Openpolis - LE ULTIME DICHIARAZIONI DI Pietro ICHINOhttps://www.openpolis.it/2016-04-30T00:00:00ZLiberalizzare il sistema di protezione dei diritti d'autore 2016-04-30T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it769118<br />
La gestione della SIAE, in regime di Monopolio, fa registrare ipertrofia della struttura, gravi inefficienze ed enormi sprechi, che potrebbero essere superati col consentire che ciascun autore scelga liberamente da chi far tutelare i propri diritti.
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Interrogazione presentata il 29 aprile 2016, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo.
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Premesso che:<br />
la Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE), veniva fondata il 23 aprile 1882 da un’assemblea composta da scrittori, musicisti, commediografi ed editori dell’epoca: del primo Consiglio Direttivo della Società Italiana degli Autori facevano parte nomi storici quali Giuseppe Verdi, Giosuè Carducci, Francesco De Sanctis ed Edmondo De Amicis;
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regolamentata dalla legge n. 633/1941 sul diritto d’autore che, al titolo quinto, attribuisce alla SIAE in forma esclusiva, l’attività di intermediario, comunque attuata, sotto ogni forma diretta e indiretta di intervento, mediazione, mandato, rappresentanza ed anche cessione per l’esercizio dei diritti di rappresentazione, di esecuzione, di recitazione, di radiodiffusione e di riproduzione meccanica e cinematografica di opere tutelate, la SIAE vanta un regime di monopolio che di fatto dura da oltre 130 anni nel nostro Paese e che poteva essere interrotto aprendo le porte alla liberalizzazione della gestione dei diritti d’autore e delle licenze a esse connesse recependo la Direttiva 2014/26/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno;
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in particolare, l’art. 5 paragrafo 2 della Direttiva 2014/26/UE recita: «I titolari dei diritti hanno il diritto di autorizzare un organismo di gestione collettiva di loro scelta a gestire i diritti, le categorie di diritti o i tipi di opere e altri materiali protetti di loro scelta, per i territori di loro scelta, indipendentemente dallo Stato membro di nazionalità, di residenza o di stabilimento dell’organismo di gestione collettiva o del titolare dei diritti. A meno che non abbia ragioni oggettivamente giustificate per rifiutare la gestione, l’organismo di gestione collettiva è obbligato a gestire tali diritti, categorie di diritti o tipi di opere e altri materiali protetti, purché la gestione degli stessi rientri nel suo ambito di attività.»;
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il 30 marzo 2016, nel corso di un’audizione presso le commissioni riunite VII e XIV della Camera, il Ministro interrogato ha dichiarato che nella direttiva non è presente alcuna indicazione su come i singoli Stati devono organizzarsi, ma vengono riportati semplicemente alcuni principi che devono essere rispettati. Perciò, la questione potrebbe trovare soluzione attuando una profonda riforma della SIAE e non procedendo verso la liberalizzazione, bloccando di conseguenza la possibilità a più società di competere sullo stesso terreno dei diritti d’autore che decideranno di scegliere i singoli autori, nonostante già dalla precedente legislatura si era attestata la propensione verso la completa liberalizzazione del sistema, sull’onda degli scandali che hanno interessato la SIAE;
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le critiche contro la SIAE vanno dalla modalità di gestione dei diritti d’autore, ai bilanci in rosso, all’esercizio del monopolio in Italia. La ripartizione dei diritti d’autore presenta evidenti squilibri poiché avviene attraverso logiche e dinamiche oscure, imperscrutabili e inique: i criteri di ripartizione del diritto d’autore maturato, si basano infatti su un sistema ‘a campione’, aleatorio e facilmente manipolabile, dimostrabile dai dati diffusi secondo i quali il 65% degli artisti registrati alla Siae, alla fine dell’anno, percepisce in ripartizione dei diritti meno di quanto versa all’ente per la quota di iscrizione, a vantaggio degli artisti e degli autori legati a major di rilievo;
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da un articolo de Il Fatto Quotidiano del 7 aprile 2016 si trae il dato secondo cui la SIAE verserebbe in profondo dissesto economico, per oltre 900 milioni di euro. Tra i motivi del dissesto, come denunciava già nel 2012 Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, il carattere eccessivamente “a conduzione familiare”: ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato vantano legami di famiglia o di conoscenza con i vertici; i benefit connessi alle cariche; 189 cause di lavoro in 5 anni che hanno colpito l’ente; la presenza di circa 605 agenzie sul territorio, che incassano poco e hanno dimensioni risibili; il problema del pagamento degli assegni di quiescenza che ha costretto l’ente ad attingere dalle proprie casse; la decisione di immettere parte del proprio patrimonio immobiliare in un fondo, in cambio della metà del valore per l’ammontare di 256 milioni di euro, come scriveva Libero nel gennaio 2012; inoltre l’Aduc, associazione di tutela dei consumatori, ricorda la vicenda dell’investimento della SIAE nei titoli della Lehman Brothers e di oltre 40 milioni di euro andati in fumo, onde per un pari importo le royalties incassate per conto dei titolari dei diritti sono andate perdute;
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l’Istituto Bruno Leoni ha elaborato uno studio dal quale emerge che i costi e le inefficienze generate dal monopolio della SIAE nel nostro Paese generano uno spreco di oltre 13 milioni di euro l’anno, che potrebbe essere agevolmente eliminato o, almeno, ridotto, liberalizzando il mercato;
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per risanare i conti e procedere all’elaborazione di un nuovo Statuto, la SIAE è stata sottoposta a commissariamento nel 2011 sotto la guida di Gian Luigi Rondi, al quale è seguito il presidente e cantautore Gino Paoli che, dopo essere stato accusato di aver nascosto al Fisco 800 mila euro nella dichiarazione dei redditi del 2009 relativa al 2008, si è dimesso nel febbraio 2015, cedendo la presidenza a Filippo Sugar, figlio della cantante Caterina Caselli e del discografico Piero Sugar, egli stesso editore dell’omonima casa discografica “Sugar”;
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da un articolo de Il Fatto Quotidiano dell’8 febbraio 2016 emerge che in sede di audizione alla Camera dei Deputati, il 3 febbraio 2016 Filippo Sugar ha difeso la posizione monopolista della società nel settore dei diritti di autore, presumibilmente a vantaggio degli interessi discografici di famiglia, e in contrasto con le disposizioni della direttiva 2014/26/UE, anche attraverso argomentazioni non veritiere;
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difendere il monopolio SIAE significa non garantire la libertà di scegliere la società di tutela alternative alla SIAE : un caso eclatante è rappresentato dalla lettera di manleva SIAE, che obbliga l’autore non iscritto alla SIAE, o i cui brani non sono depositati e perciò non soggetti a tutela della società, a presentare l’autocertificazione presso l’ufficio territoriale di riferimento in cui attesta che il repertorio musicale non è depositato negli archivi SIAE, pagando alla società un corrispettivo per ogni esibizione dal vivo;
