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Il fallimento di una generazione - Perchè lascio il Senato
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(04 febbraio 2011) - fonte: Corriere della Sera - inserita il 06 febbraio 2011 da 31
Caro direttore,
lasciare il Senato, come ho scelto di fare, può anche essere - diversamente da quanto molti pensano - un atto schiettamente politico. Perché costringe la politica, sia pure per un solo attimo, a fare i conti con se stessa e con i propri atteggiamenti. Fra questi uno, più di altri, mi tocca ed è quello verso i giovani. Provo a spiegarmi.L`italiano medio che avesse avuto la ventura di avere vent’anni nei primi anni 30 - mio padre, per fare solo un esempio fra tanti - avrebbe sperimentato per gran parte della sua vita (fino alla mezza età, per intendersi) una dieta fino al 35% meno ricca di calorie di quella sperimentata dalla generazione che lo aveva preceduto. Colpa della guerra, certamente, ma anche dell’illusione autarchica del regime.
Tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito, durante il processo di industrializzazione, la statura media della popolazione (un indicatore di benessere almeno tanto importante quanto quello della nutrizione) diminuì sensibilmente. Nel caso americano, la diminuzione delle stature durante il periodo 1830-1890 fu di ben 4 centimetri; il caso inglese mostra addirittura un declino secolare delle stature a partire dalla seconda metà del Settecento. In entrambi i casi, il declino delle stature fu dovuto, almeno in parte, all’inurbamento che accompagnò il processo di industrializzazione nei due Paesi.
Le città dell’epoca erano caratterizzate da alti tassi di mortalità, malattie endemiche, sovraffollamento e dunque rapidità di contagio, scarse o nulle infrastrutture sanitarie (nessuna rete fognaria né accesso ad acqua potabile), nonché prezzi relativi alti per alimenti freschi e ricchi di nutrienti.
Anche la storia italiana meno recente offre esempi simili: valga per tutti l’esempio della statura dei lombardi nella seconda metà del Settecento, diminuita di circa 3 centimetri fra il 1735 ed 1835.
Ho solo voluto fornire qualche esempio in grado di smentire una delle tante favole che negli ultimi tempi hanno trovato credito soprattutto a sinistra: l’idea ingenua e fuorviante che l’evoluzione dell’umanità sia un processo lineare le cui interruzioni sono da considerarsi alla stregua di incomprensibili ed inaccettabili anomalie. Spiace, ma così non è. Così non è mai stato. E capitato a molti, prima di oggi, di sperimentare condizioni di vita e livelli di benessere inferiori rispetto a quelli sperimentati dalle generazioni precedenti.
I giovani di oggi non sono i primi e non saranno gli ultimi. E la strada che hanno davanti è la stessa dei tanti che hanno in passato affrontato simili difficoltà e hanno saputo risalire la china: rimboccarsi le maniche, studiare e lavorare di più e meglio per riconquistare i perduti livelli di benessere, accettare la realtà ed affrontarla a viso aperto, piegandola se necessario e quando possibile.
Senza perdere un solo istante per ascoltare i tanti che - con ipocrita pietismo - commiserano oggi le odierne condizioni delle generazioni più giovani.Anche senza mai dimenticare, però, che un’anomalia nel loro caso c’è. E l’anomalia - vera - è quella della generazione che li ha preceduti. Una generazione composta - non trovo immagine più efficace - in buona misura da cavallette.
Politici - a destra come a sinistra - che hanno fatto quanto potevano per impedire (e ci sono riusciti!) che si facesse a tempo debito quanto poteva dare ai più giovani prospettive meno incerte e che oggi (visto che gli stessi giovani sono diventati elettori) sono i primi a manifestare viva preoccupazione per le loro sorti.
Sindacalisti capaci di tradire la loro missione per dare a chi aveva già avuto togliendo a chi ancora non aveva.
Giornalisti della domenica capaci di vedere il problema solo quando è ormai troppo tardi. Adulti - uomini e donne, a destra e a sinistra - che per due decadi non hanno esitato a consumare quel che c’era e, soprattutto, quel che non c’era.
L’anomalia vera è la mia generazione: la stessa che oggi guarda i più giovani con occhio umido e li considera come una sfortunata eccezione.
Ad una nuova stagione di incertezza la politica avrebbe dovuto rispondere non con le narrazioni ma con le politiche: portando, per esempio, lo stato sociale ad assicurare i nuovi rischi altrimenti non assicurabili e liberandolo dal fardello delle attività ormai di mercato. Certo, allo sforzo di comprendere la natura dei nuovi rischi e di costruire nuove forme assicurative si può sempre sostituire la scorciatoia delle sanatorie per i precari ed il pubblico come datore di lavoro di ultima istanza. Ma si finirebbe solo per sostituire ai rischi ed alle incertezze del mercato l’arbitrio estremo ed intollerabile proprio della politica.
Fonte: Corriere della Sera | vai alla pagina » Segnala errori / abusi