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Dichiarazione di Pier Luigi BERSANI

Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: Art.1-MDP-LeU) 


 

Fare il PD - documento completo

  • (12 giugno 2013) - fonte: giornale telematico Fan Page e La Repubblica - inserita il 14 giugno 2013 da 21827
    Il prossimo Congresso dovrà anzitutto rispondere alla domanda se e in che modo il progetto del Partito Democratico possa ancora essere utile all’Italia. Noi siamo convinti che dalla scelta di fareil PD non si possa tornare indietro e che anzi il compito di fare davvero il PD e di esprimerne tuttele potenzialità sia ancora davanti a noi . Nei sei anni trascorsi dalla sua nascita, il PD si è radicatonel Paese, ha consolidato responsabilità rilevanti nel governo degli enti locali e oggi, anche se aseguito di un esito elettorale e un percorso post-voto diversi da quelli auspicati, esprime con un proprio esponente la guida del governo nazionale. Pur nel pieno di una convulsa trasformazionedella struttura politica del Paese e della più grave crisi economica dal dopoguerra, siamo giunti aessere la prima forza politica del Paese e quella con le maggiori responsabilità di governo a livellonazionale e locale. Tuttavia è indubbio che il processo di crescita e assestamento del partito non siaarrivato a un esito compiuto.Il Congresso dovrà riflettere a fondo sul cammino fin qui percorso e sulle rilevanti novità delloscenario post-elettorale. La nostra convinzione è che quanto avvenuto renda ancora più necessariorilanciare un grande soggetto politico di ispirazione popolare e riformista, che investa con ancoramaggiore decisione e spirito innovativo sulla sintesi delle sue culture politiche fondative, orgogliosodella sua originalità ma saldamente ancorato alla famiglia dei progressisti europei. Un partito chealle sempre più forti spinte di cambiamento, semplificazione e di partecipazione diretta dei cittadinisappia offrire una risposta alternativa al populismo qualunquista e alla personalizzazione esasperata. Fare il PD per ricostruire la democrazia italiana nel cuore del processo di formazionedell’Europa federale : questa è l’altezza della sfida storica a cui collocare la nostra riflessione e lanostra iniziativa con il Congresso.Le note che seguono vogliono essere un primo contributo in questa direzione, sulla base della convinzione che il confronto sui contenuti politici debba essere prioritario rispetto a quello sullecandidature. Il testo, che in quanto prima traccia di discussione è privo di ogni pretesa di esaustivitàe si propone anzi di stimolare altri contributi anche su temi qui non affrontati, si articola attorno aquattro nuclei tematici: l’analisi del voto di febbraio in una prospettiva europea, la riforma delloStato e delle istituzioni, la proposta economica e il radicamento sociale del partito, il rilancio del PDcome soggetto politico collettivo fondato sulla partecipazione consapevole e non sulla delega plebiscitaria. 1. Il voto italiano nel contesto europeo: ricongiungere moneta e sovranità democratica. Non si riesce a individuare neppure lontanamente l’epicentro del terremoto elettorale italiano del24-25 febbraio 2013 se non lo si inquadra nel contesto della crisi dell’euro e dei suoi poderosieffetti politici. Una crisi che in Europa ha potentemente acuito quel processo di svuotamento delledemocrazie nazionali verificatosi nell’intero Occidente lungo il trentennio della globalizzazioneneo-liberale e del gigantesco riassetto economico e geopolitico tuttora in corso.L’esplosione di consensi per il M5S e la rottura dello schema bipolare difficilmente possonoessere spiegati in una chiave angustamente domestica, come è finora prevalentemente avvenuto neldibattito pubblico e anche nella nostra discussione interna. Ciò non significa affatto cancellare il peso delle scelte e anche degli errori politici che sono stati compiuti, e neppure sottovalutare unacondizione già esistente di sofferenza dell’economia e della società italiana. La pesante perdita dicompetitività del sistema produttivo e la mancanza di dinamismo sociale avevano già precise causeinterne: i mancati investimenti in ricerca e tecnologia, il collasso del sistema formativo, leliberalizzazioni frenate, il ritardo nel campo dei diritto individuali, l’inefficienza burocratica, il più alto tasso di corruzione e di evasione fiscale in Europa dopo la Grecia, la presenza pervasiva dellacriminalità mafiosa.Lo sconvolgimento del panorama politico a cui abbiamo assistito è dovuto all’intreccio di questasituazione interna con la circostanza che l’Italia, nel pieno della crisi economica globale, si siatrovata intrappolata dentro i micidiali difetti di costruzione dell’architettura dell’euro. Undispositivo economico e istituzionale che, se non corretto, è inevitabilmente destinato a portare ilsistema democratico-rappresentativo, non solo in Italia, alla paralisi e al definitivo discredito.Il nostro principale errore è stato forse proprio quello di non essere stati del tutto conseguentirispetto a questo punto cruciale. La critica delle politiche europee di austerità ha caratterizzato le posizioni del PD a partire già dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani dell’eurozona, in una fasein cui Berlusconi e Tremonti cercavano di contrastare la vertiginosa crescita