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Dichiarazione di Nichi VENDOLA
«All'Italia serve una politica industriale» - INTERVISTA
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(21 agosto 2010) - fonte: Il Sole 24 Ore - Vincenzo Del Giudice - inserita il 21 agosto 2010 da 31
«Il racconto che io immagino rompe le porte blindate dell'economicismo. Produrre e distribuire ricchezza, promuovere il benessere di tutti, coniugare economia ed ecologia, trovare il giusto equilibrio tra profitto dell'impresa privata e valorizzazione dei beni comuni». Nichi Vendola, il governatore della Puglia cui piacciono i racconti, colui che ha deciso di sparigliare il centro-sinistra con la sua candidatura alle primarie parla di economia, Fiat, tasse e crisi. «Il dibattito dell'economia – dice – è asfittico e criptato, monopolizzato da tecnocrati, lobbysti e moralisti a libro paga. Un dibattito drammaticamente orfano di quell'etica della responsabilità che per me significa confronti con l'inviolabilità della vita e del vivente e porre un argine alla mercificazione del mondo. Cos'è la crisi? Una calamità naturale o il frutto avvelenato di quel potere soprannazionale della rendita e della speculazione finanziaria che ha umiliato il lavoro e ucciso milioni di imprese?».Ecco, nel suo programma c'è una politica industriale?
Una politica industriale intanto bisogna avercela. Per Berlusconi è opzionale. Pare che la faccia spontaneamente il mercato. E in questa insostenibile leggerezza della politica l'Italia vive un vero e proprio processo di deindustrializzazione che è una tragedia civile e sociale. Non esiste un luogo in cui si discute di quali siano gli apparati industriali considerati strategici e come di conseguenza agire affinché essi possano radicarsi e rinforzarsi qui in Italia, di come possano internazionalizzarsi senza emigrare alla ricerca della manodopera al più basso costo, di come possano competere usando la chiave magica che apre la porta dei mercati globali: la qualità delle produzioni, il contenuto di innovazione dei prodotti. Non so se è una bestemmia dire che è necessario l'intervento pubblico in economia, che significa orientare e accompagnare le imprese, impedire che la costellazione di piccole aziende paghi in forme fatali il prezzo della crisi, promuovere la valorizzazione della presenza femminile e giovanile nel sistema economico, tutelare le conquiste sociali fondamentali, favorire un clima favorevole ai processi di innovazione, varare un Piano straordinario per il lavoro mirato al riassetto idrogeologico e alla cura del territorio.
Lei si è detto molto contrario, dando la sua solidarietà ai lavoratori di Pomigliano, all'accordo proposto dalla Fiat. Che invece è stato ritenuto da molti, anche nel centro-sinistra, un fatto positivo.
La Fiat ha goduto di molti privilegi nella storia italiana. Non solo è stata monopolista nazionale dell'industria automobilistica ma è stata paradigma culturale su cui si è edificato il boom economico e un intero modello di sviluppo. L'Italia merita maggiore rispetto da parte della Fiat. A Pomigliano la Fiat ha scritto una pagina orribile di modernità ottocentesca.
Però delocalizzare è un diritto. O no?
Le delocalizzazioni non si possono impedire, certo, non a quelle imprese che abbiano investito e rischiato in proprio. Ma quelle che hanno beneficiato ciclicamente di ciclopiche risorse statali forse dovrebbero essere in qualche modo chiamate ad assumersi qualche responsabilità di tipo "patriottico". O per caso è stato Marchionne a finanziare la rottamazione delle auto?
Presidente, se lei diventasse capo del governo quale tipo di fiscalità attuerebbe?
Le tasse non sono un crimine o una patologia sociale: questa è stata la litania della destra planetaria. Piuttosto, l'evasione è un crimine, largamente incoraggiato dall'attuale classe dirigente berlusconiana. Le tasse sono un'architrave degli Stati moderni e rappresentano un nodo decisivo della perequazione sociale. La leva fiscale va alleggerita drasticamente nei confronti dei ceti popolari, ma anche nei confronti del sistema d'impresa la leva fiscale può essere usata per orientare scelte di modernizzazione. Non sono contrario alla Tobin tax e la carbon tax.
La crisi è ancora in atto, qual è la sua ricetta per uscirne?
Io penso che per fare ripartire l'economia bisogna uscire dall'angolo della superstizione liberista, in cui si canta il "de profundis" della spesa pubblica e si considera l'abbattimento del debito come una specie di dio pagano a cui sacrificare i poveri, le famiglie, le partite Iva, il welfare, e anche un pezzo di civiltà europea. Penso che oggi occorre sostenere la domanda interna, dare ossigeno ai ceti medio-bassi, aumentare l'area di consumo, sbloccare la spesa degli enti locali ibernata dalle ridicole penalità delle norme sul patto di stabilità. L'Italia affronta sacrifici durissimi senza alcuna prospettiva di crescita e un'intera generazione viene tagliata fuori dalla prospettiva del lavoro e del futuro.
Delinea una situazione tragica.
L'Italia sta precipitando in un buco nero, di un vuoto di classe dirigente, in una vertigine di pubblica immoralità. Serve ripartire proprio da questa nuova generazione, a cui non si può promettere la favola bella della flessibilità (una vita produttiva multidimensionale) e offrire poi l'incubo della precarietà.
Fonte: Il Sole 24 Ore - Vincenzo Del Giudice | vai alla pagina » Segnala errori / abusi