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decidere di intraprendere un percorso che possa essere una via di mezzo tra il mantenere il monopolio SIAE e riconoscere piattaforme di gestione diverse dalla SIAE non è una soluzione, e gli autori legati alle netlabel, produzioni indipendenti o autoprodotte, non ne trarrebbero alcun riconoscimento professionale e vantaggi; in questo modo, andrebbero in perdita le produzioni creative, artistiche e culturali cosiddette «dal basso», che al contrario andrebbero supportate e incentivate;
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con una lettera aperta pubblicata su diversi organi di stampa, oltre 300 tra aziende, imprenditori, startupper e investitori italiani nel campo del digitale, esortano il governo di liberalizzare il settore dei diritti musicali;
il mancato recepimento della direttiva in questione determina, oltre al rischio di sottoporre l’Italia all’ennesima procedura di infrazione, una situazione di evidente incertezza che potrebbe comportare uno stallo del mercato dei diritti d’autore, con conseguenti danni soprattutto per i titolari dei diritti;
pertanto, sono necessarie ed urgenti delle iniziative da parte del Governo per dare idoneamente attuazione alla direttiva;
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si chiede di sapere:
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quali siano gli orientamenti del Ministro sui fatti esposti in premessa;
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quali siano i motivi per i quali il Ministro stesso non ha ancora assunto le iniziative di competenza per il recepimento della direttiva 2014/26/UE e se e quali iniziative intenda adottare per escludere l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea;
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se non ritenga opportuno istituire un tavolo tecnico per dare attuazione in modo opportuno e adeguato alle disposizioni della direttiva 2014/26/UE, in particolare, privando la SIAE del monopolio affinché nel settore si operi concretamente in regime di concorrenza;
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se non intenda istituire una commissione ministeriale volta a monitorare lo stato della SIAE al fine di verificarne la gestione, le attività, nonché il funzionamento degli organi sociali, accertando, per quanto di competenza, eventuali responsabilità nel settore.<br />
IL COMUN DENOMINATORE LIBERAL-DEMOCRATICO CHE MANCA ALLA DESTRA E ALLA SINISTRA2014-04-12T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it718205<br />
L’INCONCLUDENZA DELLA POLITICA ITALIANA, LE SUE RADICI E IL RISCHIO DEL SUO PERDURARE NONOSTANTE LA CRISI
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<b>1. Il costo dell’inconcludenza della politica italiana</b>… - L’emergenza più grave che il nostro Paese sta attraversando, per certi aspetti più grave ancora di quella economica, è la frattura che è venuta enormemente allargandosi negli ultimi due decenni tra i cittadini e i loro rappresentanti nelle assemblee elettive, tra il sentire comune della gente e il sistema politico stesso. Un’emergenza che Matteo Renzi ha, certo, messo a fuoco tempestivamente; ma che egli stesso con il PD attuale non è in grado di superare, perché anche il PD ne è stato pienamente corresponsabile, sia pure soltanto per la parte maturata nei sette anni della sua esistenza, e lo è in parte tuttora.
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Questa frattura ha un nome e una causa fondamentale: l’inconcludenza.
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<b>2. … di destra…</b> – Inconcludenza totale della destra, per cominciare. Più precisamente di un centrodestra che si è riempito la bocca per vent’anni delle parole “libertà” e “liberalismo”, ma che porta la parte maggiore della responsabilità della crescita vertiginosa del debito pubblico negli ultimi vent’anni, conseguenza di un’invadenza dello Stato nell’economia che non ha pari in Europa. Con l’effetto della pressione fiscale enorme che sta soffocando la nostra economia, mai di fatto contrastata dai governi Berlusconi.
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Questo stesso centrodestra ha tutt’intera la responsabilità del peccato più grave commesso della mia generazione nei confronti di quelle dei nostri figli e dei nostri nipoti: la dissipazione del cosiddetto “dividendo dell’euro”, cioè di quelle diverse centinaia di miliardi di interessi passivi che la traduzione in euro del nostro debito pubblico ci avrebbe consentito di risparmiare, e che secondo il patto di Maastricht con i nostri partner avremmo dovuto destinare interamente alla riduzione del debito stesso. Pensate: se lo avessimo fatto, invece di finanziare con quel prezioso dividendo l’ulteriore aumento della spesa corrente strutturale, nei dieci anni tra il 2001 e il 2011 avremmo potuto ridurre il nostro debito pubblico quasi al 70 per cento del PIL; saremmo cioè vicinissimi all’obiettivo che il Fiscal compact ci chiede di raggiungere entro vent’anni e dal quale invece proprio in quel decennio ci siamo pericolosamente allontanati.
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<b>3. … e di sinistra…</b> - Ma non meno grave è l’inconcludenza della sinistra italiana: una sinistra presuntuosa e autoreferenziale, che per molti decenni ha guardato dall’alto in basso le altre sinistre europee, considerando come spregiative le loro qualificazioni come “socialdemocratica” o “laburista”. Salvo ignorare i risultati che queste conseguivano sul terreno del funzionamento concreto del mercato del lavoro e del welfare nei rispettivi Paesi, e lasciare invece che in Italia il mercato del lavoro assumesse le forme mostruose dell’apartheid tra iper-garantiti e iper-precari, con i servizi per l’impiego peggiori e con i tassi di occupazione femminile, giovanile e degli anziani più bassi d’Europa. Ma al tempo stesso con le retribuzioni orarie nette più basse tra i Paesi dell’OCSE, a parità di mansioni. Intanto, nella stessa Italia in cui fino al 2011 quasi tutta la spesa sociale è stata destinata a mandare in pensione i lavoratori regolari a cinquant’anni, e i più poveri sono assistiti peggio che in qualsiasi altra parte del continente, è pure diminuita la mobilità sociale. Questo è il bilancio disastroso di mezzo secolo di sinistra italiana.
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Obiettano: “ma in quel mezzo secolo non siamo mai stati al governo per più di un anno o due di seguito”. È vero, e se ne capisce bene il motivo; ma è un fatto che tutti i disastri menzionati sono in larga parte il prodotto di ciò che quella sinistra ha in concreto rivendicato e difeso, sul piano sindacale come su quello politico, anche quando era all’opposizione: sul terreno previdenziale come su quello della disciplina dei rapporti di lavoro individuali e collettivi, o dei servizi nel mercato del lavoro. Basti ricordare su quest’ultimo punto la difesa a oltranza del monopolio statale del collocamento protrattasi fino alle soglie degli anni 2000, della quale si trovano ancora ben visibili le tracce nella resistenza ancora prevalente nel Pd contro ogni forma di coinvolgimento delle agenzie specializzate nel servizio pubblico per l’impiego.
