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Dichiarazione di Patrizia BUGNANO

Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: IdV) 


 

Testamento biologico

  • (24 marzo 2009) - fonte: Senato - inserita il 25 marzo 2009 da 4405
    PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Bugnano. Ne ha facoltà. BUGNANO (IdV). Signor Presidente, in premessa al mio intervento preannuncio alla Presidenza che rinuncerò a parte del tempo a mia disposizione, in favore del collega Lannutti che interverrà successivamente. Intanto mi dispiace che siano pochi i colleghi presenti in Aula. Mi rivolgo al Governo, che ringrazio, e ai colleghi per richiamare i presenti a quel principio costituzionale di laicità, che ci impone di approvare una legge che sia il frutto di un libero confronto tra diverse sensibilità politiche, etiche e religiose e non la schematica trasposizione giuridica delle tesi cattoliche sulla vita e sulla morte. Analogamente credo che tutto le confessioni religiose si debbano astenere dall'ingerirsi nelle decisioni prese dai diversi poteri di uno Stato laico, come quello italiano, e che in materia di coscienza e di fede nessuno possa imporre con la coercizione convinzioni ispirate a qualsiasi credo. Per questo auspico un confronto davvero pluralistico e non affrettato su un tema così delicato. La laicità, dunque, quale valore irrinunciabile di uno Stato, in quanto valore irrinunciabile della nostra Carta costituzionale. Laicità significa che nessuna convinzione religiosa o morale viene imposta per legge da un gruppo di persone, per quanto ampio, alla totalità dei cittadini. Ed allora possiamo serenamente partire da alcuni princìpi faro, che sono stati già richiamati negli interventi di questa mattina. La Costituzione della Repubblica nel suo articolo 32, la Convenzione di Oviedo e numerose sentenze della Cassazione degli ultimi anni stabiliscono in modo tassativo che nessun cittadino - ripeto nessun cittadino - può essere sottomesso a interventi nel campo della salute senza il suo consenso (debitamente informato) e che tale consenso può essere ritirato in qualsiasi momento. La Convenzione di Oviedo poi evita ogni distinzione tra cura e altri interventi di sostegno vitale, proprio perché non si possa giocare sulle parole e violare così il diritto del paziente a rifiutare un trattamento medico-ospedaliero (tranne che ovviamente nei casi eccezionali di epidemie, vaccini e per motivi di sicurezza pubblica). Allora cosa si può e si deve fare per accordare il diritto positivo alle emergenze valoriali dell'etica di fine vita indotte dal progresso tecnologico in medicina, che oggi ci dà possibilità d'intervento e di omissione nella cura prima impensabili? La buona pratica medica sa che i protocolli scientifici e terapeutici sono sempre da interpretare al letto del malato, che è una persona concreta, un'individualità effettiva anche come risposta meramente biologica alle terapie e non un caso clinico come semplice ricorrenza statistica di una fenomenologia patologica, affrontabile sempre e comunque nello stesso modo. In questo settore, dove niente è pacifico, dove lo stato vegetativo permanente non trova nel criterio della morte cerebrale un'univoca percezione che con l'integrità della persona sia anche cessata l'individualità non disponibile della sua vita biologica, che non è un cadavere ma che non è neanche certo più una persona, che fare? I valori che entrano in conflitto sono noti. Da un lato c'è l'evidenza ontologica dell'indisponibilità individuale della vita, dall'altro c'è il valore dell'autonomia individuale la cui scoperta e la cui enfasi ha storicamente costruito la possibilità stessa dei diritti umani. Come rispettare quella evidenza senza ledere questo valore? L'unica strada percorribile è forse attenersi proprio al lascito personale di una volontà espressa nella pienezza dell'autonomia della persona; da qui la liceità e l'importanza delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Se l'individuo con diagnosi di stato vegetativo permanente, irreversibile secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, abbia nella pienezza della sua autonomia di persona espresso la volontà di non ricevere sostegni terapeutici alla sua vita biologica quando sia venuta meno in modo irreversibile ogni possibilità di restituirlo al suo stato di persona e non accetti di non poter esser più persona, qualunque cosa sia nell'interregno che lo separa dallo stato certo di cadavere, una vita in stato vegetativo permanente con perdita delle funzioni della corteccia cerebrale rigorosamente accertata, dove è venuta meno l'integrazione psicofisica alla base della possibilità stessa della vita cosciente, credo sia una vita che può ben essere accompagnata a spegnersi, lasciandola al corso naturale delle cose senza accanimento terapeutico. Lo slittamento semantico da testamento a dichiarazione anticipata di trattamento non credo sia neutro; tende a depotenziare il carattere rigidamente vincolante di una disposizione testamentaria. Quello che si vuole, credo, con questo slittamento semantico è, in definitiva, uno stato interpretativo aperto delle decisioni di fine vita che trovi la sua concreta definizione al letto del malato, lì effettivamente ascoltato nelle sue volontà disposte; che, in altri termini, quelle decisioni non discendano sic et sempliciter da una disposizione testamentaria ora per allora, che può farsi anche obsoleta alla luce dei progressi della medicina. Ora, però, proprio questa giusta esigenza, che la norma garantisca uno stato interpretativo aperto, affidato all'alleanza terapeutica tra medico e paziente (ovvero il fiduciario che lo rappresenta) nelle cure di fino vita, non può tradursi nella non assimilazione a priori dell'idratazione e dell'alimentazione all'accanimento terapeutico. L'esclusione a priori, infatti, dell'idratazione e dell'alimentazione quali terapie, decidendo anticipatamente per legge che non costituiscono in nessun caso terapia e, dunque, neppure accanimento terapeutico, chiuderebbe di fatto lo stato interpretativo aperto di un'alleanza terapeutica che si senta impegnata ad ascoltare nella situazione effettiva il paziente. Credo, infatti, che l'accanimento non sia semplicemente configurato dal ricorso o dall'esclusione di questa o quella tecnica, ma sia il complesso di un approccio finalizzato della cura che ha perso la proporzionalità tra mezzi e fini. Dunque, credo sia contraddittorio - non possiamo nasconderci che, in fondo, è la parte più importante di questo provvedimento legislativo - quanto prevede l'articolo 3, comma 6, con un'idea di alleanza terapeutica forte, che ritengo debba esserci. Ricordo brevemente quanto recita tale articolo: «(...) l'alimentazione e l'idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». In tal modo, con questa norma così come è scritta, la dichiarazione anticipata di trattamento diventa una beffa. Qualsiasi cosa abbia deciso un nostro concittadino in alleanza terapeutica con il medico, qualunque sia la sua volontà, lo vedremmo costretto a recepire un sondino che gli verrà messo in gola a forza. Ho già detto che questa è, ovviamente, la questione centrale, o comunque una delle principali, di questo disegno di legge. Ed è su questo punto che auspico si realizzi il massimo sforzo per venire incontro a tutte quelle esigenze plurali richiamate all'inizio del mio intervento, affinché si possa individuare una soluzione che ci consenta serenamente di affermare che è stata rispettata la laicità dello Stato nel senso più alto del termine. (Applausi dai Gruppi IdV e PD).
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