Openpolis - ULTIME DICHIARAZIONI INSERITEhttps://www.openpolis.it/2018-09-01T00:00:00ZLa certezza (e la chiarezza) della pena come chiave per sconfiggere la criminalità2018-09-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it932790Ho sempre pensato che chi delinque, per non ripetere più un crimine, deve essere messo in condizione di avere la consapevolezza che il sistema giustizia lo punirà e che la punizione sarà giusta e scontata totalmente. Questo, per me, significa vivere in uno stato di diritto, ovvero uno stato dove le regole siano chiare, così come chiari devono essere i diritti e i doveri di ogni persona.
Nelle scorse settimane la mia provincia è stata macchiata da alcuni orribili crimini. Tre rapine, ai danni di anziani che risiedevano in zone isolate, con pesanti violenze sulle vittime, per bottini di poche centinaia di euro, hanno creato un clima di allarme e paura che solo grazie alle indagini e al lavoro dei carabinieri di Verona, Rovigo e Castelmassa, sono riusciti a placare, concludendosi con l’arresto di quattro rapinatori nordafricani dopo l’ennesimo colpo in provincia di Mantova.
La prima azione delle forze dell’ordine è stata quindi positiva, ha liberato le strade da quattro pericolosi e violenti delinquenti, rimettendoli nel posto che meritano. Ma il tutto non si ferma qui. Le regole della democrazia ora passeranno al sistema giudiziario, che dovrà valutare e condannare i delinquenti e spesso il cortocircuito pare verificarsi qui. La confusione regnante nelle nostre norme, con reati che prevedono pene arbitrarie, spesso con termini minimi che sembrano vanificare il lavoro delle forze di sicurezza.
Mi è capitato a più riprese di parlare con membri delle forze dell’ordine scoraggiati dalla giustizia: anni di lavoro vanificati dalla concessione di attenuanti, di pene accessorie, con delinquenti che quasi sembrano deridere poi lo stato; e come non ricordare le telefonate di quei predoni che parlavano del sistema giustizia italiano come di un eldorado che non faceva neanche il solletico?
Tutto questo non può che farci riflettere. Lungi da me un sistema della giustizia fai da te dove ognuno si sente in diritto di fare ciò che vuole, magari sparando all’impazzata dalla finestra di casa. Ma non possiamo tralasciare il fatto che i nostri carabinieri, la nostra polizia, tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine, rischiano ogni giorno la vita per la nostra sicurezza. E che il loro lavoro necessita di un maggiore rispetto. Allora, bene il tema della certezza della pena, ma che alla certezza si accompagni anche una chiarezza di fondo non attenuabile da una eccessiva arbitrarietà della giustizia.La certezza (e la chiarezza) della pena come chiave per sconfiggere la criminalità2018-09-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it932791Ho sempre pensato che chi delinque, per non ripetere più un crimine, deve essere messo in condizione di avere la consapevolezza che il sistema giustizia lo punirà e che la punizione sarà giusta e scontata totalmente. Questo, per me, significa vivere in uno stato di diritto, ovvero uno stato dove le regole siano chiare, così come chiari devono essere i diritti e i doveri di ogni persona.
Nelle scorse settimane la mia provincia è stata macchiata da alcuni orribili crimini. Tre rapine, ai danni di anziani che risiedevano in zone isolate, con pesanti violenze sulle vittime, per bottini di poche centinaia di euro, hanno creato un clima di allarme e paura che solo grazie alle indagini e al lavoro dei carabinieri di Verona, Rovigo e Castelmassa, sono riusciti a placare, concludendosi con l’arresto di quattro rapinatori nordafricani dopo l’ennesimo colpo in provincia di Mantova.
La prima azione delle forze dell’ordine è stata quindi positiva, ha liberato le strade da quattro pericolosi e violenti delinquenti, rimettendoli nel posto che meritano. Ma il tutto non si ferma qui. Le regole della democrazia ora passeranno al sistema giudiziario, che dovrà valutare e condannare i delinquenti e spesso il cortocircuito pare verificarsi qui. La confusione regnante nelle nostre norme, con reati che prevedono pene arbitrarie, spesso con termini minimi che sembrano vanificare il lavoro delle forze di sicurezza.
Mi è capitato a più riprese di parlare con membri delle forze dell’ordine scoraggiati dalla giustizia: anni di lavoro vanificati dalla concessione di attenuanti, di pene accessorie, con delinquenti che quasi sembrano deridere poi lo stato; e come non ricordare le telefonate di quei predoni che parlavano del sistema giustizia italiano come di un eldorado che non faceva neanche il solletico?
Tutto questo non può che farci riflettere. Lungi da me un sistema della giustizia fai da te dove ognuno si sente in diritto di fare ciò che vuole, magari sparando all’impazzata dalla finestra di casa. Ma non possiamo tralasciare il fatto che i nostri carabinieri, la nostra polizia, tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine, rischiano ogni giorno la vita per la nostra sicurezza. E che il loro lavoro necessita di un maggiore rispetto. Allora, bene il tema della certezza della pena, ma che alla certezza si accompagni anche una chiarezza di fondo non attenuabile da una eccessiva arbitrarietà della giustizia.Scegliamo persone di spessore, non scalda-poltrone 2018-01-21T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it925326“Sul Consorzio per lo sviluppo del Polesine, il faticoso accordo raggiunto per salvare l’ente dalla liquidazione e per cercare di dare nuovo slancio a una struttura di coordinamento di un territorio amministrativamente molto frastagliato come la provincia di Rovigo, impone agli enti soci di effettuare scelte responsabili per una governance nuova in grado di interpretare al meglio i bisogni del territorio e di incanalarli verso un progetto di rilancio senza il quale il consorzio è, volente o nolente, destinato alla chiusura e allo smantellamento”. Inizia con queste parole l’accorato appello di Leonardo Raito, sindaco di Polesella e vicesegretario del Pd, ai colleghi amministratori che dovranno scegliere la nuova governance di Consvipo.
“L’auspicio che intendo condividere, è quello di indicare nel nuovo consiglio di amministrazione figure di riconosciuto spessore e rilievo, che sappiano abbinare competenze tecniche e capacità politiche. Pensare che i partiti polesani e i soci pensino solo ad occupare caselle per accontentare qualcuno o sfamare appetiti diversi, ha davvero poco senso: non solo sarebbe irrispettoso nei confronti del Consorzio ma anche nei confronti dei cittadini e dei soci”.
“La politica deve fare la sua parte – continua Raito – deve lavorare allo snellimento dei costi di gestione, prendere atto del desiderio di soci storici come la Provincia di uscire dalla compagine societaria, strutturare il Consvipo per dare risposte concrete al territorio. In tempi non sospetti suggerii, in realtà poco seguito dai colleghi sindaci, di riprendere in mano l’Intesa Programmatica d’Area, risalente agli anni novanta, e di ridisegnarla coinvolgendo i soggetti economici polesani, regionali e nazionali, cercando di delineare strategie concrete in grado di guardare a un nuovo sviluppo compatibile con le ambizioni e le possibilità del Polesine e, perché no, dell’area vasta. Pensavo poi alle prospettive di coordinamento in vista di fondi europei e magari di concordare con la Regione del Veneto un piano di investimento quinquennale per il territorio con un contributo, gestito dal rinnovato Consvipo, che potesse lavorare su alcune linee condivise”.