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<b>4. … ma anche di destra e sinistra insieme</b> - Insieme, poi, destra e sinistra italiane hanno la responsabilità di avere chiuso ermeticamente il Paese agli investimenti stranieri. Sono sempre state accomunate, queste nostre vecchie destra e sinistra, dall’ostilità contro le multinazionali straniere e dalla difesa dell’“italianità” dei “campioni nazionali”. La perdita conseguitane si può valutare, per confronto con la media europea, in un minor flusso di circa 50-60 miliardi all’anno di investimenti diretti in entrata, con tutto ciò che essi portano con sé in termini di piani industriali innovativi, di aumento della produttività del lavoro e di domanda aggiuntiva di occupazione.<b></b>
È responsabilità comune di questa destra e di questa sinistra il degrado dell’istruzione pubblica, l’aver lasciato che tutta la politica scolastica si riducesse a una colossale gestione di stipendi e di aumenti automatici per professori di ruolo inamovibili, nonché di una coorte di precari aspiranti al posto fisso (dove la questione cruciale non è il che fare per istruire meglio gli studenti, ma soltanto come soddisfare i diritti acquisiti di chi ce li ha e le attese di chi aspira ad averli).
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Infine, ma non certo ultima per importanza, va ricordata la perdita progressiva di efficienza dell’amministrazione giudiziaria e di senso civico nel Paese: responsabilità bi-partisan della politica italiana, divisa tra una destra la cui unica politica giudiziaria è consistita per vent’anni nel tentativo di impedire che il suo capo rispondesse delle imputazioni rivoltegli dalla magistatura, e una sinistra altrettanto diffusamente propensa ad affidare alla magistratura compiti del tutto impropri di supplenza, che degenerano facilmente in vera e propria ingerenza nell’area di competenza della politica e dell’esecutivo.
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<b>5. Perché questi disastri?</b> - Che cosa è mancato alla politica italiana, tanto a destra quanto a sinistra? È mancata una cosa che possiamo chiamare “substrato di cultura politica nazionale”, o “tessuto connettivo repubblicano”, oppure ancora “patrimonio comune di valori civili”; ma credo che si ottiene maggiore chiarezza indicando questa cosa che è mancata come il minimo comune denominatore liberal-democratico che in un Paese moderno dovrebbe accomunare l’ala destra e l’ala sinistra dello schieramento politico. O meglio: dovrebbe costituire il terreno d’azione accettato da entrambe e sul quale esse tra loro competono, salvo ovviamente differenziarsi per l’entità dell’impegno dedicato a garantire la parità di opportunità a tutti.
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<b>6. Il minimo comun denominatore liberal-democratico: nelle amministrazioni…</b> - Di questo patrimonio politico-programmatico proprio tanto di una destra quanto di una sinistra moderne, dovrebbe far parte innanzitutto l’impegno di ciascuna generazione a non far pagare alle generazioni successive i debiti conseguenti ai propri sprechi e dissennatezze (e qui, come si è visto, il bilancio italiano è pesantissimo). Ma dovrebbe farne parte anche l’impegno a garantire al Paese un’amministrazione pubblica totalmente trasparente – la full disclosure dei Freedom of Information Acts – e totalmente orientata al servizio dei cittadini; con dirigenti responsabilizzati su obbiettivi specifici, misurabili, volti a allineare progressivamente i servizi più arretrati ai più avanzati. Questo non è un obiettivo né tipicamente proprio della destra, né della sinistra: l’una e l’altra dovrebbero misurarsi entrambe su questo terreno. Invece in Italia esse sono in pari misura responsabili dello stato delle nostre amministrazioni, dove regna l’opacità, dove l’interesse degli addetti prevale sistematicamente su quello degli utenti, dove i vertici e i dirigenti che da loro dipendono non sono quasi mai responsabilizzati per il raggiungimento di obiettivi incisivi e precisi, né mai valutati secondo questo parametro. E quando si parla di affondare per davvero il bisturi anche nella più piccola piaga di questo tessuto malato, immancabilmente in Parlamento destra e sinistra si ritrovano come per incantesimo unite in un ferreo non expedit: queste cose in Italia non si possono fare.
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<b>7. … e nei mercati</b> - Allo stesso modo, non è né di destra né di sinistra – o, se si preferisce, né pro-business né pro-labour – l’obiettivo di un mercato del lavoro capace di conciliare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza economica e professionale delle persone nel passaggio da un lavoro all’altro. Anche questo è uno dei terreni più importanti sul quale sinistra e destra dovrebbero confrontarsi e competere; invece in Italia non si sa quale delle due abbia tenuto, nei decenni passati e ancor oggi, un comportamento di fatto più conservatore e inconcludente, condannando il Paese a tenersi il mercato del lavoro che funziona peggio in Europa, se si esclude la solita benemerita Grecia.
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Nel comune denominatore liberal-democratico che dovrebbe essere condiviso dalla destra e dalla sinistra c’è poi un capitolo fondamentale: la contendibilità di tutte le funzioni. Di quelle che sono oggetto dei mercati privati, ovviamente; ma anche e soprattutto di quelle pubbliche. Se, invece, l’Italia è il Paese dove le possibilità effettive di concorrenza sono più ridotte, sia nel mercato dei servizi alle persone e alle imprese, sia nelle funzioni pubbliche, questo è dovuto a una destra e una sinistra che fanno a gara nel proclamarsi “liberali” all’ingrosso, quando si tratta di enunciare il principio astratto, ma per lo più fanno altrettanto a gara nell’essere corporative al minuto: tendenzialmente pronte a stringersi la mano quando si tratta di difendere qualche gruppo di insider, rappresentato dalla lobby di turno, contro la concorrenza degli outsider. Sempre, ovviamente, motivando con l’esigenza di “proteggere l’interesse dell’utente alla migliore qualità della prestazione”.
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<b>8. Le riforme in affanno</b> - Quando parliamo di “riforma europea dell’Italia” noi di Scelta Civica parliamo di introdurre nel nostro sistema e nella nostra cultura politica questo comun denominatore liberal-democratico, che in Italia troppo a lungo è drammaticamente mancato. Parliamo di costringere destra e sinistra a far propri questi valori e a confrontarsi su questo terreno. Siamo convinti che Matteo Renzi proprio questo, più o meno, si proponga di fare, quando parla di “cambiare verso” al nostro Paese. Ma talvolta su questa strada lo vediamo in affanno, in debito di ossigeno; e comunque constatiamo le enormi difficoltà che egli incontra quando, con questo intendimento, cerca di “cambiar verso” anche al Partito democratico. Per esempio, quando questo gli si mette di traverso (altro che “cambiar verso”) appena si incomincia a parlare di mobilità del personale nel settore pubblico, di eliminare una parte delle decine di migliaia di società mangiasoldi controllate da Stato ed enti pubblici, di introdurre il contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezioni crescenti, o il contratto di ricollocazione come metodo nuovo con cui affrontare le crisi occupazionali attivando i servizi di outplacement offerti dalle agenzie specializzate e ponendo fine all’abuso della Cassa integrazione “a perdere”, e di altro ancora… Il muro è ancora lì. Un esempio particolarmente significativo di queste difficoltà del premier è costituito dal capitolo programmatico del Codice del lavoro semplificato: ancora nel gennaio scorso esso costituiva il primo punto del Jobs Act annunciato dal sindaco di Firenze; poi, da Presidente del Consiglio, egli torna ad annunciarlo nella fatidica conferenza stampa del 14 marzo, e lo fa di nuovo negli incontri con Merkel e Cameron; ma poiché la Cgil obietta che “semplificazione uguale precarizzazione”, per ora in Parlamento del Codice semplificato resta solo l’annuncio.