dello spread, acceleratadalla totale perdita di credibilità del loro governo, accettando vincoli di bilancio palesemente insostenibili. La decisione di appoggiare la nascita del governo Monti, in qualche misura obbligatadi fronte alla prospettiva di un imminente default finanziario del Paese, ha tuttavia portato aindebolire questa consapevolezza – l’ineluttabilità di un processo di impoverimento e di crescitadella disoccupazione all’interno dell’attuale assetto della moneta unica – nell’elaborazione dellalinea politica e del messaggio di fondo da trasmettere ai cittadini. Non aver fatto di questo il puntoassolutamente centrale nel rapporto con l’elettorato durante la fase di sostegno al governo Monti e poi durante la campagna elettorale ha favorito la parziale ripresa del populismo berlusconiano, nelfrattempo disinvoltamente riposizionatosi su una linea anti-austerità e anti-tedesca, e l’esplosionedel voto anti-sistema di Grillo.A suo modo, una larga maggioranza degli elettori, al di là delle sue precedenti appartenenze, haespresso la convinzione che dentro gli attuali meccanismi dell’eurozona nessuna proposta dicambiamento avrebbe avuto la forza di affermarsi e di arrestare la tendenza alla contrazionedell’economia italiana. In questo quadro, il sostanziale blocco delle misure di riforme della politicaha concorso a irrobustire il vento della contestazione alla politica e ai suoi costi. Questacontestazione ha raggiunto livelli tali da far perdere di vista, anche al PD, la distinzione tra la causae l’effetto. La cosiddetta antipolitica è stata fortemente alimentata dall’emergere di vergognoseruberie ed episodi di corruzione, ma ha tratto origine anzitutto dalla percezione dell’impotenza dei partiti, del Parlamento e del governo. Una percezione, peraltro, non allucinata ma reale: quella diuna politica che sempre di meno è il potere di fare le cose, di trasformare la realtà, di decideredell’allocazione delle risorse e della risoluzione dei conflitti (tutte attività sempre meno possibili per effetto della perdita di sovranità monetaria e della progressiva espropriazione della sovranitàdi bilancio, man mano che la crisi dei debiti pubblici si acuisce), e sempre di più si riduce a purarappresentazione mediatica. In un quadro in cui l’unica funzione percepibile dei politici diventaquella di andare in televisione a parlare di cose che non sono riusciti a fare o che non si possonofare, e in cui settori crescenti della società italiana subiscono processi di impoverimento impensabilifino a qualche anno fa, il rifiuto dei costi di un’attività avvertita come inutile perché ininfluentediventa un tema di massa e la domanda di cambiamento viene declinata in forme sempre piùrabbiose e radicali.Il PD ha provato a reagire investendo sull’apertura civica e sulla partecipazione con la sfida delle primarie per la premiership e per i parlamentari. Si è trattato di una scelta coraggiosa, che è riuscitatuttavia a dare una risposta solo ‘soggettiva’ e ‘sovrastrutturale’ a una richiesta ben più sostanzialedi decisioni e riforme reali rivolta all’intero sistema politico. Le primarie hanno prodotto un effetto positivo nell’immediato, ma tutto è cambiato nella stretta finale, quando il PD, per la doppia ragionedi aver sostenuto fino alla fine con lealtà il governo Monti e di presentarsi favorito alle elezioni suuna linea di responsabilità e di un cambiamento rispettoso delle ‘compatibilità’ europee, è apparsocome il soggetto più governativo e istituzionale. Il coraggio e la credibilità personale di Bersani hanno arginato l’impatto di un voto di sfiducia e scontento, ma complessivamente l’europeismoresponsabile del PD non è apparso una risposta adeguata alla radicalità della richiesta dicambiamento.Si tratta adesso non certo di rincorrere Grillo e Berlusconi sul populismo anti-tedesco, ma diaffermare una linea di serietà e di verità, a partire da un dato che l’esito delle consultazioni elettoralie le rilevazioni dei sondaggi stanno confermando in tutti i paesi della periferia meridionaledell’eurozona (una periferia che peraltro sempre di più tende a inglobare al proprio interno laFrancia). L’unico europeismo democratico sostenibile è oggi quello che afferma con chiarezzal’insostenibilità dello status quo e mette la Germania di fronte alla vera scelta che essa dovràcompiere dopo le elezioni di settembre: un superamento delle politiche di austerità e di rigoremonetario in cambio di un poderoso salto in avanti nella costruzione di un governo federaledell’eurozona. Le posizioni recenti di Hollande e Moscovici indicano che anche la Francia, il Paeseculturalmente e storicamente più restio a ragionare di trasferimenti di sovranità, si sta predisponendo ad affrontare questo tema, di fronte alle ricadute sempre più pesanti dell’attualeassetto dell’euro anche sull’economia francese.