“Un territorio di cinquanta comuni potrebbe trovare in un consesso elettivo e partecipato una possibilità di coordinamento strategico per le sue prospettive future. Rinunciarci sarebbe stato delittuoso, ma non dimentichiamoci che sbagliare le scelte, in un momento così delicato, cambierebbe di poco la situazione: lo sforzo di concertazione, studio e approfondimento compiuto negli ultimi mesi avrebbe avuto soltanto lo scopo di procrastinare una situazione insostenibile. Non è di questo che il Consvipo e il Polesine hanno bisogno”.Le armi dei terroristi: la quotidianità e il convenzionale2017-08-17T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it898616Negli anni novanta, confrontandomi con un amico che sarebbe poi diventato ingegnere aeronautico, gli dissi che temevo che qualche gruppo terroristico potesse mascherare da aereo civile un cacciabombardiere per sganciare bombe su qualche città americana. L’ipotesi, che sembrava fantascientifica all’epoca, in realtà in parte fu applicata negli attentati tragici dell’11 settembre 2001, solo che i terroristi la fecero molto più facile di quanto pensavo: dirottarono gli aerei e li utilizzarono direttamente come bombe creando distruzione e scompiglio. In sostanza, usarono il quotidiano e il convenzionale per un attacco che aveva tutti i crismi e il potenziale distruttivo di una azione militare. Negli ultimi tempi, pare evidente come il terrorismo attacchi la normalità e la quotidianità con mezzi normali: un camion (ne gireranno milioni ogni giorno per le nostre strade) diventa uno strumento di morte se lanciato in una strada affollata, in una festa, a un mercato; un furgone pieno di esplosivo o carico di terroristi può seminare morte e paura in un centro città. Come prevenire questi assalti? La sfida non è facile, proprio perché inaspettata e difficilmente gestibile. Dopo l’11 settembre la risposta internazionale fu una stretta incredibile negli aeroporti. Uomini armati, metal detector, scanner che verificano valige, scarpe, abbigliamento, biglietti prenotati con carte di identità, lunghe file e controlli al check in. In questo modo si sono difesi gli aerei, e i potenziali obiettivi centrabili con gli stessi, ma non si è prevenuto il rischio di esposizione degli aeroporti, così come delle stazioni e dei luoghi affollati, obiettivi privilegiati in quanto tali, con alta concentrazione di gente, target che rende più facile e comoda la resa di un attentato. Diventa difficile però preservare tutte le città e tutti i luoghi affollati, salvo prevedere una assoluta militarizzazione degli spazi pubblici, con l’esercito nelle strade con licenza di colpire, il coprifuoco, un controllo capillare su chiunque metta piedi in uno spazio. La cosa sempre impossibile e non accettabile per una società che ha fatto della libertà di muoversi, spostarsi, di vivere non rintanati, alcune delle proprie prerogative. Eppure ci sono delle costanti che mi pare di ravvedere in tutti gli attentati degli ultimi anni sul suolo europeo. Quasi tutti gli attentatori sono schedati o attenzionati, spesso hanno passato del tempo nelle carceri, e poi ne sono usciti. A questo punto, la questione da barattare è questa: siamo disposti a rinunciare a una fetta delle nostre libertà per una maggiore sicurezza? Se si, non sarà possibile trascurare la necessità di una legislazione speciale transnazionale, rendere più duro il carcere e più dure le pene per i terroristi o i fiancheggiatori, affrontare con maggiore pragmatismo il tema delle migrazioni, anche interne. Non può che essere questa la logica di difesa in un mondo sempre più globale e interdipendente.I piccoli comuni ostaggio della riforma delle province2016-05-04T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it769134Premessa
Prendo spunto dalle difficoltà condivise con alcuni colleghi sindaci di piccoli comuni per spiegare, così come ho fatto al ministro, al premier e a vari organi governativi con una lettera ufficiale, le difficoltà che stanno vivendo gli enti locali a causa della confusione normativa legata alle possibilità di assunzione di personale e, in particolare, al vituperato ricollocamento del personale in sovrannumero delle ex province, che sarebbe “gestito” da un portale finalizzato all’incrocio di domanda e offerta che fino a oggi ha prodotto problemi e non soluzioni.
Tanta confusione guasta.
I diversi governi centrali stanno chiedendo ai comuni una serie di adempimenti sempre più complessi. Come non bastassero le funzioni già assegnate (si badi bene, sono le stesse per il comune di Roma e per quello di Pedesina, in provincia di Sondrio, 33 abitanti) ecco tutta una serie di novità che ogni legislatore introduce: in comune, oggi, si può divorziare, affidando a impiegati non sempre con una specifica formazione giuridica, atti che fino a poche settimane fa erano di competenza di un giudice…si fanno passaggi di proprietà, si stipulano contratti che facevano solo i notai. A fronte di questo, nessuno si chiede se il personale degli enti locali sia effettivamente preparato per questi adempimenti, così come nessuno a Roma, probabilmente, si è chiesto se le ragionerie comunali fossero preparate per la contabilità armonizzata e così i segretari comunali, e via dicendo. Il tutto viene reso più problematico se qualche comune, come il mio, ha la disgrazia di vedere qualche proprio collaboratore andare in pensione, specie se questo collaboratore è una figura preziosa e delicata come il responsabile dell’ufficio ragioneria, considerato che oggi, per ogni ente locale, la ragioneria è il cuore pulsante della struttura che si amministra. Dalla ragioneria dipende tutto: il versamento dell’iva, il pagamento dei fornitori, il pagamento dei dipendenti, il rispetto dei parametri imposti dal governo, del patto di stabilità e quanto di simile. Un ragioniere va sostituito da un ragioniere: possiamo mettere un geometra a lavorare con i bilanci o un laureto in lettere o un geologo? Bene, ogni buon amministratore si premurerebbe di sostituire un ragioniere capo che va in pensione con un nuovo ragioniere capo. Rispettando le leggi della sostituzione. Il problema è che le norme, oggi, non consentono di sostituirlo. Perché? E qui veniamo alle contraddizioni italiane.
Una selva di norme che ingabbia.
Il governo italiano ha pensato bene di riformare le province. Sulla scia di una battaglia mediatica che identificava in questo ente vecchio come l’unità d’Italia la fonte di tutti i mali, ecco che si decide dall’alto di ristrutturarlo: si rivedono le funzioni, si decide che il personale in sovrannumero va ricollocato. Ma come? Con il diabolico portale delle mobilità che devono incrociare le offerte dei comuni con le disponibilità delle province. Il resto non vale. I comuni segnalano sul portale gli spazi e le posizioni aperte e il portale ti dice chi, dalle province, viene a coprire il posto. Ma come? Prima si ragiona di una mobilità nazionale, ma poi si capisce che è difficile spostare da Brindisi (per dirne una a caso) a un comune veneto un dipendente di una provincia. Poi si parla di scala regionale. Poi di province confinanti: risultato, nessuna disponibilità per la copertura del posto. E allora? Resterebbe, secondo buon senso, la strada di una mobilità tradizionale. Ma qui arriva l’intoppo: le mobilità sono bloccate fino a quando non si sblocca la situazione del portale. Quando? Prima si parla di marzo, poi di giugno. Ora si vocifera settembre. Intanto il posto resta vacante e gli adempimenti seguono le scadenze. Ma c’è poco da fare. Soluzioni? Posso dare un incarico temporaneo ex 110 TUEL? No, leggi precedenti non me lo consentono. Posso sempre optare per una convenzione: peccato che nessun comune sia obbligato a farle e sia favorevole a farle. Provi a “elemosinare” una disponibilità ai comuni più grandi, al capoluogo, alla ex provincia: niente da fare, siamo in pochi e non possiamo donare sangue ai comuni piccoli. Si può provare con un comando, ma non si trova nessuno e poi c’è anche chi mette in dubbio che il comando sia spesa flessibile che vada parametrata al tetto delle spese flessibili del 2009. Si chiede allora una disponibilità extra orario a qualche ragioniere di altro comune, che già fatica a seguire i suoi adempimenti, e che viene, per farti una grazia, 9-10 ore la settimana a tempo perso a provare a fare il lavoro che prima faticava a fare un ragioniere a 36 ore. Un concorso? Hahaha. Non siamo ridicoli. Il concorso si può fare solo come estrema ratio dopo la mobilità delle province e la mobilità tra enti locali (quando si sblocca il portale e non si trova nessuno). E per di più il massimo di spesa ammissibile è il 25% della posizione cessata. Quindi, a fronte di 32.000 euro annui (ad esempio) puoi mettere a concorso un posto da 8.000 euro annui.
