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Dichiarazione di Stefano Boeri
Non basta una spinta. Il motore è logoro.
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(16 giugno 2012) - fonte: la Repubblica - inserita il 18 giugno 2012 da 31
A sette mesi dall’insediamento del Governo Monti, a un mese dall’annuncio del ministro dello Sviluppo Economico di un piano di 100 miliardi per le infrastrutture, a quattro Consigli dei ministri dalla riunione che avrebbe dovuto varare il decreto sviluppo, habemus le “misure per la crescita sostenibile”.Sessantuno articoli per meno di un miliardo di manovra lorda, tra nuovi impegni e coperture (i 40 prima, 80 miliardi poi di cui ieri si è parlato in conferenza stampa erano le risorse private che le misure vorrebbero mobilizzare). A ragione il ministro Passera aveva sostenuto al Festival dell’Economia di Trento che non esiste un solo intervento in grado di fare ripartire la crescita in Italia, ma semmai una lunga serie di piccole misure.
In effetti la nostra economia ha bisogno di un motore nuovo, non semplicemente di una spinta come quella che si dà quando bisogna far ripartire una macchina con la batteria scarica. Ma questi tanti piccoli interventi dovrebbero avere una loro organicità, concorrere nel loro insieme a comporre almeno un pezzo del nuovo motore. Servirebbe questa organicità, una capacità di immaginare cosa dovrà essere l’economia italiana fra 10 o 20 anni anche a dare il segnale giusto ai mercati: le misure a sostegno dello sviluppo in genere non hanno effetti immediati, ma in un caso di emergenza come il nostro, se trasmettono un segnale forte di cambiamenti strutturali in corso, possono offrire dividendi anche nell’immediato in termini di rinnovata fiducia degli investitori nel nostro Paese. Purtroppo questa visione d’insieme non si vede nei provvedimenti varati ieri.
Alcuni interventi sembrano in palese contraddizione con operazioni che il governo sta faticosamente cercando di portare a termine nell’ambito della spending review. Ad esempio, la creazione di una nuova Agenzia per l’Italia Digitale fa a pugni con la giusta scelta del ministero dell’Economia di semplificare la sua struttura, unificando le diverse agenzie esistenti (Dogane, Entrate, Territorio e Monopoli di Stato).
Ancora, è difficile riconciliare l’esenzione dal pagamento dell’Imu sui nuovi fabbricati a uso produttivo con lo sfoltimento e razionalizzazione delle agevolazioni alle imprese e il tentativo di ridurre la pressione fiscale sul lavoro spostandola verso gli immobili. Tra l’altro, la tassa sugli immobili delle imprese si candida ad essere la parte di gettito Imu che poteva andare allo Stato (le imprese sono più mobili, quindi bene che questa tassa venga gestita a livello centrale), lasciando ai Comuni il gettito dell’Imu sulle residenze. Avevamo anche capito che si era abbandonata la filosofia dei piani casa predicata (più che praticata) dal governo precedente, che credeva di far ripartire l’economia italiana cercando di creare anche da noi una bolla immobiliare, concentrando le poche risorse disponibili su interventi a sostegno del settore dell’edilizia. Eppure ci ritroviamo un incremento delle detrazioni Irpef per le ristrutturazioni contestualmente a una riduzione delle agevolazioni per interventi di riqualificazione energetica che, almeno sulla carta, avevano la nobile finalità di consentire il risparmio energetico.
A proposito di energia, non è chiara la strategia, dato che si cerca di sostenere (con interventi che andranno valutati nei loro costi ed efficacia) sia i biocarburanti che gli idrocarburi, autorizzando perforazioni alla ricerca di petrolio anche in prossimità della costa. Non è chiaro dove si troverà il compromesso fra tutela ambientale e riduzione della dipendenza energetica anche nel caso della liberalizzazione dello stoccaggio del gas, in un territorio che purtroppo abbiamo appreso nelle ultime settimane essere quasi integralmente a rischio sismico. I provvedimenti dai titoli più promettenti varati ieri sono quelli che riguardano l’accelerazione dei tempi della giustizia civile. Bisognerà vederli nei dettagli per capire quanto siano effettivamente incisivi, ma la scelta delle priorità è appropriata: le misure intervengono sul secondo grado di giudizio, quello in cui continua ad accumularsi il carico pendente (quasi raddoppiato negli ultimi10 anni mentre invece si riduceva di un decimo quello di primo grado, come evidenziato dall’ultimo Rapporto Annuale Istat). Forse per rendere “corposo” il pacchetto di provvedimenti varato ieri, al decreto sviluppo si è aggiunto un piano di dismissioni di beni pubblici. L’idea è attraente perché vendite massicce di beni pubblici potrebbero evitare al nostro Paese la necessità di alimentare decenni di avanzi primari consistenti.
Gli interventi decisi sono davvero di modesta entità. La vendita delle partecipazioni azionarie in Fintecna, Sace e Simest può portare al massimo 10 miliardi che verranno tra l’altro in parte destinati a ripagare i debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese. Quindi, a conti fatti, il debito pubblico potrebbe calare appena dello 0,2 per cento, davvero poco per rassicurare i mercati. Capiamo il timore di non svendere le ben più importanti partecipazioni in Enel, Eni e Finmeccanica, ma bisogna tener presente che, ai rendimenti attuali dei nostri titoli di stato, anche soli 100 miliardi in meno di emissioni di titoli, valgono 6 miliardi in meno di spesa per interessi ogni anno. Giustamente si sceglie la strada di valorizzare i beni demaniali prima di venderli, ma l’entità dei beni che verranno gestiti dal nuovo fondo immobiliare sembra davvero esigua. Importante sarà capire quale sarà la governance di questo fondo.
Certo è difficile varare decreti sviluppo di questi tempi, quando non ci sono soldi. Ma allora perché creare tante aspettative attorno a un singolo pacchetto di misure per la crescita? Forse meglio fare le tante riforme a costo zero di cui il Paese ha bisogno, proponendone una alla settimana. E poi lavorare in silenzio per monitorarne l’attuazione, se necessario apportando migliorie in corso d’opera e informando tempestivamente l’opinione pubblica su queste manutenzioni. In questo spirito è davvero fondamentale che il ministro Fornero renda pubblico al più presto il documento dell’Inps sui cosiddetti “esodati”. Questa divulgazione non può creare più allarmismo di quanto non ci sia già. Le cifre che circolano ci sembrano davvero eccessive: bisognerebbe che un terzo di coloro che normalmente vanno in pensione ogni anno sia coinvolto in processi di ristrutturazione nei prossimi 4 anni per arrivare a 390.000 lavoratori coinvolti, tra esodati e esodandi.
Rendendo pubbliche le cifre e il modo con cui vi si è arrivati si sposterebbe il confronto sulla ricerca di soluzioni, anziché sulle stucchevoli accuse reciproche di travisare i dati e dire bugie. Chissà cosa pensano a riguardo i milioni di italiani che stanno cercando di capire quale sarà il loro futuro previdenziale.
Fonte: la Repubblica | vai alla pagina » Segnala errori / abusi