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Dichiarazione di Luciano VIOLANTE


 

Federalismo fiscale solo con la riforma costituzionale

  • (22 gennaio 2009) - fonte: Il Riformista - Luciano Violante - inserita il 22 gennaio 2009 da 31

    Ieri al Senato si è discusso dei costi del federalismo fiscale. Il Pd ha chiesto di conoscerli prima di procedere nell’esame degli emendamenti. Il ministro Tremonti ha spiegato che non è possibile definire l’impatto economico della riforma: il testo prevede un elevato numero di variabili e gli effetti finanziari dipendono dalle scelte concrete che verranno decise dai decreti delegati. Solo a quel punto si potranno stabilire le cifre.

    Chi ha ragione e chi ha torto? Questa volta hanno ragione tanto l’opposizione quanto il Governo. Ha ragione l’opposizione perché è difficile esprimere un voto su un testo con costi sconosciuti, votato in commissione dalla sola maggioranza, sostenuto da un Governo di cui non si fa parte. Ha ragione il ministro quando dice che non è possibile allo stato definire i costi di una riforma che, in pratica, è ancora tutta da scrivere. L’ex ministro dell’Interno Pisanu ha cercato una mediazione «se i conti non dovessero tornare si ritornerà sulle scelte».

    Questo progetto di legge è, in pratica, un’autorizzazione in bianco che il Parlamento dà al Governo per scrivere le norme del federalismo fiscale. I parametri sono incerti; l’incertezza è accentuata dalla diversificazione delle fonti di informazione della finanza pubblica. I bilanci regionali non sono omogenei perché le Regioni non usano modelli contabili standardizzati. L’Isae ha rilevato che la contabilizzazione di alcune poste rilevanti di Comuni e Province è guidata da criteri errati. Insomma sarà necessaria una completa ricomposizione di tutti i bilanci delle Regioni e degli enti locali prima di definire quanto si dà e a chi si dà. Alcune cifre orientative però non mancano. Sempre secondo dati Isae, dal 1999 al 2003 il 95% della spesa da decentrare è cresciuto del 33%, quasi il doppio della crescita della spesa pubblica complessiva (18%). Lo sbilancio complessivo, inoltre, se si eliminassero le fonti di finanziamento del federalismo fiscale oggi non previste dalla Costituzione, sarebbe di ben 121 miliardi di euro. Prudenza, allora.

    Il federalismo fiscale non è un colpo di bacchetta magica. Più si esaminano i dati e più ci si rende conto che si tratta di un processo che sarà lungo, richiederà continui aggiustamenti e che, in un periodo di grave crisi economica, esige una cautela del tutto particolare.

    Però non si tratta di un capriccio della Lega. È imposto dalla Costituzione, che nell’articolo 119 indica i principi fondamentali in materia di ripartizione delle risorse tra Stato e regioni. E un necessario complemento, inoltre, del federalismo istituzionale, varato nel 2001 dal centrosinistra. La ripartizione del potere politico tra centro e periferia non può essere disgiunta per troppo tempo dalla ripartizione delle risorse necessarie per esercitare quei poteri. Un disegno di legge fu presentato dall’esecutivo Prodi nella scorsa legislatura, ma la caduta del Governo ne impedì l’esame. Il ministro Calderoli ha presentato il suo testo, che in parte riprende i principi della proposta precedente, mostrandosi molto disponibile al confronto con le opposizioni tanto che la presidente Finocchiaro ha auspicato che il "metodo Calderoli" possa essere esteso anche alle altre riforme.

    Ma a questo punto che fare con il federalismo fiscale? Le commissioni hanno notevolmente migliorato il testo, inserendo tra l’altro quella commissione Bicamerale per esprimere i pareri sui decreti delegati, proposta nel convegno di Asolo da D’Alema e Fini. Il nuovo testo, inoltre prescrive che, insieme al primo decreto delegato, il Governo presenti una relazione di carattere finanziario con l’indicazione delle possibili ripartizioni delle risorse tra Stato e Regioni. Se l’Aula lavorerà senza pregiudizi il testo potrebbe essere ulteriormente precisato riducendo equivoci e contraddizioni.

    Ma tre cose devono essere chiare. Il Parlamento, approvando la delega, si spossessa del testo e non ha più il controllo dei costi della riforma, controllo che costituisce la ragion d’essere fondamentale di un Parlamento. Si può discutere della possibilità che il Governo assuma l’impegno politico di modificare la propria proposta qualora la Bicamerale, con una maggioranza particolare, esprima parere negativo sul punto dei costi? Il federalismo, secondo, non può entrare in vigore "a rate". Deve entrare in vigore solo quando, nel termine di due anni, tutti i decreti delegati saranno approvati. Il federalismo fiscale, infine, ha bisogno del Senato federale, un luogo istituzionale dove Stato, Regioni ed enti locali possano confrontarsi alla luce del sole e possano tenere nell’unità nazionale un processo che altrimenti rischia di creare fratture difficilmente componibili. Una Repubblica federale esige uno Stato centrale forte ed efficiente almeno quanto la Regione più forte e più efficiente. Bisogna legare il federalismo fiscale alla riforma costituzionale; altrimenti si rischia il disastro.

    Fonte: Il Riformista - Luciano Violante | vai alla pagina

    Argomenti: parlamento, enti locali, riforme istituzionali, federalismo fiscale, riforme, governo prodi, senato, Regioni, Riforme costituzionali, Governo Berlusconi IV, finanza pubblica | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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