Morale della favola.
Ritengo che spesso le grandi menti romane non sappiano nemmeno come funziona uno di quei comuni a cui chiedono sforzi inenarrabili per garantire uno standard di servizi adeguato alle esigenze dell’utenza e rispettoso dei provvedimenti normativi del governo. Non rendersi conto che, in questo modo, si crea un cortocircuito pericoloso, è preoccupante perché si denota una ottusità spaventosa. La Madia dovrebbe prendere atto della tragica situazione che molti enti locali stanno vivendo. Faccia un decreto dove dà la possibilità ai comuni, rispettando il tetto delle spese di personale, di prendere dei sostituti a tempo determinato. Diversamente, istituisca un numero verde dove tutte le vittime di questo casino all’italiana possano riversare proteste, insulti e lamentele. Credo le basterebbe mezzora per intervenire d’urgenza. Pur di risparmiarsi il rischio di scoppiare.
Il referendum difficile2016-04-15T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it769092Ho sempre votato, lo confesso, anche se magari interessa a pochi. Ho sempre votato perché sono consapevole degli sforzi e dei sacrifici che hanno compiuto i nostri nonni per arrivare a quel sacrosanto diritto di mettere una croce su una scheda. Ho sempre votato perché credo che quando ci si può esprimere lo si debba fare, perché chi non partecipa perde anche il diritto, poi, di lamentarsi. Ho sempre votato, e ho anche sofferto, alle ultime elezioni comunali del 2014 in cui i cittadini mi hanno affidato il compito di guidarli per un quinquennio, il peso del superamento del quorum. Ma perché votiamo? Il tema dell’ultimo referendum sulle trivelle è un tema molto tecnico, specifico: di sicuro un tema difficile, non alla portata di ogni comune cittadino che non mastichi di ingegneria, ricerca, energia. Non si tratta di temi che tutti devono necessariamente sapere. Anzi. Cosa sappia di trivellazioni uno studente universitario di lettere, un pensionato abituato a fare i conti con pochi spiccioli, una casalinga, è davvero difficile ipotizzarlo. Che senso abbia esprimere un parere su una cosa difficile che non si è approfondita o non si conosce, pure. Come possa impattare la scelta che scaturirà domenica sulla vita dei cittadini mi risulta molto complesso definirlo. Mi chiedo quindi il senso che assume un referendum come quello del 17 aprile, dove forse le ragioni del no e del si sono espresse più da capipopolo urlanti convinti, come fossero pifferai magici, di portarsi dietro branchi di pecore votanti, che da una chiara e libera espressione di un bisogno reale, vero, espresso dai cittadini italiani. Forse servirebbero regole più chiare: ad esempio, perché non togliere il quorum per garantire un esercizio di democrazia diretta? Perché però non rendere più circoscritti gli spazi di consultazione, limitandoli ad argomenti più accessibili?
Io ritengo che la politica energetica vada delegata a chi ci governa. Non tutto si può decidere con un referendum. E anche chi interpreta il voto come un giudizio pro o contro il governo sbaglia clamorosamente. Non sarà un si domenica a mettere in difficoltà Renzi. Ma nemmeno l’astensione sarà da interpretare come una vittoria del governo.
Ecco perché da uomo che ha la fortuna di rivestire un ruolo pubblico, ho deciso di esprimere la mia posizione. Io domenica andrò a votare, ma probabilmente voterò scheda bianca. E lo farò anche per ribadire, a chi promuove questi quesiti, che sarebbe più opportuno sforzarsi per spingerci a decidere cose più vicine alla vita di tutti i giorni. Un ricordo di Fabrizio Forquet2016-04-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it769075Siamo tutti parte di una storia, una storia fatta di vita, di esperienze personali, di incontri, emozioni, sfide, obiettivi mancati o raggiunti. Inizio così, in modo quasi scontato e filosofico, il mio ricordo di Fabrizio Forquet, un grande giornalista e un grande uomo, strappato alla vita terrena da un male improvviso e incurabile quando, a 48 anni, aveva già scalato il gotha del giornalismo italiano. Inizio così, perché ho avuto il piacere e l’onore di conoscerlo affrontando una mia sfida personale, che si è incrociata con la sua straordinaria idea di realizzare, alla Luiss di Roma, in collaborazione con il “suo” giornale, un master universitario in “management politico”. In quel laboratorio di intelligenze, in cui ho avuto il piacere di conoscere Persone (la P maiuscola non è a caso) che credono che la Politica (anche qui la P non è a caso) sia un qualcosa di meraviglioso: immaginare scenari, mettersi al servizio degli altri, di un paese che si può amare, pur da sfumature diverse, ma che magari può consentire punti di incontro, strade comuni, condivisibili anche se si sostengono partiti o movimenti diversi, Fabrizio era una presenza discreta ma concreta, capace di esercitare un carisma forte, pur con il sorriso, di essere autorevole sempre. Bastava vederlo al tavolo, ascoltarlo intervistare qualche protagonista della nostra politica per capire quanto profonda fosse la sua capacità di analisi, quanto stimolante la sua curiosità. E quei politici, gente che siamo abituati a dipingere come inavvicinabile in televisione, diventavano più “umani”, meno macchine. Fabrizio Forquet ha diretto il suo master con attenzione e con la capacità di coinvolgere noi studenti come se fossimo diventati parte di una grande famiglia. Io, che ero stato battezzato ormai come “sindaco” ero ormai uno dei primi a fare domande ai nostri ospiti. Fabrizio cercava di mediare, a volte ci lanciava qualche occhiata furbesca come per dire: “diamine, ma la fai per metterlo in difficoltà o perché ci credi davvero?”. Non mancava mai di sottolineare un particolare con una battuta o un sorriso. Quando seppe che ero polesano, mi parlò della sua grande passione per il rugby: Rovigo, per questo, nell’immaginario anche di un grande giornalista è come una capitale. Forse non ce ne siamo accorti abbastanza ancora. Quando ho saputo dagli amici del master che Fabrizio era venuto a mancare, non nascondo di avere sofferto. Mi sono detto che ho avuto la fortuna di conoscere un uomo che resterà nella storia del giornalismo, ma non ho potuto che pensare al fatto che da quel giorno viviamo in un paese orfano. Orfano della sua voce, della sua acutezza, della sua intelligenza. Non è da tutti saper incidere sulle coscienze critiche delle giovani generazioni. Fabrizio ce l’ha fatta. Facendo fino in fondo il suo servizio di uomo che amava il suo paese e lottava per cambiarlo in meglio.L'università italiana è malata2016-02-20T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it769076L’Italia è il paese delle contraddizioni. Dalle piccole cose fino alle più grandi, non siamo stati e non siamo in grado di stabilire punti di contatto con una cultura fatta di serietà, di chiarezza, di obiettivi certi. Il mondo universitario italiano non si sottrae a questa regola non scritta e non riesce a garantire in modo soddisfacente l’unico obiettivo primario verso cui dovrebbe tendere, la qualità della formazione degli studenti. Sia questa umanistica, scientifica, di qualsivoglia genere. Troppe contraddizioni, infatti, minano alla base il sistema. In primis, se lo guardiamo dalla parte degli utenti (gli studenti) non possiamo nasconderci che molti atenei stanno prendendo per i fondelli i ragazzi, tradendo speranze e aspettative di giovani e famiglie. Quanti corsi di laurea inutili esistono? Decine. Quante fabbriche di titoli senza senso? Moltissime. Quante sedi universitarie anacronistiche? Troppe. Eppure, l’andazzo continua. Corsi di laurea sfornano formatori privi dell’abc del formatore, mezzi giuristi impiegabili chissà