È tempo di superare discorsi astratti e proiettati in un futuro indefinito sulla trasformazionedell’UE a 27 membri negli Stati Uniti d’Europa (in una situazione in cui nel Regno Unito siricomincia a parlare seriamente di fuoriuscita da questa Europa a bassa intensità…) e di accelerareinvece con decisione nel dotare l’area dell’euro (quella per cui davvero, e non solo retoricamente,oggi l’Europa rappresenta una ‘comunità di destino’) delle istituzioni rappresentative e di governoeconomico in grado di fungere da embrione di una democrazia federale. Per un Paese nellecondizioni dell’Italia, ricongiungere moneta e sovranità democratica è oggi un imperativo siaeconomico che politico: è l’unica via per rimanere nell’euro evitando che i livelli di benessereraggiunti nei decenni scorsi vengano progressivamente erosi dall’intreccio perverso fra gli effettidella crisi e i vincoli insostenibili del Fiscal Compact, ma è anche l’unica strada per restituire potere decisionale e prestigio al processo democratico. Rendere centrale questo tema nel dibattito pubblico italiano, affermarne la cruciale complessità difronte alle scorciatoie populiste significa ricostruire la funzione di un gruppo dirigente che silegittimi in forza della sua visione storica e della sua autonomia culturale, evitando di rincorrere inmodo subalterno la desolante povertà e la nevrosi quotidiana di un dibattito mediatico in cui la politica rischia di certificare solo la sua definitiva superfluità e irrilevanza. Se il punto è questo, sedavvero il destino della democrazia e dell’economia italiana è affidato al superamento delle politiche di sola austerità e all’evoluzione in senso federale dell’eurozona, bisogna fare di ciò il punto di partenza della nostra iniziativa politica di fronte al Paese e della spiegazione dell’impegnodi governo assieme ai nostri avversari politici della destra.Prima del voto, abbiamo lavorato per mettere definitivamente all’angolo il berlusconismo e per costruire le condizioni di una collaborazione con il centro di Monti, con l’idea che esso avrebbesottratto al PDL la rappresentanza in Italia del popolarismo europeo e avrebbe consentito la nascitadella coalizione europeista possibile nelle specifica situazione italiana. Questo disegno, anche per ladebolezza del progetto politico di Monti, non è riuscito, e, dopo la convulsa fase post-elettorale cisiamo trovati nella necessità di formare la groβe Koalition nella sua versione più indigesta, con unadestra berlusconiana di nuovo in campo e rilegittimatasi agli occhi del popolarismo europeo in forzadi una riconquistata influenza politica. A un po’ di distanza, si inizia a comprendere meglio (ilrisultato delle ultime elezioni amministrative dice anche questo) che aver perseguito condeterminazione l’obiettivo del governo del cambiamento attribuisce al PD presso un’opinione pubblica larga, nonostante la pessima prova data durante l’elezione del Presidente della Repubblica,una riserva di credibilità ben maggiore di quanto appaia nelle rappresentazioni mediatiche correnti oanche nella nostra discussione interna. L’empasse e la possibile disarticolazione interna di fronte alla quale oggi il movimento di Grillo si trova conferma che una parte significativa dell’elettorato siè sentito tradito rispetto a una richiesta di cambiamento, che deve per noi in ogni caso rimanerel’orizzonte strategico al quale tendere. Oggi, nelle condizioni date, la riserva di credibilità cheabbiamo preservato su questo fronte è una risorsa decisiva per spiegare al Paese il senso del nostroconvinto sostegno alla missione del ‘governo di servizio’ guidato da Enrico Letta.Tocca al PD caratterizzare la funzione storica di questo esecutivo nella fase cruciale che si apriràdopo le elezioni tedesche. Si tratterà, da un lato, di contrastare, nella coscienza di vasti strati popolari, l’avventurismo isolazionista e anti-europeo del M5S e, dall’altro, di convogliare la posizione anti-austerità della destra su un terreno costruttivo. Il governo Letta è chiamato adivincolare il nostro Paese dalla morsa dell’austerità non certo lisciando il pelo a suggestioni anti-europee, ma facendo dell’Italia un protagonista centrale della nascita del nocciolo federaledell’eurozona. 2. L’impotenza della democrazia e la sfida del populismo: riconnettere partecipazione edecisione. L’altro compito decisivo a cui è chiamata la legislatura che si è aperta è la riforma delle istituzioni.Su questo il gruppo dirigente del PD è chiamato a parlare al Paese con forza e chiarezza. La riformadella seconda parte della Costituzione non è il prezzo che dobbiamo pagare all’accordo di governocon la destra, ma è una necessità storica ineludibile per rivitalizzare le istituzioni democratiche,nel momento in cui l’Italia è chiamata a reggere la sfida di un salto qualitativo nell’integrazioneeuropea. Il superamento del bicameralismo e l’istituzione del Senato delle Autonomie, la riduzione delnumero dei parlamentari, il connesso ammodernamento dei regolamenti parlamentari, la correzionedel Titolo V della Costituzione in direzione di un corretto equilibrio tra competenze statali eregionali, la necessità di una regolamentazione organica dei partiti e delle loro forme difinanziamento e,last but not least, la scelta coerente di una forma di governo e di una relativa leggeelettorale sono esigenze su cui da anni si discute, senza essere mai riusciti a individuare lecondizioni politiche per passare dalle parole ai fatti. I nostri avversari della destra hanno dimostratoin più occasioni di saper galleggiare nel discredito della politica e delle istituzioni; per una forzacome il PD, invece, reggere il peso delle larghe intese senza riuscire a corrispondere con i fatti a unarichiesta di riforma della politica rischia di essere un colpo letale.L’inadeguatezza dell’attuale