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<b>9. La riforma europea dell’Italia</b> - Per rafforzare nella politica italiana il comun denominatore liberal-democratico di cui ho parlato è necessario innanzitutto rafforzare il processo di integrazione dell’Italia nell’Unione Europea: è questa la nostra unica speranza di successo. Dobbiamo costringere ogni amministrazione ad allinearsi progressivamente ai migliori standard delle amministrazioni omologhe dei Paesi nostri partner, e al tempo stesso cooperare attivamente con questi nella costruzione dell’Europa federale, cioè degli Stati Uniti d’Europa. Per farlo, visto lo stato delle nostre destra e sinistra, è necessario dotare il Paese di un robusto polo liberal-democratico, capace di costringerle a sprovincializzarsi e modernizzarsi, confrontandosi e competendo, senza diversivi, sul terreno decisivo dell’integrazione europea.
<p>Come intendiamo portare avanti la flexsecurity | INTERVISTA2013-01-22T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it685373<br />
Pietro Ichino è determinato a portare in Italia la <i>flexsecurity</i>, cioè lavoro più sicuro a fronte di maggiore flessibilità delle strutture produttive. E prova a farlo attraverso l’Agenda Monti, in definizione in vista delle elezioni di fine febbraio.<br />
In una intervista a Reuters via email il giurista, giornalista e politico italiano – che ha lasciato il Pd per una candidatura al Senato con la lista Monti – spiega quale sia il suo progetto per modernizzare il mercato del lavoro italiano, in particolare giovani con meno di trenta anni, donne e ultracinquantenni.
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<b>Proponete un contratto sperimentale a tempo indeterminato ma con libertà di licenziare. Come funziona?</b>
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Non si tratta di un contratto ‘unico’. Il contratto di lavoro che intendiamo sperimentare è a tempo indeterminato; ma per le sue caratteristiche di minor costo contributivo e di marcata flessibilità sarà preferibile per le imprese, adatto a tutte le esigenze e in particolare alla necessità di riassorbimento delle centinaia di migliaia di collaborazioni autonome fasulle che non reggono rispetto ai criteri della legge Biagi, ripresi e resi più effettivi dalla legge Fornero.
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<b>Di quanti punti saranno gli sgravi contributivi?</b>
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Si tratterebbe di ridurre i contributi pensionistici dal 33 al 30%, cioè una via di mezzo tra l’aliquota oggi in vigore per il lavoro subordinato e quella in vigore per le collaborazioni autonome; e ridurre quelli per la Cassa integrazione dal 3,2 allo 0,5%.
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<b>Ma se le aziende possono licenziare che tutela avranno i lavoratori?</b>
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Per i primi due anni ci sarà soltanto un obbligo di indennizzo, pari a un mese per anno di anzianità di servizio; assai meglio rispetto ai contratti che normalmente si offrono oggi come prima assunzione per i giovani. Dal terzo anno in poi, al lavoratore licenziato dovrà essere offerto anche un “contratto di ricollocazione”, che comporterà una integrazione del trattamento di disoccupazione a carico dell’impresa di durata crescente con l’anzianità di servizio fino a un massimo due anni, che ammonterà al 10% della retribuzione per il primo anno di disoccupazione e al 65% per il secondo anno.
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<b>Cosa risponde alle critiche del Pd secondo cui non ci sono reali garanzie se si può licenziare?</b>
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L’idea che senza il vecchio articolo 18 ci sia solo precarietà è frutto del provincialismo diffuso nella cultura del lavoro italiana. In tutta Europa la sicurezza economica e professionale dei lavoratori è costruita sulle garanzie di sostegno del reddito e assistenza nella ricerca della nuova occupazione in caso di perdita del posto.
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<b>Nel ‘contratto di ricollocazione’ dovrà essere previsto un servizio di outplacement. Di cosa si tratta?</b>
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Si tratta di servizi di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione. Già esistono in Italia ma, certo, costano. Per questo le Regioni hanno la possibilità di attingere a quel 60% di contributi del Fondo Sociale Europeo, che finora non sono state capaci di utilizzare. Si può pensare a un rimborso alle imprese pari ai quattro quinti del costo-standard di mercato di questo servizio, reso dalle agenzie specializzate.
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<b>Quanto costerà la riduzione del contributo pensionistico?</b>
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Il contributo pensionistico al 30% comporterà un maggior gettito in tutti i casi in cui si tratterà di vecchie collaborazioni autonome abusive, con contributo al 27%, che si trasformano in rapporti di lavoro dipendente. Comporterà invece un minor gettito rispetto all’aliquota del 33% oggi vigente per il lavoro dipendente. L’entità del saldo positivo o negativo per la gestione pensionistica è difficile da prevedere; ma l’eventuale saldo negativo non costituirà comunque un onere particolarmente rilevante. Anche perché la riduzione del cuneo contributivo contribuirà all’aumento dell’occupazione.
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<b>E quanto alla riduzione del contributo per la Cassa integrazione?</b>
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La riduzione del contributo farà perdere all’Inps una parte dell’attivo maturato fino alla crisi del 2008, dato da una eccedenza di contributi rispetto alle prestazioni. Nei primi due o tre anni si prevede una diffusione non amplissima dell’esperimento mentre in prospettiva l’eccedenza dei contributi rispetto alle prestazioni dovrà essere eliminata, se vogliamo ridurre il ‘cuneo’ contributivo che oggi penalizza le retribuzioni.
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<b>Per incentivare l’occupazione femminile lei propone sgravi Irpef per il primo impiego. Costi e coperture?</b>
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Nel <b><a href="http://www.pietroichino.it/wp-content/uploads/2010/05/ddl-21021.pdf">disegno di legge Morando-Ichino n. 2102/2010</a></b> che prevede questa “azione positiva” il costo è stimato in 4,5 miliardi per il primo anno, decrescente negli anni successivi per effetto dell’aumento della domanda e dell’offerta di lavoro. Lo stesso progetto di legge individua la copertura in un tributo sulla leva finanziaria degli istituti di credito; ma si possono ipotizzare anche fonti di copertura diverse.