dove, mezzi economisti, mezzi ingegneri ecc. Il sistema del 3+2 (laurea di primo e di secondo livello) non ha prodotto, in chiave culturale, un salto di qualità: sarà vero che abbiamo più laureati, ma costruiti in che modo? Si prenda ad esempio il sistema dei crediti: alcuni atenei hanno fissato che un credito universitario equivalga allo studio di 100 pagine di libro. Bene, per venire a una disciplina che conosco bene, la storia contemporanea, un esame da 6 crediti significa lo studio di 600 pagine: nemmeno la lunghezza di un manuale! Come possiamo certificare la conoscenza di una disciplina se i ragazzi non hanno nemmeno la possibilità di completare un approccio manualistico? E la parte scientifica e di ricerca che magari veniva garantita dai corsi monografici dove la mettiamo? Cassata. Se pensiamo poi che in molte lauree triennali non si discutono nemmeno più le tesi di laurea, che dovrebbero essere la certificazione della piena maturità del laureato. Niente nemmeno qui. Non parliamo poi del reclutamento dei docenti, con sistemi che si sono seguiti nel tempo, senza uniformità e chiarezza. Già dai dottorati di ricerca, vediamo come i gruppi di baroni universitari (ce ne sono ancora molti, troppi; andrebbero estirpati!) lottizzino anche le selezioni di questo tipo. Se i dottorati non sono aperti alle persone competenti (molti, per carità, lo sono), come possiamo pensare di mettere in circolo le migliori competenze? Perché non si pensa di trasformare i dottorati in scuole di dottorato aperte, dove gli studenti che abbiano voglia di proseguire il proprio percorso formativo possano liberamente iscriversi, pagando le tasse, e che sia poi il passo successivo a scegliere i migliori da introdurre in pianta stabile nel mondo accademico o nel mondo della ricerca? Perché mascherare sotto forma di concorsi fasulli una cooptazione di fatto che tutti conoscono e di cui nessuno parla? Lo stesso avviene per il reclutamento dei docenti. Qui ogni governo ha voluto lasciare la sua impronta, spesso negativa. Mussi ha bloccato i concorsi che avevano il difetto di un localismo esasperato. La Gelmini ha proseguito nella via imperterrita del precariato attraverso i ricercatori a tempo determinato. Poi le abilitazioni scientifiche nazionali, dove, in alcune discipline, anziché la produzione scientifica e l’attività didattica consolidata viene presa in considerazione la partecipazione a comitati di rivista dove la cooptazione è altrettanto forte. E che dire di commissioni formate da ordinari messi in cattedra con concorsi ridicoli (non è un’affermazione forte, basta leggersi i verbali dei concorsi di qualche anno fa, dove passava gente senza titoli e che magari aveva pubblicato solo articoli su riviste di quarta mano) e che devono selezionare giovani ricercatori più titolati e con più pubblicazioni di loro? E del rifiuto di un approccio multidisciplinare alle aree di ricerca che è la chiave di volta per capire il futuro? Ce n’è abbastanza per rendersi conto che siamo di fronte a un sistema non inclusivo, ma chiuso e disponibile solo per alcune élite. Un sistema clientelare che se non viene riformato a partire dalle radici rischia di implodere trasformandosi in una carrozza trainata da un ciuco stanco e guidata da un autista ubriaco.Allarghiamo la convenzione di polizia locale per migliorare il servizio2015-07-29T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it766910Polesella (Ro) - Sono diventati 9 i comuni che fanno parte della convenzione della polizia locale del Medio Polesine: dal primo di luglio oltre ai comuni di Polesella, Bosaro, Canaro, Crespino, Frassinelle Polesine, Pontecchio, sono state aperte le porte ai comuni di Pincara, Villamarzana e Villanova Marchesana, con la prospettiva di allargamento aperta anche a Costa di Rovigo.
I nuovi comuni portano in dote due nuovi agenti di polizia locale, con il comando che oggi giunge a disporre di un organico di nove agenti complessivi, nuovi mezzi e nuove disponibilitLavori pubblici avanti tutta2015-06-08T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it766911Polesella (Ro) - Approvato il bilancio di previsione, il comune di Polesella è pronto a programmare, per l’anno in corso, le opere pubbliche. Leonardo Raito, sindaco del paese con delega ai lavori pubblici, fa il punto della situazione delle opere cantierate e di quelle a venire. “Innanzitutto è in fase di completamento l’ampliamento del cimitero. La ditta Albieri Srl di Ferrara ha lavorato bene, rispettando i tempi. - spiega - C’è stato qualche intoppo con la consegna, da parte dei fornitori, di alcuni materiali, ma ci siamo e consegneremo presto l’opera. Sul cimitero proseguiremo, quest’estate, con opere di manutenzione che riguarderanno la parte nuova e il portone d’ingresso. Stiamo studiando anche la sistemazione della parte vecchia”.
A breve l’amministrazione appalterà la sistemazione della palestra delle scuole medie, con sostituzione della copertura danneggiata dal fortunale di febbraio (leggi articolo) che verrà completamente rifatta in lamiera coibentata: “l’obiettivo è che sia pronta per settembre, - continua Raito - con la riapertura delle scuole, data l’importanza sia per finalità didattiche che per le associazioni sportive. Abbiamo approvato in bilancio una somma consistente, rispetto agli anni passati, per le manutenzioni degli alloggi comunali, anche se non sarà sufficiente per completare tutte le manutenzioni necessarie”.
Inoltre l’amministrazione ha avuto finanziamenti regionali per la messa a norma antisismica del palazzetto dello sport, un’opera da 230mila euro e per la realizzazione di un nuovo tratto di ciclabile nell’aera ex fossa, per oltre 100mila euro: “in questo caso, siamo partner di un progetto che ha per capofila Occhiobello e che prevede investimenti per 1milione e 800mila euro. Attendiamo inoltre gli spazi che ci accorderà lo stato sul patto di stabilità per programmare altri lavori. La cosa incredibile è che abbiamo quasi un milione di euro di avanzo di amministrazione. Se lo stato ci desse la possibilità di utilizzarli come spese di investimento, potremmo realizzare tutti gli interventi previsti senza ricorrere a indebitamento”.
Tra i lavori in preventivo c’è sicuramente la manutenzione dei manti stradali in centro e periferia, la realizzazione di tratti di guard rail sul Poazzo in via Raccano e sullo scolo Saline in via Tasso, l’eliminazione della rotatoria provvisoria in corso Gramsci. Infine l’amministrazione attende l’esito del ricorso al consiglio di stato sull’affidamento della gestione della pubblica illuminazione, “per cui proporremo un bando aperto per la gestione in global service, - fa sapere Raito - e gli esiti di bandi di finanziamento su cui abbiamo presentato progetti per la sistemazione dell’ex cinema Vittoria e per interventi di sicurezza delle scuole elementari e medie. Abbiamo lavorato molto anche in fase di progettazione e speriamo di poter concretizzare tanto impegno. Da ultimo, ma non per importanza, mercoledì saremo con i vertici del Consorzio di Bonifica per vedere se potremo intervenire su via Trieste, strada arginale sul Poazzo interessata da frane e che necessiterebbe di interventi di consolidamento sponde”. Ampliare la gestione comune per anticipare il futuro2013-08-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it704144Rovigo - Dal 1° gennaio 2013, il Comune di Pontecchio Polesine non fa più parte dell’unione dell’Eridano. Se l’ente sovracomunale di cui fanno parte i comuni di Bosaro, Crespino, Guarda Veneta e Polesella potrebbe sembrare depotenziato, una sferzata arriva dall’assessore provinciale Leonardo Raito che è anche consigliere comunale a Polesella.