assetto istituzionale viene ormai percepita in un’opinione pubblicalarga, non più solo tra gli esperti, come uno dei segni più evidenti di paralisi e inconcludenza delsistema politico. Dobbiamo sapere che, in una situazione storicamente peculiare come quellaitaliana, un’ulteriore stasi del processo riformatore non è certo destinata a rafforzare il consensoattorno all’impianto costituzionale, ma rischia di alimentare spinte di radicale semplificazione in senso populista e plebiscitario. È evidente che, sulla base della tradizione politico-costituzionaledel nostro Paese, la via maestra consisterebbe in un ammodernamento del sistema di governo parlamentare e in una conferma della funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. Etuttavia l’esperienza ci insegna che solo un vasto consenso attorno a un disegno coerente è in gradodi garantire il successo di un tentativo riformatore e la certezza dei suoi tempi. Su un tema delgenere non si può pertanto trascurare l’esigenza di una ragionevole mediazione.Se allora è vero che oggi il contenuto sociale e partecipativo della prima parte della Costituzione può essere salvaguardato solo se si accetta la sfida di un deciso ammodernamento della sua seconda parte, a priori non si può rifiutare di discutere nemmeno l’ipotesi di spingersi oltre le colonned’Ercole del suo impianto parlamentare. La ragione di ciò non risiede semplicemente nel fatto che ilmodello semi-presidenziale alla francese è la forma di governo che consentirebbe di raggiungere un compromesso con la destra su una legge elettorale fondata sul doppio turno di collegio. Il punto è piuttosto ragionare su un nuovo equilibrio dei poteri, che consenta di dare uno sbocco democratico ecostituzionale a una spinta alla personalizzazione e a un’istanza di decisione diretta da parte deicittadini che, se non riconosciuta e canalizzata entro forme regolate, rischia di accentuare ledeformazioni plebiscitarie del ventennio berlusconiano e di travolgere ogni presidio istituzionale. È peraltro da dimostrare che il rischio di un’uscita di tipo ‘sudamericano’ dalla crisidemocratica sia maggiore con un sistema semi-presidenziale accompagnato da un forte ruolo diun’assemblea legislativa composta da parlamentari scelti dai cittadini in un’elezione distinta, dauna rinnovata funzione dei partiti sulla base di una legge di attuazione dell’articolo 49 dellaCostituzione e da una seria normativa su anti-trust e conflitto di interessi, piuttosto che con formedi ‘premierato forte’ non sufficientemente bilanciato, in cui il capo del governo disponga del poteredi scioglimento delle Camere e magari anche, per effetto di una legge elettorale come l’attuale, del potere di nomina di una buona parte dei parlamentari.Ciò a cui occorre tendere è, in ogni caso, un sistema equilibrato, che sia dotato di forza decisionalee insieme degli indispensabili contrappesi istituzionali. L’obiettivo deve essere quello di ricostruireun nesso tra partecipazione e decisione democratica, ridefinendo la funzione dei partiti e delParlamento in un quadro in cui le trasformazioni sociali e culturali producono una forte istanza di protagonismo diretto dei cittadini. In questo senso,il nostro avversario non è il semipresidenzialismo in sé, ma qualsiasi curvatura in senso populista sia del presidenzialismo chedel premierato. 3. Per una nuova creazione di valore oltre la crisi: uguaglianza, lavoro, diritti, impresa. L’ Italia giusta è stato lo slogan centrale della campagna elettorale del PD. Si è discusso della suaefficacia comunicativa, ma certo la scelta è stata coerente con il tentativo compiuto durante gli annidella segreteria Bersani di fare dei temi del lavoro e dell’eguaglianza il baricentro dell’identità del partito dopo la lezione della crisi economica globale. La vittoria elettorale dimezzata di febbraio èstata interpretata da alcuni come il segno che questo baricentro identitario vada rimesso indiscussione. Il problema è forse più complicato e dovrebbe indurre a maggior cautela rispetto a sia pur legittimi desideri di rivincita nel confronto interno al PD.In primo luogo, l’argomento che il profilo politico-programmatico del partito fosse non sufficientemente aperto alle istanze liberali è stato adoperato ben prima del voto, soprattutto a partire dalla nascita del governo Monti e dalla celebrazione della sua famosa ‘agenda’. Per mesi èvissuta nella nostra discussione interna l’idea che l’adesione a questa agenda sarebbe dovutadivenire il tratto centrale della nostra proposta al Paese, in quanto in grado di catalizzare unconsenso trasversale e maggioritario. L’esito elettorale della lista Monti, lontanissimo dalleaspettative non solo dei suoi protagonisti ma anche di quanti nel PD sostenevano questa posizione,dimostra che il problema di andare oltre il recinto del tradizionale radicamento sociale della sinistra italiana è decisamente più complesso.Questo problema certamente esiste, al di là della dimensione numerica insoddisfacente delrisultato del PD. Tutte le principali analisi qualitative del voto del 24-25 febbraio 2013 segnalano che il centrosinistra ha tenuto decisamente meglio le posizioni tra i lavoratori del pubblicoimpiego, i pensionati e gli elettori con elevato livello di istruzione, mentre ha visto accentuarsi le sue difficoltà tra lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti del settore privato, piccoli e mediimprenditori, precari e disoccupati. È stato acutamente osservato che l’accentuazione di questodato nel voto di febbraio ha segnato l’affermazione di una sorta di bipolarismo sociale in luogo diun declinante bipolarismo politico. L’obiettivo di rompere la gabbia di questo bipolarismo socialedeve certamente essere uno dei temi centrali del prossimo congresso. Dovremo riflettere non sull’accantonamento, ma su una nuova e più coinvolgente declinazione dei temi del lavoro edell’uguaglianza, in grado di parlare a coloro che sono ai margini dell’attuale sistema di welfare eche tuttavia non appartengono a quella ristretta area di fasce sociali privilegiate uscite ancora piùricche dalla crisi.