Ti trovi in Home  » Politici  » Felice CASSON  » «Quando un operaio deve scegliere tra salute e lavoro, la politica ha fallito» - INTERVISTA

Chiudi blocco

Altre dichiarazioni nel periodo per gli stessi argomenti



Dichiarazione di Felice CASSON

Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) 


 

«Quando un operaio deve scegliere tra salute e lavoro, la politica ha fallito» - INTERVISTA

  • (04 agosto 2012) - fonte: Left - Giommaria Monti - inserita il 09 agosto 2012 da 31

    «Già Cefis, Montedison, nel 1972 diceva: se mi inquisite chiudo e me ne vado. Ma quando un operaio deve scegliere tra salute e lavoro, la politica ha fallito». Parla il senatore che da magistrato indagò sui morti di Marghera.

    Il senatore Felice Casson è un ex magistrato che ha indagato i vertici di Enichem e Montedison per il disastro di Porto Marghera: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di rifiuti tossici. Un’inchiesta cominciata nel 1994 e arrivata a sentenza definitiva dodici anni dopo. Da magistrato gli toccò pure un fascicolo disciplinare aperto dall’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, per aver detto, dopo la sentenza di primo grado che assolse tutti: «Io sto con gli operai, e con la gente, con cui mi trovo bene». E per aver passeggiato «polemicamente» tra i lavoratori dopo quelle assoluzioni. Che in secondo grado divennero condanne rese definitive dalla Cassazione. Da senatore del Pd, ha da anni al centro della sua attività politica la salute di chi lavora. «Non conosco le carte di Taranto. Io però non ho mai sequestrato impianti perché mi sembrava di pesare sulla vita degli operai».

    Il ricatto lavoro-salute è storia antica in questo Paese…

    È una costante che si rinnova soprattutto nei momenti di crisi. Tra gli anni 60 e 80, quando c’erano le richieste da parte degli operai di mettere a norma gli impianti, veniva sempre portata avanti la questione occupazionale. Mi ricordo che una volta, nel 1972, l’allora presidente del consiglio di amministrazione della Montedison, Eugenio Cefis, di fronte al rischio di processi penali e di condanne, disse: «Se il giudice ci condanna chiudiamo le fabbriche e andiamo da un’altra parte». Era il 1972, ed è identico a ciò che succede oggi. Nessuna novità.

    Le norme sono adeguate?

    Le leggi ci sono. Il primo provvedimento importante al quale ho partecipato da senatore è stata l’approvazione del testo unico in materia i sicurezza sul lavoro. Era il 2007, durante il governo Prodi. Dovevano essere razionalizzate le norme, rese meno contraddittorie, bisognava dare un senso anche alla prevenzione, ai controlli, alla repressione. Quella riforma era il minimo che si potesse fare, perché poteva essere anche più incisiva. Poi c’è stato il cambio del governo con Berlusconi, il futuro ministro Maurizio Sacconi in campagna elettorale promise che avrebbero messo mano a quello che avevamo fatto col testo unico. Infatti poi il nuovo governo varò una serie di norme volte allo smantellamento di quel poco di prevenzione e di repressione che era stato introdotto. Venne bloccata completamente la normativa sulla sicurezza del lavoro in materia di amianto e gli interventi a favore degli operai impiegati nella lavorazione di questa sostanza cancerogena. Venne bloccato anche il fondo per le vittime.

    Adesso cosa sta facendo il Parlamento?

    Alcuni mesi fa c’è stata una risoluzione firmata da 40 senatori, avocata da tutto il Senato, per chiedere degli interventi per l’ambiente, le bonifiche, la sorveglianza degli operai e dei lavoratori malati: insomma per un insieme di norme per tutelare questi lavoratori massacrati. Ci sembrava sacrosanto e il governo aveva dato parere favorevole. Però per il momento siamo ancora fermi.

    Quando interviene la magistratura è sempre troppo tardi. La politica deve aspettare una sentenza per capire che Taranto fa morire?

