della Repubblica è stato e resta garanzia della unicità, in un solo organismo, della rappresentanza della magistratura, sia inquirente che giudicante».
Alcuni sollecitano una diversa composizione del Csm, in prima fila l'ex magistrato e ex parlamentare Luciano Violante. Qual è il suo parere?
«Sono contrario ad aumentare il peso dei laici rispetto ai togati, ma l'attuale differenza è eccessiva. Ferma restando la presidenza del Capo dello Stato, una tripartizione della composizione affidata per un terzo ai magistrati, per un terzo al Parlamento e per un terzo al presidente della Repubblica mi pare equamente distribuita. La riforma costituzionale potrebbe confermare il vincolo della scelta parlamentare tra avvocati che abbiano esercitato da almeno quindici anni e professori ordinari di diritto, e stabilire che le nomine attribuite al capo dello Stato (giudici di sperimentata professionalità e docenti di diritto) assicurino nell' organo di autogoverno una prevalenza complessiva di togati».
Perché ritiene necessario diminuire la componente togata?
«Perché l'attuale sproporzione ha giocato più a favore della correntizzazione che non di una libera rappresentanza delle diverse componenti in seno all'organo di autogoverno, scelta peraltro attraverso leggi elettorali sbagliate. Con la rappresentanza dei due terzi contro un terzo è più facile cedere alla tentazione distribuire i posti a seconda dell'appartenenza alle correnti».
Ma con la sua proposta non si rischia di rafforzare in maniera eccessiva la posizione del capo dello Stato?
«I costituenti furono saggi nel preferire la presidenza del Capo dello Stato a quella di supremi magistrati. L'esperienza conferma che nel cinquantennio è stato fatto buon uso del potere presidenziale: non sono mancati saggezza, equilibrio e imparzialità ».
Fonte: Corriere della Sera - Giovanni Bianconi | vai alla pagina » Segnala errori / abusi