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Dichiarazione di Andrea CAUSIN
Sostenere le imprese per sostenere il lavoro
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(21 aprile 2012) - fonte: andreacausin.it - inserita il 23 aprile 2012 da 31
La riforma del mercato del lavoro è complicata perché è tardiva.Le barriere ideologiche e culturali hanno contribuito in modo irresponsabile, a far si che il Parlamento non affrontasse a tempo debito i temi della riforma del sistema pensionistico, degli ammortizzatori sociali, dei contratti e della riforma del mercato del lavoro.
Anni di discussioni improduttive e di mancate scelte hanno prodotto un enorme buco nero e oggi, che è giunto il tempo di decidere, lo si deve fare in una situazione in cui il mercato del lavoro, inteso come incrocio domanda – offerta, è più fragile rispetto a qualche anno fa, e le disponibilità economiche che può mettere in campo lo Stato, per sostenere il lavoro sono praticamente ridotte a zero.
Il dibattito che si è riaperto in queste settimane intorno all’articolo 18 ha assunto i contorni di un romanzo di Franz Kafca e contribuisce ancora una volta a spostare il merito della questione.
Non v’è dubbio che uno Stato civile deve avere a cuore che ogni persona possa costruire il proprio progetto di vita intorno ad un elemento di certezza e, a questo riguardo, Amartya Sen definisce correttamente il tema della libertà, non solo come esercizio dei diritti primari, ma anche come espressione delle aspirazioni individuali in relazione alla capacità economica dell’individuo.
Tuttavia oggi è ipocrita pensare di perseguire questo obiettivo attraverso i simboli, o la difesa ad oltranza degli stessi.
Il primo fattore capace di generare il lavoro è l’economia reale.
La scelta di una persona di fare l’imprenditore, e l’affidabilità del contesto istituzionale in cui questa scelta matura rappresentano i fattori principali di generazione del lavoro.
In Veneto sono attive circa 500.000 imprese, circa una ogni dieci abitanti.
Il 98% di queste sono sotto la soglia fatidica dei 15 dipendenti, perché storicamente si sono consolidate come imprese familiari e piccole imprese artigiane, eppure hanno contribuito in modo determinante alla crescita del tessuto economico e sociale della regione.
L’impresa e il lavoro, sono stati in pochissimi casi fattori contrapposti, salvo quando sono stati oggetto di strumentalizzazioni nelle grande aree di industrializzazione forzata (l’esperimento delle partecipazioni statali a Marghera).
L’imprenditore in Veneto non si pone il problema certo di avere una legislazione che gli consenta di licenziare i propri dipendenti. Certo, mediamente ritiene iniquo, passata la soglia dei 15 dipendenti, che sia praticamente impossibile ridurre le unità di lavoro soprattutto in relazione ad eventi straordinari che riducono i fatturati.
Tuttavia le questioni sono altre, e in via prioritaria, il problema non è poter licenziare, ma poter assumere, e successivamente gratificare e fidelizzare il lavoratore che diventa parte della storia dell’azienda. Diviene un capitale che civilisticamente non viene evidenziato nello stato patrimoniale del bilancio, ma che racchiude in sè competenze, conoscenze e relazioni che hanno un valore oggettivo. A volte un valore inestimabile per l’azienda.
La questione è sensata, se si pensa ad esempio al fatto che, a fronte di circa 2.700 euro di costo azienda, un lavoratore percepisce poco più di 1.250 euro in busta paga.
In aggiunta al costo del lavoro eccessivamente elevato, persiste anche in Veneto una situazione di affidabilità del contesto istituzionale che certo non aiuta.
Lasciando stare per un attimo il sistema bancario, che sta utilizzando la liquidità della BCE per sistemarsi i conti delle singole banche anziché sostenere il sistema economico, la sola Pubblica Amministrazione (fonte ABI) tiene bloccati in Veneto circa 7 miliardi di euro di pagamenti alle imprese, che relativamente alla spesa corrente scontano ormai mediamente 178 giorni di ritardo sull’incasso.
In questo quadro, segnato dalla crisi, lo Stato ha speso in Veneto nel 2011 oltre 3 miliardi di euro di ammortizzatori sociali, e per poter far fronte alla richiesta ha dirottato su cassa integrazione e altri strumenti anche i fondi europei dedicati alle politiche attive del lavoro (formazione, riqualificazione…).
Se le banche tornassero a fare il proprio mestiere, se la pubblica amministrazione recepisse la direttiva europea che prevede l’obbligo dei pagamenti in 30 giorni, se una parte dei soldi delle “politiche passive” del lavoro venissero utilizzate per ridurre il costo del lavoro, se gli enti locali potessero offrire regole e tempi certi alle iniziative imprenditoriali, l’economia reale ne trarrebbe un grande vantaggio e molti imprenditori sarebbero pronti a scommettere sul lavoro e soprattutto ad offrire un’opportunità ai giovani.
Certo è che serve un cambio radicale di mentalità che passa attraverso la necessità d mettere i soffitta i feticci e i santoni che li brandiscono.
Fonte: andreacausin.it | vai alla pagina » Segnala errori / abusi