<br />«Giù le tasse a chi assume giovani e donne» - INTERVISTA2013-01-21T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it685290<br />
<b>Senatore, Monti sostiene che nel suo partito il tema del lavoro è ancora “un cantiere aperto”. Ma la disoccupazione - stime Ocse e Banca d’Italia – continuerà a salire e potrebbe essere una delle grandi emergenze del 2013. Come si rimedia?</b>
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Occorre innanzitutto incentivare l’assunzione di lavoratori giovani e di donne, con misure di detassazione; orientare i giovani verso i posti di lavoro che oggi restano scoperti per mancanza di manodopera qualificata: dunque servizi di orientamento scolastico e professionale, che oggi latitano, e formazione specificamente mirata alla domanda espressa dalle imprese. Queste misure saranno oggetto di un grande piano straordinario per l’occupazione giovanile. Occorre, poi, attivarci per portare a investire in casa nostra il meglio dell’imprenditoria straniera: con la semplificazione burocratica e fiscale e con il Codice del lavoro semplificato, pubblicato anche in inglese.
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<b>Cosa propone il suo partito per risolvere il dualismo del mondo del lavoro, tra protetti e non protetti, tipico dell’Italia, e stigmatizzato di recente anche da Mario Draghi?</b>
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La legge Fornero ha ripristinato e rafforzato la norma contenuta nella legge Biagi volta a contrastare l’abuso delle collaborazioni autonome; per completare il disegno, occorre fare in modo che le imprese, in questa situazione di grave incertezza sul futuro, possano riassorbire le centinaia di migliaia di falsi collaboratori autonomi senza choc di costi e di rigidità. Per esempio offrendo la possibilità di sperimentare, sulla base di accordi-quadro regionali, un rapporto di lavoro con più basso costo previdenziale e fiscale e più flessibile: con un grado di stabilità inizialmente basso, che cresce con l’anzianità di servizio.
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<b>Cosa avete intenzione di fare sull’articolo 18?</b>
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L’allineamento al modello tedesco operato dalla legge Fornero costituisce già un passo avanti molto rilevante, che va difeso e consolidato. Non pensiamo di por mano a una nuova riforma di portata generale, ma di attivare per le imprese che vi siano interessate la sperimentazione di cui parlavo prima, limitata a nuove assunzioni e nuovi insediamenti.
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<b>E la riforma degli ammortizzatori sociali?</b>
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La legge Fornero ha già compiuto una riforma molto incisiva della Cassa integrazione e istituito un trattamento di disoccupazione universale di livello europeo; ma non ha potuto incidere significativamente sui servizi nel mercato del lavoro. Uno degli oggetti della sperimentazione consisterà in questo: consentire che, nei nuovi rapporti, l’impresa che si trova a dover licenziare per motivi economici sia abilitata a farlo, senza controllo giudiziale sul motivo, offrendo al lavoratore un vero e proprio “contratto di ricollocazione”. Questo potrebbe prevedere l’attivazione di un servizio di outplacement, cioè di assistenza intensiva per la ricerca della nuova occupazione, con costo per tre quarti coperto dalla Regione con i contributi del Fondo Sociale Europeo, combinato con un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa stessa. Più rapidamente si ricolloca il lavoratore, meno l’operazione costa.<br />
L'aumento della disoccupazione è colpa del governo Monti? - INTERVISTA2012-11-12T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it659845<br />
<b>Professor Ichino, non trova che l’enorme aumento della disoccupazione nel corso dell’ultimo anno, specie di quella giovanile (+25% secondo gli ultimi dati Istat), screditi l’operato del governo Monti sul mercato del lavoro? Oppure è ingiusto incolpare la Fornero della situazione?</b>
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La legge Fornero è entrata in vigore meno di quattro mesi fa, il 18 luglio. Mi sembra davvero impossibile anche solo ipotizzare che essa possa essere responsabile dell’aumento rilevante della disoccupazione a cui stiamo assistendo in Italia. È invece plausibile che a questa impennata della disoccupazione abbiano contribuito in misura notevole i tagli della spesa pubblica operati dal governo Monti; ma questi fanno parte di una strada obbligata, che abbiamo dovuto bruscamente imboccare un anno fa per evitare la bancarotta dello Stato.
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<b>Perché il tasso di disoccupazione italiano è sceso negli anni 2000, pur in presenza di una crescita debole del pil e della produttività, mentre oggi aumenta vertiginosamente?</b>
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Negli ultimi tre decenni il nostro Paese è vissuto consumando mediamente l’equivalente di 30 miliardi di euro in più rispetto a quanto era in grado di produrre. La crescita, quando c’è stata, è stata un po’ drogata da questa
iniezione di denaro preso a prestito. Da quest’anno ci siamo proposti di smettere di prendere altro denaro a prestito, e in più di incominciare a restituire il debito accumulato: questo ha determinato un contraccolpo recessivo. Ma credo che abbiamo fatto la cosa giusta.
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Nell’intervento del 17 settembre pubblicato sul suo sito [<a href="http://www.pietroichino.it/?p=23025">intervista a ilSussidiario.net</a> - <i>n.d.r.</i>] affermava che la vecchia disciplina italiana dei licenziamenti “era una delle tante concause della debolezza del sistema economico italiano”. A meno di cinque mesi dalla sua approvazione, si può dire che la riforma Fornero abbia prodotto qualche effetto positivo? Le risultano che gli investimenti stranieri siano aumentati, per esempio?</b>
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La legge Fornero ha allineato il nostro ordinamento in materia di licenziamenti individuali al resto d’Europa, segnando il passaggio da un regime di sostanziale job property a un regime di liability dell’impresa: cioè di responsabilizzazione economica dell’impresa verso il lavoratore licenziato. Che questo cambiamento non sia soltanto “sulla carta”, ma abbia incominciato a prodursi effettivamente è dimostrato dai dati di questi primi
mesi di applicazione della legge, nei quali si è registrato un netto aumento (52% dei casi) delle conciliazioni in sede amministrativa, con accordo economico tra imprenditore e lavoratore, e una altrettanto netta flessione
dei ricorsi giudiziari per impugnazione di licenziamenti. Certo, non bastano questi primi dati per misurare l’impatto effettivo della legge; ma si tratta di segnali positivi. Quanto agli investimenti stranieri, mi sembra davvero troppo presto per valutare l’impatto su di essi della strategia di Monti.
