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Dichiarazione di Enrico MORANDO

Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) 


 

Dopo il berlusconismo

  • (17 settembre 2010) - fonte: Europa - inserita il 17 settembre 2010 da 31

    Quella di Berlusconi ha i tratti di una crisi profonda, perché non nasce dall’incompatibilità di carattere dei due cofondatori del Pdl.

    Nasce dall’incapacità della coalizione di governo Pdl-Lega di guidare quella modernizzazione di cui il paese ha bisogno, per affrontare i suoi tre problemi strutturali, che si vengono progressivamente aggravando: inefficienza economica, disuguaglianza, debito pubblico troppo grande e di nuovo crescente.

    Qui è il fulcro della crisi del “berlusconismo”: una parte molto grande dell’elettorato del centro-destra ha investito su Berlusconi come attore di cambiamento.

    È questo elettorato quello che sta oggi prendendo atto della impotenza riformatrice del PdL, allontanandosene progressivamente.
    D’altra parte, la riarticolazione della maggioranza con la definitiva frattura del PdL e la nascita di nuovi, autonomi gruppi parlamentari sarà anche compatibile con il perdurare del governo, ma è fonte certa di nuove contraddizioni interne, a loro volta origine di paralisi della decisione politica.

    Dal lato del centro-destra dunque, non verrà cambiamento, ma galleggiamento sull’onda lunga del declino del paese.
    Qui c’è la grande opportunità per il centro-sinistra: gli elettori delusi da Berlusconi potrebbero, nei prossimi mesi, volgere lo sguardo verso di noi.
    Se vedessero il Pd capace di sfidare PdL e Lega sulle soluzioni di cambiamento del paese corrispondenti ai suoi tre problemi, allora potrebbero determinarsi le condizioni per uno sfondamento elettorale dal Pd nel campo del centro-destra, ciò che getterebbe le fondamenta per una lunga e proficua stagione di governo dei progressisti.

    Se oggi accade che il PdL dia clamorosi segni di cedimento, anche elettorale (lasciamo stare i sondaggi, guardiamo ai voti veri: alle regionali, ogni 100 voti che aveva alle politiche di due anni prima, ne ha persi 40), mentre il Pd permane ben al di sotto del 30 per cento, ciò significa che, per ora, quando l’elettore deluso dal centro-destra volge lo sguardo verso di noi, non vede le promesse e le premesse del cambiamento desiderato.

    Ancora troppi colpi al cerchio compensati da altrettanti colpi alla botte, troppo timidezza nell’affrontare le resistenze conservatrici “di sinistra”, troppo nostalgia di ciò che eravamo e delle politiche – evidentemente allora adeguate alla realtà allora presente – con le quali i partiti di allora erano diventati grandi, ma la cui spinta propulsiva si era da tempo (almeno dalla prima metà degli anni ’90) esaurita.

    È il tema della potenza riformatrice del Pd. Anche se la parola è caduta in disgrazia, io insisto: è il tema della sua debole “vocazione maggioritaria”. C’è chi ritiene – ho letto recentemente un documento in tal senso di un nutritissimo gruppo di responsabili dei principali settori di lavoro del Pd – che si tratti di un’astratta elucubrazione politologica. Quando non di una posizione che, al fine di realizzare improbabili incursioni nel campo avversario, fa pesanti concessioni alla visione liberista che ha caratterizzato i venticinque anni precedenti la grande recessione iniziata nel 2008.

    Vorrei provare a prendere il problema non dal lato della funzione del partito riformista e delle alleanze politiche, ma dal lato delle soluzioni a questioni di grande impatto sulla vita di ogni cittadino italiano (e di qualche milione di stranieri residenti e lavoranti).

    Prendiamo il tema sicurezza. Ad avere paura, a sentirsi minacciati, sono i più deboli, i più “diseguali”.
    Per tentare di fornire loro una risposta, lo stato italiano spende più degli altri, in Europa. Ma ottiene molto di meno. Cosa aspettiamo a dire che sei diversi corpi di polizia sono troppi? Che proponiamo che diventino uno solo, per il controllo del territorio. Mentre il contrasto alla grande criminalità deve essere affidato ad uno specialissimo corpo di polizia “federale”?

