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Dichiarazione di Delia MURER

Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) 


 

Esclusione delle donne, l’analisi dell’Istat

  • (15 giugno 2011) - fonte: DeliaMurer.it - inserita il 19 giugno 2011 da 31

    Giunto alla diciannovesima edizione, il Rapporto annuale dell'Istat, presentato alla Camera dei deputati nei giorni scorsi, ha sviluppato una riflessione documentata sulle trasformazioni che interessano economia e società e ci ha consegnato un quadro drammatico soprattutto riguardo alla condizione femminile in questo Paese.
    Può essere utile pubblicare integralmente la scheda di sintesi diffusa dall’Istat proprio sulla condizione femminile in Italia, al fine di rendere chiaro, con cifre e numeri, il tema di cui si parla troppo poco e troppo a sproposito.

    “I numeri e l’analisi che segue – dichiara Delia Murer – dà il senso della condizione che vive la donna in Italia e della mancanza di una politica attiva in questo senso. Le proposte non mancano. Le donne del Pd ne hanno presentato decine.
    Ci sarebbero anche le risorse, come quelle lasciate libere dalla riforma pensionistica che ha riguardato proprio le donne e che rischiano di essere utilizzate in maniera indifferenziata. Quella che manca è la volontà politica della maggioranza di considerare questo un tema prevalente nell’agenda del Governo”.

    (dal rapporto annuale Istat – anno 2010 – scheda di sintesi)

    Le donne

    Nel corso del 2010, a fronte della stabilità dell’occupazione femminile, è peggiorata la qualità del lavoro delle donne: è diminuita, infatti, l’occupazione qualificata, tecnica e operaia ed è aumentata quella a bassa specializzazione, dalle collaboratrici domestiche alle addette ai call center.

    Lo sviluppo dell’occupazione femminile part time nel 2010 è stato poi caratterizzato dalla diffusione dei fenomeni di involontarietà, mentre è andato ampliandosi il divario di genere nel sottoutilizzo del capitale umano: il 40 per cento delle laureate ha un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto al titolo posseduto.

    La crisi ha ampliato i divari tra l’Italia e l’Unione europea nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione delle donne italiane, già inferiore alla media europea tra quelle senza figli, è ancora più contenuto per le madri, segno che i percorsi lavorativi delle donne, soprattutto quelli delle giovani generazioni, sono segnati dalla difficoltà di conciliare l’attività lavorativa con l’impegno familiare. Non a caso più di un quinto delle donne con meno di 65 anni occupate, o che sono state tali in passato, dichiara di aver interrotto l’attività lavorativa nel corso della vita a seguito del matrimonio, di una gravidanza o per altri motivi familiari, contro appena il 2,9 per cento degli uomini.

    Per le donne che hanno avuto figli la quota sale al 30 per cento; nella metà dei casi la causa dell’interruzione è proprio la nascita di un figlio.
    Mentre nel corso del tempo la quota delle madri che interrompono l’attività per matrimonio si riduce significativamente (dal 15,2 per cento delle madri nate tra il 1944 e il 1953 al 7,1 per cento di quelle nate dopo il 1973), le interruzioni legate alla nascita di un figlio si mantengono, per le diverse generazioni, su livelli vicini al 15 per cento. In oltre la metà dei casi, poi, interrompere il percorso lavorativo in occasione di una gravidanza non è il risultato di una libera scelta: sono circa 800 mila (quasi il nove per cento delle madri che lavorano o hanno lavorato in passato) le donne che, nel corso della loro vita, sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza, e solamente quattro su dieci hanno poi ripreso il percorso lavorativo.

    A sperimentare le interruzioni forzate del rapporto di lavoro sono soprattutto le giovani generazioni (il 13,1 per cento tra le madri nate dopo il 1973) e le donne residenti nel Mezzogiorno, per le quali più frequentemente le interruzioni si trasformano in uscite prolungate dal mercato del lavoro e la quasi totalità di quelle legate alla nascita di un figlio può ricondursi alle dimissioni forzate.

    In un Paese in cui le politiche di conciliazione lavoro-famiglia non hanno ancora realizzato la flessibilità organizzativa caratteristica di altri paesi europei, alle difficoltà che le donne incontrano nel mercato del lavoro si associa lo squilibrio nella distribuzione dei carichi di lavoro complessivi.

    La divisione dei ruoli nella coppia e l’organizzazione dei tempi delle persone, infatti, risentono di una forte asimmetria di genere, che interessa tutte le aree territoriali e tutte le classi sociali. Per una donna, avere un’occupazione e dei figli continua a tradursi in un sovraccarico di lavoro di cura, mentre per gli uomini il coinvolgimento nel lavoro familiare mostra una contenuta progressione nell’arco degli ultimi venti anni, soprattutto per quello orientato alla cura dei figli.

    Per far fronte alla difficoltà di conciliare il lavoro e la famiglia (circa i tre quarti del lavoro familiare delle coppie è appannaggio della donna), confermando una tendenza documentata a partire dalla fine degli anni Ottanta, le lavoratrici riducono il tempo dedicato al lavoro familiare, operandone una redistribuzione interna, diminuendo l’impegno nei servizi domestici e dedicando più tempo ai figli.

    Al crescere dell’età della donna le differenze di genere nei carichi di lavoro familiare si acuiscono ulteriormente. Anche in età anziana, quando si potrebbero creare i presupposti per una maggiore condivisione del lavoro familiare per effetto dell’uscita dal mercato del lavoro di entrambi i partner, le differenze di genere restano forti e sostanzialmente stabili nel tempo: in altri termini, concluso l’impegno per il lavoro retribuito, gli uomini vanno in pensione, dedicandosi quasi a tempo pieno ai propri interessi, mentre le donne continuano a occuparsi del partner, della casa e degli altri membri della famiglia.

    Le donne vivono una inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro. Per di più, il carico di lavoro familiare e di cura gravante su di loro rende più vulnerabile un sistema di “welfare familiare” già debole, nel quale esse hanno cercato di supplire alle carenze del sistema pubblico. Peraltro, le donne sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli.

    Ricapitolando, in cifre:

    Siamo il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile dopo Malta e l'Ungheria.

    Il part-time femminile è cresciuto di 104.000 unità, ma si tratta interamente di part-time involontario.

    In generale, il tasso di occupazione femminile nel 2010 si è attestato al 46,1%, 12 punti percentuali in meno rispetto a quello europeo.

    Il 40% delle occupate ha un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta (tra gli uomini la percentuale è del 31%).

    Nel 2010 si è anche aggravata la "disparità salariale di genere": la retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è in media di 1077 euro contro i 1377 dei colleghi uomini, il 20% in meno.

    800.000 donne nel 2010 si sono ritrovate senza lavoro dopo la nascita di un figlio. Madri che hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere, nel corso della vita lavorativa, a causa di una gravidanza. Solo quattro madri su dieci tra quelle costrette a lasciare il lavoro ha poi ripreso l'attività. Sulle donne pesa il 76,2% del lavoro familiare delle coppie, da quello domestico a quello di cura.

    Fonte: DeliaMurer.it | vai alla pagina

    Argomenti: Donne, lavoro femminile, figli, occupazione femminile, Call center, Istat, giovani coppie, gravidanza | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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