È una frontiera difficile, ma irrinunciabile se non si vuole rinchiudere il PD in una condizione diminorità rispetto alla struttura reale della società italiana e a un futuro in cui l’area del pubblicoimpiego e di coloro che beneficiano più direttamente della spesa pubblica sarà destinata arestringersi. Il cuore pulsante dell’economia italiana è ancora il tessuto di piccole e medie impresea carattere familiare, che affrontano le difficoltà della crisi e della globalizzazione. Esserappresentano un giacimento straordinario di competenze e passioni, oltre che un veicolo dimobilità sociale. Ma per parlare ad artigiani, commercianti, microimprenditori, precari e piccoli professionisti con partita IVA non bastano certo ricette un po’ politiciste come lo spostamento al centro o l’assunzione di un profilo più ‘moderato’. Si tratta peraltro di ceti ormai che hanno subitodrastici processi di impoverimento, piuttosto radicalizzati nel loro atteggiamento nei confrontidella politica e a cui semmai bisogna offrire messaggi forti. La valorizzazione del lavoro e la lotta asperequazioni ormai insostenibili nella distribuzione del reddito non sono di per sé posizioni ostili oindifferenti a questi mondi, che non vanno vezzeggiati lisciando il pelo ai loro risentimenti, maaiutati a superare gli ormai evidenti elementi di arretratezza del ‘microcapitalismo italiano’. La sfida è quella di trovare un linguaggio e soluzioni concrete su temi come un nuovo patto fiscale fondatosull’alleggerimento della tassazione su imprese e lavoro, la riforma del welfare, la semplificazione burocratica, il recupero del gap infrastrutturale, la difesa efficace contro le infiltrazioni e icondizionamenti criminali in aree sempre più vaste del Paese.In fondo, a ben vedere, si tratta di figure sociali essenziali per sviluppare nuove forme di creazionedel valore e di intrapresa economica dopo la crisi del capitalismo finanziario e della rendita. Suquesto si giocherà una decisiva sfida di innovazione, da cui non dipende solo la competitivitàelettorale del centrosinistra, ma la possibilità di costruire un’alleanza sociale per il cambiamentodelle forze del lavoro, dell’inventiva produttiva e commerciale, del sapere. Si tratterà anche diridefinire un ruolo economico dello Stato nel suo rapporto con le forze del mercato e dell’impresa,oltre le ingannevoli suggestioni neoliberali dello ‘Stato minimo’ e oltre l’idea altrettantoirrealistica di un’economia trainata solo dal settore pubblico. Si pensi, ad esempio, a quanto unapproccio di questo tipo sia necessario per tornare ad affrontare, dopo la grande rimozionedell’ultimo decennio, la grande questione del Mezzogiorno, che appare, oggi più che mai, come ilsegno più macroscopico e drammatico dell’inadeguatezza della forma-Stato e dell’economiaitaliana rispetto alla sfida dell’integrazione europea. O a come questa innovazione culturale sianecessaria per ripensare il nostro welfare con il concorso attivo di forze che da anni ormai agisconotra il mercato e la Stato, come l’impresa sociale e il mondo del Terzo settore. Una moderna politica industriale, degli investimenti e della ricerca disegna il profilo di uno Statoche, con un uso accorto della spesa pubblica e con alcuni presidi economici fondamentali, aiuta la società a riorganizzarsi, a fare rete e cooperazione, a valorizzare le energie della produzione, amettere in circolazione i saperi, a contrastare illegalità e corruzione. È un grande campo diriflessione e di innovazione, aperto nei partiti progressisti in diversi Paesi del mondo e su cui ancheil pensiero ispirato alla dottrina sociale della Chiesa sta offrendo contributi di prim’ordine. Anche inItalia il centrosinistra può oltrepassare i suoi confini non rinculando su posizioni rese anacronistichedalla crisi economica, ma guardando ai nuovi bisogni e alle nuove potenzialità che la grandetrasformazione in atto dischiude alle forze della produzione, del sociale, del sapere. Su questa nuovafrontiera si colloca anche il tema di un allargamento e di una tutela più efficace della sfera dei dirittiindividuali, in cui la dimensione sociale si intreccia con quella della libertà individuale. Di qui passa un altro sentiero decisivo per il cambiamento della struttura economico-sociale del Paese e ilsuperamento delle sue strozzature e arretratezze. 