    Quando interviene la magistratura la patologia è già in atto. La diversità tra Porto Marghera e il caso dell’Ilva consiste nel fatto che lì noi valutavamo i fatti di qualche anno prima, ma la situazione era già cambiata. A Taranto, invece, è ancora così, c’è un pericolo concreto e attuale che impone dei provvedimenti. Sono stato a Brindisi e a Taranto qualche anno fa: se Porto Marghera negli anni bui era un inferno, ciascuno di quelli erano due inferni. Gli interventi della politica mi sono sempre sembrati molto limitati.

    Malgrado il protocollo d’intesa tra Regione Puglia e Ilva sull’abbattimento dell’inquinamento?

    Io ai protocolli d’intesa non ho mai creduto. Sono adesioni volontarie tra parti private e parti pubbliche, quindi amministrazioni dello Stato e imprenditori, che non creano alcun vincolo giuridico. Come quelli fatti a Porto Marghera: quando una parte non accettava più le clausole denunciava la causa e se ne andava via senza colpo ferire e senza alcuna conseguenza. Sono uno strumento adeguato per mettere tutti intorno allo stesso tavolo, però poi l’accordo deve avere forza vincolante: se si decide qualcosa, quel qualcosa deve essere rispettato e fatto rispettare. Perché in queste storie chi ci rimette è sempre l’anello più debole della catena: l’operaio, che non ha tutele adeguate.

    Come bisognerebbe intervenire sui Sin, i Siti di interesse nazionale che individuano le aree a rischio?

    A Marghera, che è una di queste, sono il primo firmatario di un disegno di legge per la semplificazione delle procedure, individuando le autorità che devono intervenire. Oggi se un imprenditore vuole investire lì e vuole o deve bonificare un sito, si rivolge prima al commercialista, poi all’avvocato, poi all’ingegnere. Insomma non sa dove sbattere la testa. Oltre alla cifra consistente che deve tirare fuori, ci sono tante autorità che devono dare pareri, contropareri, valutazioni. Alla fine non si riesce ad andare da nessuna parte. Bisogna semplificare le procedure, l’iter autorizzativo per consentire che si investa non soltanto da parte del pubblico ma anche del privato.

    Però poi il danno lo subisce chi lavora e le amministrazioni che devono gestire un ambiente devastato. A quel punto?

    Quando si arriva al processo, le amministrazioni devono essere tutte dalla stessa parte nel pretendere verità e giustizia e il risarcimento per danni. Per Marghera fin dalle prime battute venne chiesto un risarcimento che è rimasto in assoluto il più alto della storia d’Italia: 550 miliardi di lire per le bonifiche del sito e 72 miliardi per gli operai ammalati e i parenti dei morti. Intorno a quelle vicende (il petrolchimico, l’amianto, le nube tossiche a Marghera), è cresciuta la sensibilità dei cittadini. Non può più succedere quello che è accaduto dieci o vent’anni fa. Perché i cittadini sono molto attenti e certi soprusi non li accettano più.

    Però poi sono gli operai che si trovano davanti all’incubo lavoro o salute…

    Questa domanda me l’ha fatta direttamente un lavoratore di Marghera. Era il 2008, mi avvicinò durante un incontro elettorale e mi disse: io ho 35 anni, due figli e devo portare il pane a casa. Non posso accettare che venga chiuso l’impianto: piuttosto che perdere questo posto di lavoro preferisco rischiare il cancro tra vent’anni. È così che la politica segna un ritardo e una sconfitta. Se un operaio arriva a dire queste cose, la politica ha fallito.

    Fonte: Left - Giommaria Monti | vai alla pagina

    Argomenti: prevenzione, sicurezza sul lavoro, governo prodi, Ilva, salute pubblica, Porto Marghera, Taranto, Regione Puglia, Governo Berlusconi IV, Sacconi Maurizio, amianto, operai | aggiungi argomento | rimuovi argomento
    » Segnala errori / abusi
    Pubblica su: share on twitter

 
Esporta Esporta RSS Chiudi blocco

Commenti (0)


Per scrivere il tuo commento devi essere loggato