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Dichiarazione di Marco PANNELLA


 

«Amnistia negata: è l'Italia ad essere fuori legge» - INTERVISTA

  • (06 aprile 2012) - fonte: Gli Altri - Andrea Colombo - inserita il 07 aprile 2012 da 31

    Dopo decenni di onoratissima carriera Marco Pannella lo conosciamo bene: è uno che non si arrende mai, batte e ribatte fino a che non incrina anche il muro più spesso. I politicanti d'ogni risma continuano a fare spallucce di fronte alla sua proposta di amnistia, e lui organizza a Roma una seconda marcia dopo quella natalizia di sette anni fa. Doveva svolgersi per Pasqua, sarà invece per il 25 aprile e la simbologia è forse anche più azzeccata.

    Mica male una marcia per l'amnistia il 25 aprile!

    Sette anni fa la prima marcia, quella a cui vennero Cossiga, Napolitano e persino D'Alema, registrò una adesione quantitativamente e qualitativamente senza precedenti. Nessuno mette in dubbio che da allora la situazione sia atrocemente peggiorata da tutti i punti di vista. Il questore di Roma ci aveva parzialmente vietato il percorso che avevamo comunicato per la marcia di Pasqua, in base al combinato disposto delle norme di Maroni e Alemanno. Così abbiamo scelto il 25 aprile, che va benissimo perché cos'è oggi la Liberazione se non liberazione del diritto umano, dei nuovi diritti, della democrazia, e dei carcerati, certo, ma anche dei funzionari che vogliono servire lo Stato e non essere complici di una patente violazione delle leggi? Non a caso la marcia è per una triade di obiettivi non disgiungibili: amnistia-diritto-libertà.

    Perché parli di patente violazione della legge?

    Da trent'anni noi veniamo condannati ogni anno dalla giurisdizione europea. Le ultime condanne sono anche più tassative di quelle precedenti, perché evocano la violazione dei diritti umani e non più solo di quelli civili e dello Stato diritto, cosa peraltro già gravissima. Quindi l'amnistia di cui parliamo noi non è quella che chiese Giovanni PaoloII, col quale pure eravamo in forte sintonia. La sua era la richiesta di un atto di clemenza. Noi facciamo un altro ragionamento: siamo o non siamo di fronte alla manifesta flagranza di un reato compiuto? Certamente sì. Ma di fronte a un reato in manifesta flagranza si interviene, lo si interrompe e poi si discute, Questo non solo per obbligo morale ma anche perché lo impone la legge. Se vedo uno che ammazza un altro e non intervengo incorro in una specifica e precisa fattispecie di reato. Bene, ciascuno di noi, nell'arco di un paio d'ore, assiste a quattro o cinque omicidi in una rissa senza poter intervenire, pur avendone l'obbligo, perché le leggi dello Stato ce lo impediscono. Peggio di quel che avveniva nel comunismo, nel fascismo e persino nel nazismo almeno fino al 1938-39.

    Non sarà un po' forte come paragone?

    Per niente. Oggi la distanza del nostro Stato dalla legalità internazionale è qualitativamente dello stesso tipo e quantitativamente maggiore di quanto non fosse fino al 1938 quella degli Stati totalitari rispetto alla giurisdizione internazionale di allora. Quando in un territorio gli abitanti e lo Stato vivono contro il diritto, la legalità e le stesse leggi violandole in modo massiccio, ci si trova di fronte a una metamorfosi dello stesso male che aveva assunto le forme del fascismo, del comunismo, del nazismo e dei vari modelli che ne sono poi discesi.

    Prima parlavi di funzionari dello Stato che condividono questa sensibilità e questo punto di vista?

    Sì, e sono moltissimi. Il segretario del Sidipe, il sindacato dei dirigenti penitenziari, Enrico Sbriglia, ha scritto delle pagine splendide in cui dice «Noi vogliamo e dobbiamo comportarci come servitori dello Stato, non come sicari o complici degli assassini e di chi viola le leggi». Identico ragionamento fanno sempre più spesso gli agenti della polizia penitenziaria, che tra l'altro lavorano per 14 ore al giorno con straordinari non pagati, non ce la fanno a stare dietro a tutto, vedono le loro famiglie saltare... Ormai anche tra loro i suicidi sono molti.

    Andiamo all'obiezione che vi viene mossa più spesso: l'amnistia non risolve il problema, tra un anno ci si ritrova punto e a capo...