Per Raito, infatti, l’unione dell’Eridano, l’unica esistente sul territorio provinciale, “ha saputo dare buona prova di sé”. C’è un ma. Secondo l’assessore di palazzo Celio, “occorre condividere di più, mettere insieme più servizi e saper anticipare con forza quelle che saranno le linee di sviluppo del futuro”.
In particolare, Raito si riferisce alla gestione dei fondi europei, il servizio tecnico ed i servizi sociali e culturali e li spiega uno per uno. “Se risulterà difficile, in futuro, prescindere dai fondi europei - afferma -, occorre cominciare a pensare a un servizio comune di progettazione e gestione degli stessi. Un servizio tecnico unificato poi, che sappia si essere rispettoso delle peculiarità dei diversi comuni, ma anche ragionare in una logica sinergica, potrebbe davvero essere un unicum di efficienza e di progettazione e manutentiva. Lo stesso si potrebbe dire per il rafforzamento dei servizi sociali e culturali, sulla programmazione dei percorsi turistici e di visitazione, sulla programmazione di iniziative che possono innalzare il livello dell’offerta del territorio”.
Quanto ai problemi di gestione dell’unione, Raito ha una proposta: “Credo possano essere risolte da accordi fatti da una buona politica. Se la durata del mandato del presidente dell’Unione è stata additata come un problema, basta un accordo tra amministratori che porti al rinnovo annuale della carica per lo stesso presidente. Credo poi che una gestione manageriale dell’Unione necessiti di una figura guida di un direttore che andrebbe pagato sulla base dei risultati ottenuti. In questo modo, non si creerebbe un posto in più che vada a sovraccaricare le spese di personale dell’ente, ma ci si avvarrebbe di una persona che guadagna su quanto riesce a portare in termini di risorse al territorio, con una strategia meritocratica e premiale”.
L’assessore conclude quindi con una osservazione: “L’Eridano, se funzionerà a pieno regime, sarà una vera e propria macchina da guerra, ricca di punti di forza. La storia, la tradizione, l'esperienza di collaborazione tra comuni”.
Una politica industriale miope2012-09-12T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it649723<br />
Le tristi vicende che in questi giorni fanno balzare agli onori della cronache le situazioni di grosse industrie quali Ilva e Alcoa pone sul tappeto una necessaria riflessione sulla qualità di una politica industriale, quella italiana, che negli ultimi trent’anni è stata a dir poco miope. La qualità della politica industriale si ottiene quando si riesce a costruire un sistema a elevata competitività che prevede, a fronte di investimenti da parte di imprenditori coraggiosi, che creano lavoro e benessere, l’importante ruolo di facilitatore che va rivestito dalla politica.
<p>Negli anni invece la politica, imprenditori e parti sociali hanno costruito un clima di competizione se non di aperto scontro sociale: lavoratori da una parte, industriali dall’altra e lo stato a fare da arbitro a una partita senza vincitori né vinti, con interventi tipici da cerchiobottismo all’italiana, che ha previsto, ad esempio, contributi statali a fondo perduto all’industria (privata), completamente slegati dagli obiettivi necessari a ottenere forme di sviluppo sostenibile e integrato con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione.
<p>In sostanza, lo stato, per salvaguardare l’occupazione, ha finanziato industrie morte e sepolte, con la logica tipica di un intervento statale improduttivo che ricorda il sistema delle partecipazioni statali (un carrozzone drammatico che ha prodotto effetti che stiamo pagando oggi).
<p>Poli industriali sono stati creati in barba a ogni regola di rispetto ambientale, favorendo, in nome dell’occupazione, condizioni di lavoro insalubre (si pensi al caso dell’amianto, dei fumi nocivi e delle tante malattie professionali). Oggi poi, che il sistema globale impone l’attenzione per gli investimenti non italiani, emergono tutte le penalità e le controversie storiche di un paese che risulta poco appetibile per l’attività imprenditoriale: una tassazione folle, energia a costi insostenibili, costi del lavoro elevatissimi, infrastrutture scadenti, un sistema giustizia lento e inefficace, una burocrazia penalizzante, la corruzione come piaga storica, vincoli e paletti di ogni genere, banche sempre meno propense a sostenere iniziative imprenditoriali. Il tutto poi poggiante su delle normative non al passo con i tempi.
<p> Tutto sommato, il quadro che ne emerge è poco ottimistico. Su questo poteva intervenire un governo tecnico e dovrà intervenire chi verrà dopo Monti. Un nuovo piano infrastrutturale, il supporto alla mobilità sostenibile, l’accessibilità a basso costo dell’energia, una nuova tassazione più ragionevole, l’abbattimento della burocrazia anche attraverso la riorganizzazione istituzionale, potrebbero essere ricette preziose per superare l’impasse.
<p>Contro la corruzione, ad ogni livello, dovrà essere attuata una battaglia senza sosta. Ma non potrà essere dimenticato il mercato del lavoro, perché credo che un paese che crede nelle liberalizzazioni, possa essere sempre meno avvezzo a finanziare quell’ampio sistema di ammortizzatori sociali che allargano il debito pubblico. Si dovrà pensare allora a meccanismi in grado di favorire la mobilità professionale, con possibilità di aggiornamento e formazione continue, capaci di superare il tradizionale assistenzialismo. Un cambiamento epocale attende un paese in sofferenza anche per colpa delle sue contraddizioni. Non rendersene conto vuol dire correre incontro a morte certa. Non è quello che possiamo volere.<br />
Il ministro Profumo e l'abbaglio dei fuori corso2012-07-14T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it647338<br />
Parafrasando un detto famoso, verrebbe voglia di affermare: “estate che vai, cavolata che senti”. La cosa drammatica è che, ancora una volta, la cavolata giunge da un membro onorabile di questo governo tecnico che non manca occasione di rimediare figuracce a ripetizione. Lavorassero e stessero zitti, forse, sarebbe meglio.
<p>Il ministro Profumo, forse vittima di un colpo di sole, ha identificato i nuovi “parassiti sociali”: gli studenti universitari fuori corso. Questi, a suo dire, avrebbero un costo sociale che il paese non potrebbe permettersi. Ci scusi, ministro, ma non abbiamo capito quale. Lei è come l’uomo che lancia il sasso e tira indietro la mano, identifica un male (sbagliando, secondo noi), e non trova rimedio.
Ci dispiace, perché dovrebbe essere un tecnico, che non sappia i motivi per cui i nostri giovani vanno fuori corso. Molti studiano e lavorano e non possono fare gli studenti a tempo pieno. I corsi di laurea sono poi strutturati in malo modo, gli esami molto ravvicinati, anche grazie all’infausto sistema del 3+2 che non ha favorito la qualità accademica.
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La realtà, caro ministro, è che non c’è via di mezzo tra due sistemi universitari dei quali lei dovrebbe indicare la strada favorita per il paese: un’università d’elité o una di massa. La prima si ottiene lavorando su criteri meritocratici, e di selezione di classe docente e di offerta e proposte per gli studenti: tasse più alte, borse di studio vere parametrite al merito, finanziamenti riservati ai centri di eccellenza con taglio di sedi secondarie e di sprechi. La seconda, che è quella attuale, non è altro (salvo poche eccezioni) che un’appendice dell’istruzione secondaria, meno selettiva, meno premiante, più uniforme. Qual è l’università che serve al paese? Possono coesistere i due sistemi? Questo, ministro, ci dovrebbe dire.