4 . Controcorrente: per un soggetto politico collettivo. La riflessione sul partito deve essere condotta senza ipocrisie e toccare i punti di fondo, sevogliamo capire cosa non ha funzionato fin qui e soprattutto quale idea di partecipazionedemocratica abbiamo in testa. In questi anni è enormemente aumentato il sovraccarico di richiesteinsoddisfatte che gravano sul sistema democratico. Ne è derivata una spinta ancora più forte alla semplificazione del linguaggio e dei tempi della politica. Questa spinta, non trovando alcuno sbocco in una riforma delle istituzioni e dei partiti, si è tradotta in un ulteriore scivolamento versoil modello dell’uomo solo al comando, il primato della comunicazione e la riduzione della partecipazione a delega plebiscitaria al leader. Un modello di cui Berlusconi è stato il principaleinterprete e che –lo abbiamo visto- porta consenso ma non soluzioni. Noi siamo convinti che faredavvero il PD significhi essere alternativi e non arrendersi a questo tipo di logica. Questa è unadiscriminante di fondo che comporta delle conseguenze strutturali nel modo di intendere il partito. Per ristabilire un nesso tra partecipazione e decisione è indispensabile che chi aderisce al PD siaconsapevole di rimettere una parte della sua soggettività decisionale a un confronto e a unadeliberazione di tipo collettivo. Senza questo elementare principio d’ordine un partito non è unsoggetto collettivo e non è in grado di assicurare quel grado di unità e affidabilità senza il quale essodiventa inutile per i suoi membri e per la società intera. Solo così una ricchezza di partecipazionesociale può pervenire a esiti di decisione. Agli albori della democrazia di massa i partiti sono statiinventati proprio perché il singolo individuo, senza associarsi con quanti condividevano i suoiinteressi, non avrebbe contato nulla nel processo decisionale. Oggi la società contemporanea haframmentato appartenenze e convinzioni, ma quel punto di fondo permane, in una situazione in cuiè enormemente più difficile aggregare ‘parti politiche’sulla base di interessi omogenei e in cui lenuove tecnologie dell’informazione, accanto alle straordinarie opportunità informative che offrono,rischiano di attutire la percezione del singolo di non avere alcune incidenza sulle decisioni che contano. Il populismo leaderistico appare in sintonia con lo spirito dei tempi anche perché ha un’affinitàelettiva, forse neanche troppo segreta, con questa ‘logica atomizzante’ di un certo uso della rete: al singolo viene consentito di sfogarsi, lisciando il pelo alla sua rabbia e ai suoi legittimi risentimenti,ma in realtà non gli si sta dando un potere reale, ma gli si sta togliendo il potere faticosamentecostruito con la democrazia costituzionale dei partiti: quello di concorrere con le persone a luiaffini per interessi e convinzioni a trovare le soluzioni collettive ai problemi. O il Partito Democratico si pone l’obiettivo di ricostruire un rapporto tra l’espressione della soggettivitàindividuale e il vincolo che la ricerca di decisioni collettive comporta, dando uno sbocco costruttivo anche alle nuove spinte partecipative che emergono dalla rete, oppure si consegnadefinitivamente alla logica del suo avversario e a un terreno, quello della semplificazione populista, su cui è difficile che possa mai vincere. L'alternativa che ha di fronte il PD è quella di continuare a essere - al di là dei richiami retorici estatutari - un semplice ‘spazio politico’ variamente frequentato nel periodo di tempo che intercorretra un'elezione primaria e un'altra, oppure diventare un soggetto politico che ricostruisce un nesso tra partecipazione e decisione, facendo in modo che iscritti ed elettori possano davvero contribuire,attraverso una consultazione e un confronto di tipo deliberativo, alla discussione di programmi escelte politiche, oltre che alla selezione di gruppi dirigenti e candidature.Se nel recente passato abbiamo perduto molto, forse troppo tempo, in una sterile discussione tra ifautori del ‘partito liquido’e quelli del ‘partito pesante’, oggi si deve evitare il rischio di ripetere l'errore di dividersi inutilmente e strumentalmente sul tema ‘primarie sì’ – ‘primarie no’. L'applicazione per la prima volta in Italia e in Europa di uno strumento di selezione dellecandidature politiche pensato e attuato in un contesto culturale e politico così differente dal nostrocome quello degli Stati Uniti rappresenta un incontestabile tratto innovativo del PD. Non si tratta, dunque, di negare il valore positivo e inclusivo dello strumento delle primarie, ma proprio per valorizzarlo ulteriormente è necessario avviare una riflessione critica, alla lucedell'esperienza (con luci e inevitabili ombre) vissuta in questi anni. Ad esempio, c'è da interrogarsinon tanto sulla giustezza di usare le primarie per il segretario nazionale quand'anche si modificassela norma statutaria che unifica leadership di partito e candidatura alla premiership, ma se non siastata una forzatura usare questo strumento per l'elezione dei segretari regionali e non sia meglio,invece, privilegiare una visione organizzativa e politica che affidi agli iscritti la selezione degliorganismi territoriali di partito. Ciò non deve implicare una chiusura all’interno delle strutture di partito, ma anzi la ricerca di forme nuove per coinvolgere in ruoli di elaborazione e direzione politica, oltre alla ‘militanza’ tradizionale, la ‘vicinanza’ di un civismo socialmente impegnato, dicompetenze e di saperi, che l’applicazione del metodo delle primarie alla vita interna di partito