    E una stupidaggine. L'amnistia è invece una riforma strutturale. Il vero problema che ci pongono oggi la giurisdizione europea e il diritto internazionale è che il fatto carcerario, in Italia come in una parte consistente del mondo, è legato a un altro fatto che in sé non sembrerebbe clamoroso: la non ragionevole durata dei processi. Insisto su questa formula letterale, perché nel diritto romano come in quello canonico traspare con chiarezza ciò che è pacifico nella dottrina, e cioè che tra l'evento preso in considerazione, l'ipotetico reato, e il giudizio deve esserci almeno un minimo di compattezza cronologica. In caso contrario si tratta di un'ipoteca che grava fatalmente sulla sentenza.

    Una riforma che accelerasse i tempi della giustizia sarebbe senza dubbio strutturale. Ma l'amnistia?

    Oggi amnistia non significa più solo fare uscire la gente dalle carceri. Con l'amnistia si ritiene che verrebbe a cadere l'80% dei procedimenti e dei processi penali in corso. Quel 20% che rimarrebbe, costituirebbe o no una struttura completamente diversa? Un palazzo di due piani è o non è strutturalmente diverso da uno di 50? Inoltre si affronterebbe finalmente un problema sulla cui urgenza tutti, farisaicamente, dicono di essere d'accordo: la vergogna per cui il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio, e la metà di quel 42% verrà alla fine giudicata innocente. Questo è il discorso, e in trent'anni non è stato possibile una sola volta andare a spiegarlo in una trasmissione televisiva che avesse una massa critica considerevole, con quattro o cinque milioni di spettatori.

    Cosa ti aspetti sul fronte dell'oscuramento mediatico da questa marcia?

    Un momento eccezionale di democrazia nel nostro Stato, che non è né democratico né di diritto. Sono trent'anni che chiedo un dibattito pubblico e non relegato in fasce e orari dove non se ne accorge nessuno, su questo tema: cosa si può fare quando uno Stato chiaramente viola non solo la giurisdizione e la legalità superiore ma direttamente la massima espressione della propria stessa legge, la Costituzione, e a scendere tutto il corpo delle leggi. Un dibattito così sarebbe sufficiente: i credenti, cioè i cattolici e i comunisti, plebisciterebbero questa richiesta come fecero con il divorzio, l'aborto e l'obiezione di coscienza.

    Con chi lo vorresti questo dibattito pubblico?

    L'importante sarebbe far assistere di nuovo a un dibattito democratico e serio. Per il resto sono todos caballeros: con la stessa Severino, ma anche, al limite, con Rodotà o Zagrebelsky, se per una volta si decidessero a porre il problema.

    Permettimi una digressione: come giudicate voi radicali questo governo?

    Come un incidente positivo del sistema partitocratico. Noi andavamo quasi con certezza verso il default e non solo dell'Italia perché avremmo contagiato l'intera Europa. Questa certezza derivava dal fatto che da un lato c'era Berlusconi a sputtanare tutto, ma dall'altro non c'era un solo Stato estero che facesse un'oncia di credito in più ai suol oppositori. Questo governo è costituito da estranei per formazione e cultura al regime partitocratico e questo rappresenta di per sé un grosso passo avanti. Il default italiano e di conseguenza europeo è ancora probabile ma non più quasi certo. In questa situazione noi ci troviamo a nostro agio, perché la nostra storia si potrebbe sintetizzare proprio così: far sempre giocare il possibile contro il probabile.

    Sette anni fa l'attuale capo dello Stato marciò con voi. Una volta arrivato al Quirinale non si è fatto sentire molto...

    Io lo ho detto apertamente al presidente della Repubblica: questo Stato e questa Repubblica sono ormai anti-democratici, direi nemmeno per cattiveria. Violano i diritti umani fondamentali senza nemmeno accorgersene e il tuo dramma è che sei costretto a essere il primo violatore. Con la tua grande esperienza politica, o politicante, hai contribuito a evitare il default, ma al prezzo di fare tu il premier e di intervenire quotidianamente, usando di fatto lo strumento della comunicazione ufficiale di Stato a reti unificate. Allo stesso modo il 27 luglio scorso Napolitano aveva posto l'urgenza del problema giustizia, ma dieci giorni dopo, con migliaia di detenuti in sciopero della fame e della sete, da Nisida, ha detto, dopo aver marciato il 27 dicembre del 2005 con noi, che il problema non era maturo. In fondo è una storia che si ripete, è come quando noi, con Silone, eravamo schierati con i dissidenti russi e i refusnik pagando anche il prezzo di qualche arresto e qualche assassinio: Lui riteneva invece, in polemica con Giolitti, che la prospettiva e la moralità della rivoluzione, comportassero il prezzo che si stava pagando a Budapest. La differenza è che oggi i refusnik sono da noi, ma lui non li vede allo stesso modo.

    Fonte: Gli Altri - Andrea Colombo | vai alla pagina

    Argomenti: giustizia, diritti civili, europa, processi, presidente Napolitano, diritti umani, amnistia, governo Monti | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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