<p>Per tornare ai fuori corso, non capisco davvero i costi sociali. Pagano le tasse come tutti, fanno investimenti culturali su se stessi facendo crescere il livello culturale del paese, alimentano, quando fuori corso, un sistema fatto di affitti, subaffitti, acquisto libri, fotocopie, lavanderie, strutture ricettive, che tengono in pieni intere economie cittadine. Dove sono i costi sociali? Non è forse che hanno causato più danni i megaconcorsi nazionali degli anni 70 e 80 in cui è stata immessa in cattedra una miriade di mediocri che hanno abbassato il livello accademico? Non è forse un costo sociale il sistema dei concorsi truccati con cui continua ad essere selezionato il personale?
<p>Non sono costi sociali i milioni di euro buttati in ricerche inutili, finanziate solo perché parte di un sistema clientelare-baronale? Ce lo dica, ministro. Non è un costo sociale non aver saputo trovare un sistema che sgravi di tasse le imprese che investono in ricerca e innovazione, magari collegate con le più avanzate strutture universitarie?
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Inutile che guardi ai fuori corso, ministro. Saremo stati irriverenti. Ma i costi sociali, mi scusi, sono altri. <br />
Squinzi ha capito che i grossi problemi vengono dal sistema bancario. 2012-05-25T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it640453<br />
Il discorso d’esordio di Giorgio Squinzi, neopresidente nazionale di Confindustria, pare aver generato molta soddisfazione dalla platea degli imprenditori italiani. Squinzi, cui autorevoli commentatori attribuiscono uno stile nuovo, sobrio, lontano dalla leadership carismatica di un Montezemolo o di una Marcegaglia, ha lanciato un vero atto d’accusa contro il sistema Italia, incapace di creare le condizioni per favorire lo sviluppo e la redditività dell’impresa. Tra le critiche pesanti al paese, il balzello fiscale inaccettabile per le imprese, una burocrazia latente e fastidiosa, il tragico dazio della corruzione, che va combattuta in profondità.
<p>Il presidente, non ha mancato di rimarcare le critiche verso il DDL lavoro, poco concorde alle indicazioni degli industriali, ma risultato probabile di un pateracchio al ribasso, ha definito inaccettabile la tassazione reale sull’impresa, il 68,5% contro il 52,8 della Svezia il 46,7 della Germania e il 37,3 del Regno Unito, ha poi rimarcato lo scandalo dei pagamenti alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni, che si combatte solo alleggerendo il patto di stabilità o varando provvedimenti che permettano di sfruttare i sempre più larghi avanzi di amministrazione.
<p> Si tratta di provvedimenti che un governo tecnico potrebbe/dovrebbe fare, ma non pare ne abbia gran voglia. Ma c’è un passaggio, forse volutamente ignorato dai grandi organi di stampa, che mi sembra il più significativo. Squinzi ha attaccato le banche, che non hanno utilizzato i prestiti concessi dalla Bce per rilanciare l’economia supportando l’impresa, e limitandosi invece a sistemare i propri conti con l’acquisizione di titoli di stato più vantaggiosi dal punto di vista del tasso di interesse.
<p>Quello dell’accesso al credito, come ho avuto modo di dire a più riprese, è il vero nocciolo del problema. L’impresa ha bisogno di ossigeno e solo le banche possono garantirlo, se intendono prestare fede a una funzione etica e di supporto allo sviluppo. Diversamente, a fronte di banche ingrassate, si apriranno tanti nuovi cimiteri. Sulle croci però non saranno incisi nomi di persone fisiche, ma di una miriade di spa, srl e snc.
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Leonardo Raito
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Assessore Provinciale<br />
Tetto ai due mandati per rinnovare la democrazia2012-04-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it626967<br />
Al Presidente della Repubblica,
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On. Pres. Giorgio Napolitano,
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Al Presidente del Senato,
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Sen. Pres. Vito Schifani
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Al Presidente della Camera dei Deputati,
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On. Pres. Gianfranco Fini,
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Illustrissimi Presidenti,
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in questo momento in cui la politica tutta è nell’occhio del ciclone per le inchieste giudiziarie, per assurde vicende legate a scandalose gestioni personalistiche e privatistiche di fondi pubblici, la crisi economica accentua il distacco tra una classe dirigente che sembra vivere nel paese dei balocchi e il mondo reale. Il crollo della credibilità del sistema è spesso frutto di scelte scriteriate, del sopravvivere di privilegi di stampo feudale, che si traducono in costi non più sostenibili da un paese moderno. Gli italiani che faticano ad arrivare alla fine del mese col proprio lavoro, gli imprenditori oppressi da una burocrazia paralizzante, i pensionati che vedono calare il potere d’acquisto dei propri redditi, i giovani che chiedono chiarezza sul futuro, si aspettano uno slancio di correttezza e generosità da parte di una classe dirigente che dovrebbe essere di esempio per i cittadini, esempio di moralità, di rettitudine, di coscienza del bene comune.<br />
Eppure i segnali tanto auspicati non arrivano. Le indennità dei parlamentari, i privilegi pesanti che giustificano l’uso di termini spregiativi come “casta”, l’incapacità di attuare riforme adeguate ai tempi, un sistema di tassazione che rischia di trasformarsi da equo a vessatorio, sta favorendo il distacco e il disinteresse per la politica, che rischiano di trasformarsi in avversione e odio. Di questo clima, rischia di farne le spese il paese tutto. È sempre più ricorrente, nei pensieri della gente che da piccoli amministratori incontriamo quotidianamente, l’idea che occorra fare enormi passi avanti nella trasformazione del sistema rappresentativo della nostra Repubblica. <br />
C’è bisogno, illustrissimi Presidenti, di un rinnovamento di metodi e di interpreti. Troppo spesso infatti, i processi decisionali vengono presi da chi ha vissuto in modo pressante epoche e metodi superati, impregnando la propria cultura politica nei culti e nei contrasti ideologici del passato.<br />
È per questo, Illustrissimi Presidenti, che da più parti si chiede una possibilità di cambiare le regole del gioco. Serve una legge elettorale nuova, che mi aspettavo dal governo tecnico come priorità, ma che non vedo all’orizzonte, che possa restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti, magari su base territoriale grazie ai preziosi e rimpianti collegi uninominali. Ma insieme a questa, occorre l’introduzione di un principio semplice ma fondamentale: il tetto assoluto di due mandati per i parlamentari, l’unico che potrebbe permettere una responsabile selezione di una nuova classe dirigente, unita a quel ricambio indispensabile per adattare ai tempi che cambiano, gli uomini e le donne che possono governarli. <br />
Chi ha la responsabilità di amministrare, lo deve fare con l’animo predisposto al senso del dovere e all’amore per la grande fortuna di servire la propria comunità e il proprio territorio. <br />
Certo di poter incontrare la Vostra preziosa attenzione, disponibile a un sereno confronto per poter apportare un contributo al recupero di credibilità del sistema, colgo l’occasione per porgerVi i più deferenti e cordiali saluti.