nonsempre è riuscita a valorizzare.Dal canto suo, l'albo dei partecipanti alle primarie - così faticosamente costruito nell'autunnoscorso - non può continuare a essere una sorta di miniera di informazioni inesplorata e inutilizzata.Bisogna rilanciare in termini credibili l’idea del PD come partito di elettori e di iscritti, in cui sianogarantite ai primi forme di coinvolgimento che non si limitino al giorno delle primarie e ai secondiun ruolo decisionale effettivo non solo nella scelta degli organi dirigenti, ma anzitutto su grandi edirimenti questioni politiche, attivando finalmente lo strumento del referendum interno. Il prossimo Congresso nazionale del PD, inoltre, dovrà avviare un ripensamento sul modelloorganizzativo, dando attuazione a una riforma in senso federale del partito, sia per quanto attieneal delicato tema della ripartizione delle risorse economiche, sia in merito una revisione dei criteridi composizione degli organi nazionali (assemblea e direzione), per i quali è necessario prevederel’elezione di una quota non inferiore alla metà direttamente da parte delle organizzazioniterritoriali e una più forte valorizzazione del ruolo degli amministratori locali. Anche daun’innovazione del genere passa l’ormai indispensabile ridimensionamento del correntismo come forma primaria di selezione degli assetti dirigenti del partito. Rafforzare l’interazione fra centro,organizzazioni territoriali e amministratori locali è la via per fare in modo che le diverse areeassumano non una configurazione correntizia verticale (che rende subalterna la vita politica deiterritori alle dinamiche interne del centro del partito), ma una fisionomia politico-culturale. Differenti matrici e prospettive per affrontare gli stessi problemi, non il modo per guardare a problemi e obiettivi diversi, come rischia di avvenire nel caso di una cristallizzazione correntizia.Da questo punto di vista,bisognerebbe prendere in considerazione l’idea di dotare il partito di una propria autonoma struttura dedicata all’analisi sociale e all’elaborazione culturale, anche per farein modo che la pluralità oggi esistente di associazioni, centri studi e fondazioni riconducibili allediverse aree e personalità del PD non si traduca in dispersione e incomunicabilità dei risultati, ma possa essere messa in rete e condotta a esiti di sintesi che rendano realmente fecondo il pluralismodi radici culturali del partito. I rischi di trasformazione del partito in una giungla di comitati elettorali, perfettamente oliati efunzionanti in occasioni di congressi e primarie e praticamente assenti nella vita quotidiana dicircoli e organi territoriali di direzione politica, sono sotto gli occhi di tutti. Far finta di non vederela realtà in nome di un’acritica difesa del feticcio delle primarie non contribuisce certo a trovaresoluzioni capaci di combattere gli effetti disgregativi del correntismo e delle affiliazioni puramente personali. Senza contare, inoltre, che la riduzione del partito a una mera confederazione di correntie comitati elettorali, impegnati ciascuno in un’autonoma raccolta di risorse e finanziamenti e in una competizione sregolata tra loro, acuisce il rischio di fenomeni degenerativi sul piano dellatrasparenza e del rigore dei comportamenti. Contrastare la china involutiva del correntismo èanche la condizione per riproporre in termini non puramente declamatori la questione moralecome tratto qualificante dell’azione del PD e della selezione dei suoi gruppi dirigenti e dei suoicandidati a tutti i livelli. I processi sociali di frammentazione e individualizzazione hanno messo in crisi i partiti di massain tutta Europa. Da nessuna parte però è avvenuta, come da noi, una delegittimazione dei partiti taleda contestare la loro stessa funzione democratica. Solo da noi -caso unico tra tutte le democraziecontinentali- il principio del finanziamento pubblico dei partiti, pur se ridimensionato e soggetto auna regolamentazione rigorosa, viene contestato alla radice. A cosa ha condotto però lacontrapposizione con la società civile e il radicamento di una pervasiva ideologia anti-partito alivello popolare e di classi dirigenti? A un’incapacità di mediazione e di sintesi unificanti, a unamaggiore disarticolazione territoriale e sociale, a una perdita di orizzonte nazionale di moltiinteressi settoriali che, ancor di più in una fase di crisi economica come quella attuale, hannorafforzato il loro carattere corporativo.Per contrastare tali fenomeni abbiamo bisogno di un partito che, da un lato, riaffermi l’autonomiae l’essenzialità della politica, dall’altro, ne riconosca i limiti. Un partito che unisca orgoglio eumiltà, che sappia riconoscere i confini della sua azione e si ponga perciò l’obiettivo di unrapporto strutturalmente aperto con la società, un rapporto di affiancamento e collaborazione conmovimenti democratici e civici, che pretendono politicità senza per questo pretendere di sostituirsialla politica. La prospettiva di un grande partito popolare e riformista costituisce l’unica speranza per l’Italia. I recenti avvenimenti ci dicono che, se vogliamo realizzare questa speranza, dobbiamolavorare ancora molto sul piano politico-culturale e su quello organizzativo,ma che il progetto del PD, in quanto legato a una necessità storica del Paese, rimane più forte delle sue debolezze.