    Proseguiamo col fisco. Subito l’unificazione delle aliquote di prelievo sul capital gain (se non ora, con gli interessi sui titoli di stato vicini allo zero, quando?). E una drastica riduzione delle aliquote di prelievo Irpef sui redditi da lavoro di tutte le donne.

    In tema di scuola. Certo che ci vuole un ben organizzato intervento – in chiave di ammortizzatori sociali e di programmi straordinari di alfabetizzazione e apprendimento della lingua per gli stranieri – per affrontare il dramma dei precari. Ma la scuola che vogliamo non può disegnarsi sulle pur sacrosante esigenze di questi lavoratori. Dunque, subito, la sfida riformista: valutazione di tutto e di tutti, nuovo reclutamento meritocratico, salari differenziati in base ai risultati e al livello di disagio sociale dell’ambiente in cui la scuola è collocata, accentuata autonomia degli istituti e forte responsabilizzazione dei dirigenti.
    O davvero pensiamo che sia molto “progressista” pagare un maestro che ottiene buoni risultati a Scampia con lo stesso stipendio di quello che ottiene pari risultati nel quartiere bene di una delle nostre città?

    La rivoluzione nella spesa pubblica e nella pubblica amministrazione: si rigiustifica tutta la spesa dal primo euro (perché se lo dice Cameron è “geniale”, se lo scrive il programma del Pd è “oscuro”?); si comparano le prestazioni di ogni segmento e di ogni dirigente con quelle degli altri nello stesso comparto; si “obbligano” i peggiori ad uniformarsi ai migliori in un tempo dato. Esaurito il quale, premio a chi riesce, penalizzazione a chi fallisce.

    La giustizia. Perchè ciò che si ottiene – a legislazione vigente – a Torino, in termini di tempi e qualità del servizio, non si può ottenere altrove? Quindi, nel pieno rispetto della autonomia della magistratura, introduzione del manager dell’ufficio giudiziario (un magistrato, ovviamente, ma dotato della necessaria formazione) che ne riorganizzi radicalmente il lavoro, misurando le performances di tutti e di ciascuno, con conseguenze dirette sulla carriera e sul trattamento economico dei magistrati stessi.

    Il nuovo modello contrattuale. Se in Italia il salario è basso, la produttività cade e il costo del lavoro è relativamente alto, vanno riformate le regole essenziali che presiedono al confronto/conflitto tra le parti. Chi rappresenta chi; chi è abilitato a firmare; a quali condizioni la firma è impegnativa per tutti; come ci si forniscono reciprocamente garanzie di tregua del conflitto in caso di rispetto dell’accordo; come si sposta significativamente verso il basso la contrattazione, oggi troppo concentrata sulla dimensione nazionale. Materie da riservare all’accordo tra le parti sociali? Si, se lo trovano, l’accordo. Se no, deve provvedere il parlamento.

    Mi fermo qui, con gli esempi. Perché non proponiamo queste soluzioni, capaci di cambiare molto profondamente il volto del paese, esattamente in nome di quella nuova alleanza tra meriti e bisogni cui ci spingono i nostri valori eterni e gli interessi sociali che vogliamo tutelare? Se è perché le soluzioni giuste non sono queste, ma altre, più efficaci e altrettanto radicali, benissimo. Temo però che la ragione del nostro surplace stia nella debolezza del nostro riformismo.

    Ognuna di quelle soluzioni, ci obbliga a fare i conti con attriti e resistenze nel nostro campo. Per non affrontarli, traccheggiamo. Rimandiamo. Aggiriamo l’ostacolo. E il cittadino che ci cerca, sulla frontiera dell’innovazione, non ci vede o ci vede sfocati. Eccolo, il tema della “forza” della decisione politica democratica, come vogliamo discuterlo ad Orvieto, tra oggi e domenica, all’Assemblea annuale di LibertàEguale, a partire dalla relazione di Claudio Petruccioli, preceduta – assai significativamente – da una discussione sulle energie delle giovani generazioni introdotta dall’intervento di Tommaso Nannicini.

    Fonte: Europa | vai alla pagina

    Argomenti: economia, discriminazione, debito pubblico, inefficienza, dirigenti, crisi politica | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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