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<b>Quanto è reale la possibilità che le riforme Monti-Fornero vengano smontate da un prossimo governo, e che effetti avrebbe tale controriforma?</b>
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La possibilità c’è, perché i nemici di queste riforme ci sono sia a destra sia a sinistra. La speranza, ben fondata, credo, è che alle prossime elezioni politiche prevalga nettamente il consenso nei confronti della strategia europea dell’Italia disegnata e avviata da Mario Monti, e l’impegno a proseguire su questa strada.<br />
Sui 19 della Fiat anche il giudice ha commesso un errore - INTERVISTA2012-11-02T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it656699<br />
In nessun altro Paese al mondo un caso di discriminazione come questo sarebbe stato sanzionato con l'ordine giudiziale di costituzione di 19 nuovi rapporti di lavoro. La sanzione più appropriata ed efficace è costituita dal risarcimento del danno.
<p><b>Diciannove messi in mobilità per rispettare una sentenza dello Stato: non pensa che quello di Fiat sia una ritorsione?</b>
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Sul piano strettamente giuridico non lo è. Un effetto indiretto del provvedimento giudiziale è una eccedenza di personale; e il nostro ordinamento consente all’impresa di risolvere il problema con il licenziamento collettivo. Il punto è che non possono essere licenziati i 19 della Fiom neo-assunti, poiché sarebbe una reiterazione della discriminazione ai loro danni; ma sarebbe evidentemente inaccettabile che venissero licenziati al loro posto altri 19, che con lo scontro tra Fiat e Fiom non hanno nulla a che fare. Sono questi gli effetti velenosi di un provvedimento giudiziale sbagliato.
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<b>Perché sbagliato? Che cosa avrebbe dovuto fare il giudice in questo caso?</b>
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Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro Paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno: non dimentichiamo che qui non si tratta di licenziamento discriminatorio, ma di mancata assunzione, che è cosa assai diversa. L’esperienza statunitense mostra come un risarcimento salato possa costituire un deterrente efficacissimo contro un comportamento discriminatorio di questo genere. E non determina le situazioni assurde a cui assistiamo oggi a Pomigliano.
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<b>I sindacati nutrono dubbi sul fatto che Pomigliano possa riassorbire tutti i lavoratori come da accordi sindacali firmati a suo tempo; e nel frattempo all’interno della fabbrica il clima – comprensibilmente – si è fatto rovente. È ancora convinto che lo stabilimento campano sia un modello per l’Italia?</b>
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Guardi che anche i sindacalisti della Fiom riconoscono che lo stabilimento di Pomigliano è un gioiello sul piano tecnologico e produttivo. Chiunque conosca l’industria automobilistica lo riconosce. Altro è il problema della ripresa della produzione di auto a pieno ritmo negli stabilimenti italiani della Fiat: questo dipende da molti fattori, la maggior parte dei quali sfugge al controllo della stessa Fiat.
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<b>Quali strade possono essere intraprese oggi – da tutte le parti – per evitare che il rispetto di una sentenza della magistratura porti al licenziamento di diciannove persone?</b>
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Se fossi il ministro del lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. Farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo così il riconoscimento dei propri rappresentanti in azienda; e per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva, che speriamo non si faccia attendere troppo.
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<b>L’accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil del giugno 2011 ha aumentato il peso della contrattazione aziendale in maniera considerevole. Non pensa che l’insistenza di Fiat nel chiamarsi fuori da questa intesa indichi una volontà di sottrarsi a un quadro di regole comuni e che la decisione di ieri di rispondere con una rottura a una sentenza dello Stato ne sia una conferma?</b>
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Se è per questo, anche la Fiom se ne chiama fuori, pur essendo parte della Cgil: altrimenti, dopo l’accordo interconfederale del giugno 2011 avrebbe firmato gli accordi aziendali Fiat, che ne hanno anticipato il contenuto. Quanto alla Fiat, che essa abbia inteso sottrarsi al sistema sindacale interconfederale è evidente. Ma quel sistema non è legge dello Stato. Il nostro ordinamento garantisce il pluralismo sindacale non soltanto sul versante dei lavoratori, ma anche su quello degli imprenditori. E il pluralismo serve perché modelli di relazioni industriali diversi possano confrontarsi e competere tra loro. In modo che i lavoratori e gli imprenditori stessi possano scegliere quello che ritengono produca i risultati migliori. Naturalmente, sempre nel rispetto della legge: su questo non può esserci alcun “pluralismo”.
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<b>Come mai un’azienda che si presenta come alfiere della modernizzazione industriale non è in grado di proporsi oggi alla platea dei suoi lavoratori in una logica di condivisione delle scelte? È solo un problema di comunicazione?</b>
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Per litigare occorre sempre essere in due. Sia Fiat sia Fiom hanno qualche ragione per accusarsi a vicenda. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi iscritti nelle assunzioni; ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio – primavera 2010 – contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale.
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<b>Il partito di cui fa parte non ha mai avuto negli ultimi anni una posizione univoca sul caso Fiat. Oggi è possibile trovare una sintesi tra le varie anime dei democratici?</b>
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Sarebbe preoccupante che in un grande partito di centrosinistra tutti avessero la stessa posizione su di una vicenda complessa come questa, originata dagli accordi Fiat del 2010. L’unità del partito si deve esprimere nel voto, alle elezioni e negli organi elettivi; non certo nell’appiattimento di tutte le opinioni su quella del segretario. Sta di fatto che, da quarant’anni a questa parte, le mie opinioni non sono “fuori linea”: hanno il solo difetto di essere in anticipo di qualche anno rispetto a quelle del mio partito.<br />
Per l'adozione di un Freedom of Information Act (FOIA) 2012-09-19T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it650428<br />
In occasione della Giornata della Trasparenza, in questo mio breve intervento accennerò soltanto a tre punti che mi paiono importanti: valorizzare le norme già esistenti; anticipare la riforma legislativa della trasparenza totale con i nostri comportamenti; correggere la distorsione che si è determinata nella cultura giuridica della privacy. A ben vedere questi tre punti possono essere ricondotti a uno solo: incominciamo a praticare i principi e le regole della full disclosure subito, anche a legislazione invariata. Questo preparerà il terreno a una maggiore effettività della nuova legge, quando finalmente arriveremo a dotarcene.