    Fonte: giornale telematico Fan Page e La Repubblica | vai alla pagina
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Commenti (1)

  • Inserito il 14 giugno 2013 da 21827
    SOGGETTO POLITICO IN CERCA D'AUTORE - di Bianca Clemente Il documento di Bersani "Fare il Pd" può forse non piacere a tutti, è comprensibile. Tuttavia è innegabile che esso contenga alcuni passi di verità incontestabili. La sua analisi sull'Europa ed il suo rapporto con l'italia, il fiscal compact, i "difetti di costruzione dell'architettura dell'euro"; è limpida e schietta. I suoi timori sul populismo generato dalle "rivendicazioni rabbiose e radicali" della cittadinanza e di certa politica, sono sincere; l'idea di dover "ricongiungere moneta e sovranità" è un assunto incontrovertibile, riconosciuto stesso a livello europeo. Ma soprattutto il suo rendersi conto lucidamente della frattura avvenuta tra paese reale e paese mediale, tra necessità di politiche sociali e politiche effettuate nel concreto, tra la sinistra ed il suo elettorato, maggiormente avvertita proprio negli ultimi anni, è un dato di onestà intellettuale, cui non si può non rendere onore. Le vicende elettorali hanno certamente appannato l'immagine di Bersani e del bersanismo ma non possono aver appannato l'urgenza ed esigenza del paese di un cambiamento cui solo Pier Luigi si è fatto pieno portavoce. Un cambiamento d'impostazione civile e morale che fatica ad affermarsi, un patto di coesione sociale messo seriamente in pericolo ed in discussione ( e le ultime vicende di violenza e sopraffazione sociale ne mettono il suggello) dal persistere e perdurare di una inquetante procedura politica tutta orientata al personalismo e/o al "ghe pensi mi" che empiricamente non risolve nulla ed in fondo non vuol dire nulla. Certo di Bersani disorienta la sua analisi sul leader non leader, su quel collettivo pronunciato un pò troppe volte che ha fatto esclamare al premier in pectore Letta : "perdonate l'espressione ma ci vogliono le palle, in altro luogo e per altri intenti". Ci vuole un leader forte, lo dicono un pò tutti, ma non un leader presidenzialista ed assoluto, un leader di mediazione, un leader di cooordinamento. Non ci rendiamo conto, però, che è esattamente ciò che dice e vuole Bersani. Per lui il collettivo è l'ispirazione del leader. Il leader che ha la forza di annullare il suo personalismo per portare avanti le idee collettive e rappresentative della maggioranza della popolazione e per questo un leader più forte. Un idea di leader alla Berlinguer, ma anche alla De Gasperi, solo un pò più masticabile. Il tentativo di Bersani è stato quello di saldare meglio il Pd intorno ad una figura dai contorni un pò sfumati. E' alieno al personalismo Bersani. Mi sembra di aver capito bene. Mi sembra di aver capito anche che, accantonato un attimo la frizione intorno al bipolarismo e centrismo, l'idea cardine di Bersani resta riforzare un partito soggetto politico, riformista e soprattutto progressista in Europa. Ma non è che sta lì a far le pulci a questa definizione. Per lui è l'Italia che è importante, e tutto ciò che farà bene all'Italia gli andrà bene e sarà lì in prima fila a combattere politicamente. Così resta che a Bersani non si perdona il crack elettorale, la sua allergia alla concorrenza accessa, il suo voler imporre idee che poi non hanno avuto effettivo risultato e riscontro mainstream. A Bersani non si perdona il suo pensare a sinistra ma ... moderatamente bersaniano: morbido con il centro. Il suo voler inglobare un pò tutto per finalizzarlo all'obiettivo del risanamento economico e civile dell'Italia. Il suo antico progetto di Italia Bene Comune, naufragato sugli scogli della irriducibilità del M5s e delle necessità mediatiche. La sua cattiva gestione dell'elezione del Presidente della Repubblica. In definitiva Bersani è stato avversato, e per questo è ancor meno affidabile, in questo momento, politicamente. Ne prende atto nel documento, ma il suo progetto politico resta ancora vivo, vitale e necessario e soprattutto estremamente affascinante. Soprattutto dopo vent'anni di berlusconismo. (b.c.)

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