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Prof. Leonardo Raito<br />
Provincia di Rovigo<br />
Assessore Provinciale<br />
Alla Pubblica Istruzione, <br />
Università, Sport, <br />
Politiche Giovanili, <br />
Immigrazione. <br />
Le banche aiutino le imprese ad uscire dalla crisi2012-03-29T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it626404Negli ultimi tempi ho avuto il piacere di incontrare molti imprenditori e manager per discutere dei punti di forza e dei problemi dell’economia locale. Scopro, giorno dopo giorno, imprese che investono in tecnologia, innovazione e ricerca, che cercano di stare al passo con i tempi, che inventano nuovi prodotti e servizi, che vogliono investire sui giovani talenti, selezionandoli in modo meritocratico. Esistono aziende che vanno a caccia di nuovi mercati, che reggono il passo della globalizzazione e non tremano di fronte alla concorrenza internazionale, ma hanno bisogno di supporto, di istituzioni che li aiutano a superare problemi e ostacoli, che sono pronte a snellire la burocrazia e a facilitare gli strumenti che favoriscono lo sviluppo e il potenziamento del sistema imprese. Uno dei problemi che maggiormente ritorna nelle discussioni è la problematicità dei rapporti con le banche, istituzioni che non possono trascurare il peso del loro ruolo fondamentale per il supporto e il rilancio dell’economia, che devono vincere resistenze e paure per poter adattare i propri strumenti e i propri prodotti al servizio dell’impresa come macchina creatrice di benessere. L’accesso al credito oggi, lo lamentano anche autorevoli studi e documenti delle associazioni di categoria, è molto complesso e si traduce spesso in una fonte di sofferenza o morte per le aziende. Quando ho lavorato alla direzione di una compagnia internazionale di assicurazioni, ho coordinato un gruppo di lavoro che si occupava di studiare i prodotti assicurativi alla luce di Basilea2. Ne deducemmo che gli Istituti di Credito potevano trarre, anche dalla qualità delle gestione del risk management, degli strumenti utili per favorire l’accesso al credito. La questione vera è che la standardizzazione del servizio bancario, non può essere utile in questo contesto in cui risulta fondamentale uscire dalla crisi. Occorre personalizzare il supporto sul caso specifico. Non tutte le aziende sono uguali, per storia, dinamicità, e prospettive. Allentare laccioli e vincoli fissati per venire incontro alle esigenze delle imprese contribuirà, inevitabilmente, a fornire un servizio insostituibile all’economia del territorio, per cui risulta fondamentale una condivisione dei rischi. Capisco che per le banche, lo era anche per noi assicuratori, sarebbe meraviglioso poter vantare tra i propri clienti solo aziende sicure, con uno storico immacolato, ricche di garanzie. Ma in questo momento sono mosche bianche. Imprese e istituti di credito allora, rafforzate da un senso di responsabilità sociale indispensabile in questi momenti, si aiutino vicendevolmente a trovare quelle formule di cooperazione fondamentali per crescere. Ne deriveranno benessere e prosperità.
Leonardo Raito
Ristrutturazione della spesa pubblica e incentivi per la crescita2012-01-02T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it622747Dopo l’approvazione della manovra lacrime e sangue, l’esecutivo del bocconiano Monti si trova a definire delle nuove linee per lo sviluppo e la crescita del paese. Nel mentre, si crea un movimento d’opinione, guidato dal sindaco di Torino Piero Fassino, che critica fortemente il patto di stabilità, considerandolo una legge iniqua che non permette la programmazione e l’effettuazione di interventi fondamentali per i cittadini. In questo gli do perfettamente ragione. Non manca inoltre una richiesta di introduzione di criteri meritocratici, per la costruzione di una società competitiva senza sotterfugi e condizionamenti.
Ecco perché, a mio parere, l’azione tecnica del governo Monti dovrebbe essere votata a due compiti fondamentali, che possono anche essere collegati: la ristrutturazione della spesa pubblica e l’introduzione di incentivi alla crescita. La ristrutturazione della spesa pubblica è fondamentale per creare un paese più snello, meno burocratizzato e per contenere gli sprechi. In questo contesto, vanno individuate con precisione le centrali di questi sprechi. Dove stanno? Da li si cominci a tagliare. Bene un tetto ai ministeri, la riduzione del numero dei parlamentari e delle relative indennità, riduzioni e tagli agli inutili consigli di amministrazione di aziende di stato e partecipate.
L’eliminazione del patto di stabilità, almeno per la programmazione di opere fondamentali (scuole, strade e infrastrutture primarie, per esempio), dovrebbe permettere il liberarsi di ossigeno per il sistema economico e delle imprese locali. Cercherei inoltre una norma (detassazione, incentivi?) in grado di favorire gli investimenti in ricerca, che possano accompagnare le imprese nelle sfide tecnologiche al rialzo imposte dalla globalizzazione. In termini di istruzione e università, si potrebbe riformare il sistema delle borse di studio e dei corsi di dottorato di ricerca. Le borse di studio andrebbero legate esclusivamente alla meritocrazia, per superare l’inutile frammentazione e riduzione odierna. Meglio meno borse di studio, e di importi più ricchi, che permettano davvero ai bravi di scegliere le proprie destinazioni. I dottorati poi dovrebbero essere trasformati in scuole di dottorato. Perché impedire l’accesso a ottimi studenti con concorsi e sbarramenti per lo più taroccati?
Sul mercato del lavoro si sta scatenando una autentica bagarre. Qui il punto fermo e fondamentale mi pare debba essere, più della sbandierata flessibilità, una riduzione del costo del lavoro. È vero che in Italia c’è un’evasione da fare paura, ma dobbiamo anche saperne cogliere le cause. Tra queste, è indubbio che le tasse sono troppo alte. La discrepanza tra reddito lordo e netto è altissima, segno che i datori di lavoro pagano cifre insostenibili. Difficile incentivare alle assunzioni se non si creano le condizioni per ridurre i costi. L’introduzione dei contratti di apprendistato mi sembra utile, specie per i giovani. Anche il popolo delle partite iva lascia allo stato quasi il cinquanta per cento dei guadagni. Troppo. Significa che il sistema ha una tassazione iniqua, che probabilmente è stata costruita per mantenere un sistema ad alto tenore, ormai insostenibile.
Infine se il governo arrivasse a consentire ai cittadini tutta una serie di detrazioni integrali dalle dichiarazioni dei redditi, probabilmente si favorirebbe una cultura della legalità a oggi ancora ignota. Non si tratta di operazioni semplici ma ormai il dado è tratto, tornare indietro non si può e solo con delle ricette convincenti sarà possibile invertire la rotta che ci sta portando verso il baratro.