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<b>1. Valorizzare le norme già esistenti.</b> – Sia pure in modo assai difettoso, tuttavia il principio della trasparenza totale ha già incominciato a essere enunciato nella legge-delega per la riforma del 2009 delle amministrazioni pubbliche (legge n. 15/2009, articolo 4, comma 2, lettera h), che vincola le amministrazioni ad “assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione”), a essere precisato nel decreto-delegato emanato in adempimento di quella delega legislativa (d.lgs. n. 150/2009, articolo 11, che sancisce il principio di “accessibilità totale … delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati delle attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti…”) e a essere ulteriormente precisato nel Codice della protezione dei dati personali (comma 3-bis inserito nell’articolo 19 del d.lgs. n. 196/2003 dall’articolo 14 del Collegato lavoro, l. n. 183/2010, che sgombera il campo da un ostacolo sistematicamente opposto al tentativo di impedire la piena attuazione della norma del 2009, vincolando le amministrazioni a rendere accessibili a chiunque “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione, con la sola eccezione delle “notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro”). Queste norme, certo, non hanno l’incisività dei Freedom of Information Acts statunitensi e britannici; ma costituiscono pur sempre un punto di riferimento normativo importante, che potrebbe essere valorizzato molto più di quanto non si sia fatto in questi primi tre anni di loro applicazione.<br />
La stessa legge del 2009, poi, ha istituito un’autorità indipendente, la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni-CIVIT, che dovrebbe considerarsi preposta anche all’attuazione e promozione di quel principio di trasparenza. E, aggiungo io, che dovrebbe costituire una sorta di contraltare dell’Autorità per la protezione dei dati personali, promuovendo nel settore pubblico il necessario contemperamento tra i principi di full disclosure e privacy.<br />
Dunque non mancano disposizioni legislative alle quali ben potrebbe farsi riferimento per incominciare a praticare su larga scala i principi e il metodo della full disclosure nelle amministrazioni. Invece, su questo fronte tutto tace; e anche la Civit, fino a oggi, si è mostrata assai poco attiva su questo fronte. Non solo: si assiste anche a comportamenti amministrativi che vistosamente contraddicono quei principi e quel metodo. Solo alcuni esempi: nessuna amministrazione mette on line i mandati di pagamento e gli atti su cui essi si basano, in particolare i contratti con i fornitori e collaboratori privati; quasi nessuna amministrazione mette on line i dati relativi alle valutazioni della propria performance, i dati sui propri organici, sulle qualifiche, mansioni specifiche e retribuzioni dei dipendenti, sui loro tassi di assenze, sulle valutazioni delle loro prestazioni: qui domina ancora l’idea che il diritto alla privacy escluda questa pubblicazione, nonostante che due anni fa – come si è visto – nel Codice della protezione dei dati personali sia stata inserita una disposizione mirata esplicitamente ad affermare il contrario. E ultimamente l’ANVUR (che pure merita per altri aspetti tutto il nostro plauso), ignorando totalmente quella disposizione, ha addirittura pubblicamente addotto esigenze di protezione della riservatezza individuale a giustificazione della non pubblicazione delle valutazioni dei risultati individuali della ricerca universitaria.
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<b>2. Anticipare la riforma con i nostri comportamenti.</b> – A questa inerzia occorre incominciare a contrapporre il maggior numero possibile di iniziative volte ad applicare fin d’ora i principi e le regole della full disclosure, anche a legislazione invariata, in attesa che un Freedom of Information Act nostrano segni definitivamente la svolta, con il pieno allineamento per questo aspetto dell’Italia ai Paesi più avanzati.<br />
Vedo un primo luogo dove questa anticipazione sarebbe integralmente possibile, con effetti dirompenti, negli enti locali – Comuni e Province – alla cui testa stia un sindaco o presidente che crede nel valore della trasparenza totale. Così, per esempio, ho salutato con grande soddisfazione il fatto che Matteo Renzi abbia inserito nel proprio programma per le primarie del centrosinistra un capitoletto sull’introduzione del Freedom of Information Act nel nostro Paese; ma ho anche osservato che Renzi è oggi sindaco di una grande città italiana; e che, se crede davvero in questo principio, nulla gli impedisce di farlo applicare in modo totale e rigoroso nell’amministrazione municipale di cui egli è il capo.<br />
Sono anche convinto che solo l’applicazione rigorosa del principio di trasparenza totale possa testimoniare la volontà dei partiti di voltar pagina in modo radicale rispetto alle malversazioni di cui abbiamo purtroppo visto negli ultimi mesi e ancora in questi ultimi giorni numerose tragiche manifestazioni, in tutto l’arco delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Per questo mi sono battuto affinché il gruppo parlamentare a cui appartengo adottasse fin d’ora la full disclosure come principio ispiratore di tutta la propria amministrazione; una delibera in questo senso è stata effettivamente adottata dalla Presidenza del gruppo dei senatori democratici nel luglio scorso, ma a tutt’oggi non ha ancora incominciato a essere messa in pratica: spero che l’attuazione non tardi. Ma penso che tutti i partiti dovrebbero sentire la necessità vitale – prima ancora che il dovere morale – di incominciare immediatamente ad applicare questo principio, se vogliono recuperare la fiducia di una parte almeno del loro elettorato. E invece si assiste alla ridicola discussione circa la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari: come se il problema fosse quello di confermare la solidità di quei bilanci (chi mai dubita della solvibilità di questi soggetti?), e non quello della trasparenza, della possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica su ogni voci di spesa di quel denaro, che è pubblico all’origine e resta sostanzialmente tale quando è usato per far funzionare un ente di rilevanza costituzionale, quali sono i partiti e i loro gruppi parlamentari. Occorrerebbe che l’opinione pubblica esigesse fin d’ora, con grande forza, l’applicazione di questo principio da parte dei partiti e gruppi parlamentari, così forzando anche il legislatore a disporre nello stesso senso in sede di riforma del finanziamento pubblico della politica.
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<b>3. Correggere gli eccessi e le distorsioni della cultura della privacy.</b> – Infine, occorre che gli studiosi del diritto e gli opinionisti incomincino a sottoporre a una revisione attenta e profonda l’intera costruzione giurisprudenziale che è venuta formandosi, soprattutto per opera dell’Autorità per la protezione dei dati personali, intorno alla nozione di diritto alla riservatezza e alle sue implicazioni in materia di conoscibilità e circolazione dei dati. Ho proposto poc’anzi alcuni esempi dell’uso indebito che del principio di protezione della privacy si è progressivamente fatto nell’ultimo ventennio per evitare la trasparenza totale delle amministrazioni e impedire la circolazione di dati che nulla hanno a che fare con la vita privata delle persone. <br />
Dal principio costituzionale di protezione della persona umana si è voluto dedurre una regola di inconoscibilità dei dati inerenti alla vita delle persone, che – secondo i suoi sostenitori – dovrebbe essere considerata come regola generale, suscettibile soltanto di eccezioni ben delimitate disposte da norme legislative specifiche. Questa costruzione viene, così, utilizzata di volta in volta per affermare la non conoscibilità delle valutazioni dell’attività didattica e di ricerca dei singoli professori universitari, la non utilizzabilità dei dati di cui le scuole dispongono sulle carriere scolastiche degli studenti, o dei dati di cui dispongono le amministrazioni giudiziarie sull’attività dei singoli magistrati nell’esercizio della loro funzione, e così via. Siamo arrivati all’assurdo per cui, in nome della privacy (qui utilizzata per coprire la pigrizia degli addetti), la quasi totalità degli Istituti scolastici rifiuta di fornire informazioni sui diplomi, con i relativi voti di profitto, rilasciati ai propri ex-studenti!<br />
Credo che il danno prodotto da questa distorsione della nozione di protezione dei dati personali per il progresso civile ed economico del nostro Paese sia molto grave. In attesa di una legge che ristabilisca l’equilibrio necessario tra diritto delle persone al riserbo e libertà di circolazione delle informazioni, e di un’autorità per la trasparenza delle amministrazioni che si occupi di difendere questo equilibrio, è indispensabile che incominciamo fin d’ora a costruire nel settore pubblico la cultura della full disclosure.<p>
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«Non ho cambiato idea, la svolta di Marchionne era giusta» - INTERVISTA2012-09-18T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it650426<br />
<b>Il mondo politico e sindacale, quasi al completo, rimprovera a Marchionne scarsa chiarezza: e lei?</b>
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Non cambierei di una virgola le opinioni espresse negli ultimi due anni sulla vicenda dei contratti aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Sia sotto il profilo giuridico, perché quelle pattuizioni erano e restano pienamente legittime, sia sotto il profilo dell’opportunità sindacale e industriale di votare ‘sì’ ai relativi referendum.
