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Dichiarazione di Leonardo RAITO

Alla data della dichiarazione: Sindaco  Comune Polesella (RO) (Partito: Lista Civica - Cen-Sin) 


 

L'università italiana è malata

  • (20 febbraio 2016) - fonte: Blog personale - inserita il 08 aprile 2016 da 812
    L’Italia è il paese delle contraddizioni. Dalle piccole cose fino alle più grandi, non siamo stati e non siamo in grado di stabilire punti di contatto con una cultura fatta di serietà, di chiarezza, di obiettivi certi. Il mondo universitario italiano non si sottrae a questa regola non scritta e non riesce a garantire in modo soddisfacente l’unico obiettivo primario verso cui dovrebbe tendere, la qualità della formazione degli studenti. Sia questa umanistica, scientifica, di qualsivoglia genere. Troppe contraddizioni, infatti, minano alla base il sistema. In primis, se lo guardiamo dalla parte degli utenti (gli studenti) non possiamo nasconderci che molti atenei stanno prendendo per i fondelli i ragazzi, tradendo speranze e aspettative di giovani e famiglie. Quanti corsi di laurea inutili esistono? Decine. Quante fabbriche di titoli senza senso? Moltissime. Quante sedi universitarie anacronistiche? Troppe. Eppure, l’andazzo continua. Corsi di laurea sfornano formatori privi dell’abc del formatore, mezzi giuristi impiegabili chissà dove, mezzi economisti, mezzi ingegneri ecc. Il sistema del 3+2 (laurea di primo e di secondo livello) non ha prodotto, in chiave culturale, un salto di qualità: sarà vero che abbiamo più laureati, ma costruiti in che modo? Si prenda ad esempio il sistema dei crediti: alcuni atenei hanno fissato che un credito universitario equivalga allo studio di 100 pagine di libro. Bene, per venire a una disciplina che conosco bene, la storia contemporanea, un esame da 6 crediti significa lo studio di 600 pagine: nemmeno la lunghezza di un manuale! Come possiamo certificare la conoscenza di una disciplina se i ragazzi non hanno nemmeno la possibilità di completare un approccio manualistico? E la parte scientifica e di ricerca che magari veniva garantita dai corsi monografici dove la mettiamo? Cassata. Se pensiamo poi che in molte lauree triennali non si discutono nemmeno più le tesi di laurea, che dovrebbero essere la certificazione della piena maturità del laureato. Niente nemmeno qui. Non parliamo poi del reclutamento dei docenti, con sistemi che si sono seguiti nel tempo, senza uniformità e chiarezza. Già dai dottorati di ricerca, vediamo come i gruppi di baroni universitari (ce ne sono ancora molti, troppi; andrebbero estirpati!) lottizzino anche le selezioni di questo tipo. Se i dottorati non sono aperti alle persone competenti (molti, per carità, lo sono), come possiamo pensare di mettere in circolo le migliori competenze? Perché non si pensa di trasformare i dottorati in scuole di dottorato aperte, dove gli studenti che abbiano voglia di proseguire il proprio percorso formativo possano liberamente iscriversi, pagando le tasse, e che sia poi il passo successivo a scegliere i migliori da introdurre in pianta stabile nel mondo accademico o nel mondo della ricerca? Perché mascherare sotto forma di concorsi fasulli una cooptazione di fatto che tutti conoscono e di cui nessuno parla? Lo stesso avviene per il reclutamento dei docenti. Qui ogni governo ha voluto lasciare la sua impronta, spesso negativa. Mussi ha bloccato i concorsi che avevano il difetto di un localismo esasperato. La Gelmini ha proseguito nella via imperterrita del precariato attraverso i ricercatori a tempo determinato. Poi le abilitazioni scientifiche nazionali, dove, in alcune discipline, anziché la produzione scientifica e l’attività didattica consolidata viene presa in considerazione la partecipazione a comitati di rivista dove la cooptazione è altrettanto forte. E che dire di commissioni formate da ordinari messi in cattedra con concorsi ridicoli (non è un’affermazione forte, basta leggersi i verbali dei concorsi di qualche anno fa, dove passava gente senza titoli e che magari aveva pubblicato solo articoli su riviste di quarta mano) e che devono selezionare giovani ricercatori più titolati e con più pubblicazioni di loro? E del rifiuto di un approccio multidisciplinare alle aree di ricerca che è la chiave di volta per capire il futuro? Ce n’è abbastanza per rendersi conto che siamo di fronte a un sistema non inclusivo, ma chiuso e disponibile solo per alcune élite. Un sistema clientelare che se non viene riformato a partire dalle radici rischia di implodere trasformandosi in una carrozza trainata da un ciuco stanco e guidata da un autista ubriaco.
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