POLITICA ESTERA DA COMICHE E RISATINA SARCASTICA2011-10-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it617584Il presidente francese Sarkozy ride in conferenza stampa di fronte alla domanda di una giornalista che gli chiedeva se credesse all’effettiva possibilità dell’Italia di rimediare allo status deficitario delle proprie finanze. È il segnale inequivocabile di una perdita di credibilità internazionale dettata da una politica estera quanto meno opportunistica e inconcludente, attuata da un premier incompetente e avallata da un ministro, Frattini, sempre inappuntabile nell’abbigliamento e nella piega dei capelli, ma con un sorriso di plastica che trascende uno spessore che definire inconsistente è eufemistico. Berlusconi ha scelto in politica estera la linea della “pacca sulla spalla”: una linea inutile, da bar dello sport, che forse funziona per dirimere questioni alla bocciofila, ma che non serve in politica internazionale. In tre anni ha combinato pasticci su pasticci. Dall’Obama abbronzato alle corna nelle foto ufficiali, dagli attacchi ai giudici all’amicizia, poi rinnegata, con Gheddafi, dalle relazioni equivoche con Putin alle serate brave, il premier non ha saputo mantenere un profilo riconosciuto e una linea chiara né in termini di senso di appartenenza, né per capacità di mediazione. Il caso libico è emblematico: abbiamo permesso a un dittatore di piantare una tenda in centro a Roma, di trascinare al Corano novelle ancelle vergini, facendoci deridere da una foto appuntata sulla divisa del rais e poi abbiamo avvallato i bombardamenti del vecchio alleato, commentando in modo vergognoso la giustizia sommaria sul colonnello. Con Sarkozy sembrava un amore in grado di dirimere ogni questione a tarallucci e vino, e invece ai rapporti bilaterali incrinati dai casi “centrali nucleari”, dalla querelle “Draghi-Bini Smaghi”, da una serie di rovesci di posizioni preoccupanti, è seguita una grave sfiducia da parte dell’ex partner nell’azione di governo. Per rendersi conto di come il premier sia caduto in basso nelle considerazioni internazionali bastano la gestione del G8 alla Maddalena, i file di Wikileaks che evidenziano la totale disaffezione dei principali partner occidentali nei confronti del cavaliere, una pessima gestione dell’emergenza umanitaria internazionale legata ai profughi, un uso disinvolto dei decreti legge che superano un parlamentarismo magari ingessato ma pur sempre costituzionale, senza contare la perdita di credibilità dettata dal caso Ruby, dalle notti brave, dall’inconsistenza di una maggioranza legata ai posti degli ir-responsabili. Siamo di fronte a una debacle autentica, una catastrofe senza fine che sta trascinando il nostro paese nel baratro. Berlusconi deve andare via, abbandonare un posto di comando che non gli spetta più. C’è una nave che affonda. Non vorrei che, in un ultimo slancio di generosità, Berlusconi abbia riservato una scialuppa. Soltanto per lui.Governo disatro: urge l'alternativa2011-09-02T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it608054Stiamo assistendo attoniti alla farsesca preparazione di una delle manovre finanziarie più importanti della storia nazionale e dovremmo essere affranti dal balletto delle proposte del governo, sinonimo inequivocabile di una mancanza di chiarezza di idee spaventose, per un paese che molti danno a un passo dal baratro. Il fatto è che qui non si capisce più che maggioranza sta governando il paese. Frammentata dalle mille fratture interne, da uno spirito correntista che sta minando sia il PDL che la Lega Nord, il governo non sa più che pesci pigliare. Licenza, poco prima di ferragosto, una manovra lacrime e sangue che colpisce i più deboli e non tocca i privilegi della casta. Si rende poi conto della follia e fa retromarcia su mille questioni. Oggi si passa, giorno dopo giorno all’analisi delle smentite. Prima le pensioni, poi l’abolizione dei riscatti della laurea e della leva, poi la lotta all’evasione, la riforma costituzionale, abolizioni di qui, si alza l’iva, no non la si alza più. Questo governo paralizzato, sta rovinando il paese. Non risolve le contraddizioni strutturali italiane, non tocca i privilegi, non riduce il numero dei parlamentari ma tende a colpire i livelli più bassi di rappresentanza. Non si capisce più, davvero, dove vogliano andare a parare. Se il loro scopo è quello di preservare un premier ormai alla frutta dai propri processi, gli italiani non possono accettarlo. In mezzo, ecco anche l’ottusità degli altri gruppi parlamentari. Di Pietro cavalca l’onda di un’opinione pubblica assopita e che difficilmente tornerà agli anni di tangentopoli che conosce bene. Non può pensare di rappresentare l’alternativa credibile di governo se fa di tutto per tagliarsi i ponti con gli altri partiti di centrosinistra. Apprezzo però la battaglia sul ritorno alle preferenze. Chissà come andrà a finire. Sul mio partito, il PD, avrei tanto da dire, ma lo farò nelle sedi opportune. Non credo però che posizioni ondivaghe ci mettano al riparo dalle critiche di una linea poco chiara, quella che purtroppo nemmeno Bersani, che al governo ha fatto bene, può garantire. Questo era il momento di una chiara azione di forza per una spallata decisiva, quella che serviva per mandare a casa un governicchio disastroso. Se il centrosinistra non lo fa, è perché non si sente adeguato per governare. Basta che lo dicano, ci sono migliaia di nuove leve pronte a soppiantare una dirigenza stanca e logora.Il Pd faccia dimettere la Garavaglia per fare spazio a un polesano2011-08-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it608053Nuove iniziative per la difesa dell'indentità del Polesine. La prima è la proposta di Leonardo Raito, assessore della Provincia di Rovigo, che invita il Partito democratico ad una scelta etica e morale dopo la scelta scellerata della tornata politica del 2008. Restituire un seggio in Senato a un parlamentare polesano: Sandro Gino Spinello al posto di Maria Pia Garavaglia.
La seconda è la costituzione del comitato Restiamo polesani da parte di un gruppo di rappresentanti di spicco della cultura locale
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Rovigo - "Il Pd faccia dimettere la senatrice Maria Pia Garavaglia per difendere l'identità polesana a palazzo Madama". E' questa l'originale proposta dell'assessore provinciale Leonardo Raito contro l'abolizione della Provincia di Rovigo, di cui gioverebbe Gino Sandro Spinello.
Nel frattempo si è costituito il comitato "Restiamo polesani" a cui hanno aderito esponenti di spicco della cultura locale.
"In questi giorni - spiega l'assessore - i partiti nazionali non si sono sperticati nella difesa delle peculiarità del territorio, e nemmeno i parlamentari veneti (neanche quel Donadi dell’Idv che deve a Rovigo il suo primo mandato) sono stati fautori attenti della salvaguardia del Polesine come entità territoriale con la propria storia e la propria cultura".
Secondo Raito questo è dipeso da quelle che definisce "scelte scellerate" del partito perché nella tornata delle politiche del 2008, sulle liste bloccate, non ha riservato alcun posto ai candidati polesani. "È giunto quindi il momento di fare una proposta seria - sottolinea -, quella di restituire da subito un seggio a un parlamentare polesano del Pd, per sostenere una battaglia per la sopravvivenza della Provincia. La via è piuttosto agevole, ed implica una scelta fatta di etica e di morale, che liberi tutti i nominati del partito da qualsiasi attaccamento ai privilegi di casta".
Maria Pia Garavaglia è stata eletta in Veneto nel 2008, nelle liste del Partito democratico dopo aver optato per la circoscrizione veneta a scapito di quella laziale (dove ha liberato un seggio per un altro democratico). È quindi alla sua quinta legislatura, dopo quattro mandati da deputato della Dc sommati a diversi incarichi come sottosegretario. Non ha pertanto problemi di vitalizio, di esperienza da completare, di percorsi da portare avanti, di battaglie generazionali.
"Con una presa di posizione forte, il Pd nazionale dovrebbe imporle le dimissioni immediate - aggiunge Raito -. Così facendo, rientrerebbe in Senato il primo dei non eletti, Gino Sandro Spinello, polesano doc, che potrebbe in questo modo sostenere, nei due anni che separano dalla fine della legislatura, tutte le battaglie possibili per la salvaguardia del Polesine". Da vedere se il segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani avrà il coraggio di imporre una tale soluzione.
Portavoce del comitato Restiamo polesani è l'ex senatore Elios Andreini, che in conferenza stampa ha chiarito: "Non bisogna pensare con chi andare, non vogliamo essere colonia di nessuno". Oltre a lui vi hanno aderito Pier Luigi Bagatin, Giovanni Dainese, Paola Cavallari, Rosanna Cavazzini, Lino Pietro Callegarin, Adriano Romagnolo, Beatrice Stevanin, Vani Franceschi, Sergio Garbato, Claudio Garbato, Gianni Marchesini, Luigi Contegiacomo, Patrizia Bonello, Gino Furini, Lino Tosini, Tommaso Zaghini, Angioletta Masiero.