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Pininfarina, addio allo stile
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(04 luglio 2012) - fonte: Il Fatto Quotidiano - inserita il 05 luglio 2012 da 31
È morto l’imprenditore torinese Sergio Pininfarina. Come nascono i Pininfarina? Un operaio che conosce bene il lavoro con le mani ma allo stesso tempo lo vede e lo pensa, anche se il suo mestiere non è disegnare. Un artigiano che intuisce la forma seguendo e assecondando la resistenza della lamiera, e trova ogni volta la regola nuova e la soluzione imprevista seguendo la vocazione del materiale, che lui sente e capisce, come chi suona magistralmente uno strumento meravigliando tutti, perché non conosce la musica.La storia comincia dove un uomo inventa se stesso lavorando e scopre che non devi per forza fermarti perché hai fatto abbastanza bene. Scopri che, dietro l’ultima difficoltà superata, c’è altra strada, c’è un lungo percorso. Forse è a questo punto, difficile da precisare, nel curriculum di Pinin Farina, che il meccanico di grande qualità che qualunque azienda vorrebbe avere nel suo personale, diventa artista e si impossessa del suo mestiere. Sto parlando del fondatore della dinastia, che si chiamava Pinin, accorciamento dialettale e affettuoso del nome Giuseppe, e così lo chiamavano gli ingegneri, scambiandosi occhiate di ammirazione per come trovava con esattezza il rapporto (misterioso a quel tempo) fra carrozzeria e telaio, quando non esistevano strutture portanti, e le auto, anche di classe, si dividevano in “di serie” e “fuori serie”.
Siamo nella laboriosa Torino industriale prima della guerra. Una fuori serie, in quegli anni, a Torino, era sempre Pinin Farina. Non era ancora venuto il tempo in cui la famiglia avrebbe chiesto e ottenuto che la firma, e il nome della ditta, che intanto era nata e si era affermata come fabbrica di continuo stupore e ammirazione, sarebbe stata una parola sola, “Pininfarina”, nome e cognome del geniale artigiano fondatore, in modo che non andasse perduto niente della straordinaria eredità di quel meccanico – designer tra i più creativi e, ormai, tra i più famosi del mondo.
Siamo nel dopoguerra, affollato di lavoro, di talenti, di masse di operai che fabbricano letteralmente l’Italia nel corso di pochi anni, e di drappelli di imprenditori che si prestano a tutte le critiche e le spinte reciproche tra capitale e lavoro, tranne una. Non mollano il loro impegno di imprenditori e la loro azienda per nessuna ragione al mondo. E perciò c’è sempre – per quanto aspro il clima – una linea di congiunzione. Perché la cosa più importante per gli operai è il lavoro. Ma anche per gli imprenditori la cosa più importante è il lavoro. Ed entrambe le parti, contrapposte ma legate dal sognocontinuo del risultato, sanno che un dato luogo non è una circostanza occasionale. Per esempio Torino non è un posto come un altro, se fabbrichi automobili. Non allora, non adesso. Ma allora lo sapevano. Lo sapevano soprattutto gli imprenditori, se pensate che nel pieno del pericolo delle Brigate Rosse, Giovanni Agnelli non ha voluto mai muoversi da Torino, né lui né la famiglia. Come il fratello Umberto. Come Sergio Pininfarina, ingegnere, figlio, erede e capoazienda di quelle carrozzerie uniche per stile e funzione, che ormai avevano fatto il giro del mondo.
E’ toccato a Sergio Pininfarina gestire l’epoca del successo, sia pure in tempi difficili. E qui troviamo due lezioni che certi eroi del nostro tempo sembrano non avere imparato. La prima è che Sergio Pininfarina è il primo imprenditore torinese a diventare costruttore per conto di grandi aziende americane, per esempio Cadillac. Flotte di container partivano periodicamente per gli Usa, ma nessun Pininfarina è mai andato in giro a dire, come forma di incoraggiamento per i propri operai, che uno di questi giorni avrebbe chiuso baracca e burattini per andare a fabbricare a Detroit, dove ti trattano meglio. Sapeva che la prima condizione per essere trattati bene a Detroit era lo straordinario lavoro che si faceva a Torino. Sapeva, dai tempi di suo padre, che erano gli operai di Torino a fargli trovare porte aperte a Detroit. Sergio Pininfarina è rimasto legato (la parola giusta sarebbe “attaccato”) alla fabbrica fino e oltre il 2000, uno che non vede esattamente la linea di demarcazione fra operai, macchine e impresa, come nei romanzi di Theodore Dreiser sulla nascita dell’industria a Chicago.
Personalmente era semplice in modo disarmante, perché non aveva alcuna idea o voglia di celebrare se stesso (se mai il padre, se mai la sua azienda) e la nomina a senatore a vita l’aveva imbarazzato, al punto da venire pochissimo in Senato, dove io ero stato eletto in quel periodo. Parlavamo di cose torinesi e del problema, già allora pesantissimo, dell’Alta velocità in Val di Susa. Non condivideva le mie mille obiezioni, salvo una: bisogna parlare con la gente, non si può imporre un’opera così immensa e di così lunga durata (la costruzione) senza parlare con la gente. Era di “destra” ma una strana destra, senza la pretesa che vince il più forte e non se ne parla più. La sua vecchia persuasione, imparata dal padre, era che vince il più bravo. Con i Pininfarina è andata così.
Fonte: Il Fatto Quotidiano | vai alla pagina » Segnala errori / abusi