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<b>Ma è un modello che di fatto rischia di venire meno se proprio la Fiat rinuncia ai suoi investimenti.</b>
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Innanzitutto, non dimentichiamo che nel 2003, quando Marchionne ha assunto la guida del Gruppo, la Fiat era in stato fallimentare. Aggiungo, poi, che quegli accordi hanno una parte rilevante del merito della svolta nel nostro sistema delle relazioni industriali che si è concretata l’anno successivo, con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche dalla Cgil. Senza la vicenda Fiat, probabilmente quella svolta non ci sarebbe stata. E senza gli accordi aziendali del 2010 non ci sarebbero stati neppure gli investimenti in essi previsti; non vedo, dunque, che cosa i lavoratori interessati avrebbero guadagnato col respingere quegli accordi, come la Fiom li invitava a fare.
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<b>Ma la Cgil e la Fiom denunciavano il limite di quel piano.</b>
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È vero che il piano industriale lasciava aperti alcuni interrogativi sul futuro, ma che cosa mai avrebbero guadagnato i lavoratori e il nostro Paese dal respingerlo in limine? Oltre tutto quando quegli accordi sono stati discussi e sottoposti a referendum, non era ancora sorta la questione della esclusione della Fiom dalle rappresentanze sindacali riconosciute in azienda: esclusione che è avvenuta solo dopo la sottoscrizione, proprio in conseguenza del rifiuto di firmare da parte della stessa Fiom, in applicazione di quanto previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dal referendum del 1995.
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<b>Crisi di mercato a parte, secondo lei c’entra anche lo scontro giudiziario con la Fiom nella revisione dei piani Fiat per l’Italia?</b>
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Ero e resto dell’idea che la guerra senza esclusione di colpi condotta dalla Fiom contro il piano industriale della Fiat è stato un gravissimo errore, oltre che un fatto incompatibile con un sistema di relazioni industriali moderno ed efficiente. Certo non è questa guerra la causa della crisi che oggi gli stabilimenti Fiat stanno attraversando, ma altrettanto certamente essa non ha giovato né all’impresa, né ai lavoratori, né alla nostra immagine di fronte agli operatori economici di tutto il resto del mondo, come giustamente osserva <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1KF10M">Alessandro Penati sulla Repubblica</a>.
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<b>Difficile però convincere oggi i lavoratori che il futuro è lo stesso.</b>
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Ho ben presente l’ansia, più che giustificata, che i lavoratori della Fiat oggi provano per la crisi attuale della nostra industria automobilistica; e sono ben convinto della necessità di una politica industriale che elimini le ragioni di quest’ansia. Ma questa politica non può che consistere nell’aprire il nostro Paese agli investimenti stranieri, facendone un luogo ospitale e attraente per chi vuole insediarvi le proprie iniziative economiche; non mi sembra che a questo scopo sia di aiuto il continuare a dipingere e trattare, qui da noi, come un demonio quello stesso Sergio Marchionne che i sindacati e i lavoratori americani considerano invece un grande capitano d’industria.<br />
«Con il referendum a rischio l'alleanza fra noi e Vendola» - INTERVISTA2012-09-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it649824<br />
«I segnali erano inequivocabili. Ecco perché l'iniziativa referendaria, tra gli altri del leader di Sel Nichi Vendola, per cancellare la riforma dell'articolo 18, non sorprende affatto il giuslavorista e senatore del Pd, Pietro Ichino, che però avverte: «È una bomba a orologeria sotto l'eventuale alleanza Pd-Sel-Udc».
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<b>Professore, ha definito il referendum contrario alla «scommessa europea» di Monti e «incompatibile con le opzioni strategiche essenziali del Pd». Un fatto grave, insomma...</b>
<p>«Il nuovo art. 18 è stato scritto per allineare la nostra disciplina dei licenziamenti con quella dei principali ordinamenti europei. Abbiamo fatto questa scelta non solo per migliorare il funzionamento del nostro mercato del lavoro, ma anche perché nella situazione di crisi gravissima in cui ci trovavamo nell'autunno scorso, costituiva un elemento essenziale della strategia del governo Monti per restituire all'Italia un ruolo da protagonista in Europa e recuperare la credibilità necessaria nel momento in cui chiedevamo fiducia ai nostri maggiori partner europei».
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<b>Quindi, la riforma Fornero è un traguardo irreversibile?</b>
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«Tornare indietro equivarrebbe a dire ai nostri interlocutori europei: "Signori, abbiamo scherzato". E a disfare la tela che Monti ha tessuto in Europa in prospettiva di ottenere benefici rilevanti. Mi riferisco, ad esempio, alla recente e netta presa di posizione di Draghi sull'acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce che, se l'Italia non avesse compiuto lo sforzo di allinearsi agli standard europei e non desse affidamento circa il fermo intendimento di mantenere questa linea, non sarebbe stata neppure pensabile».
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<b>Bersani minimizza. A questo punto però tra il Pd e Sel si apre una questione politica. Con quali conseguenze?</b>
<p>«Se ci si propone di dar vita ad un governo di centrosinistra impegnato a proseguire nella strategia europea di Monti, non ha senso che si scelga come alleato determinante un partito che compie scelte incompatibili con quella stessa strategia».
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<b>Qualcuno sostiene che quella di Vendola sia solo una scelta tattica: il referendum slitterebbe infatti al 2014 vista la concomitanza con le politiche...
</b>
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«Non sono d'accordo. <a href="http://politici.openpolis.it/dichiarazione/2012/09/12/nichi-vendola/%C2%ABio-lotto-per-migliorare-la-societ%C3%A0-e-il-patto-con-pier-luigi-non-%C3%A8-una-resa%C2%BB-intervista/649823">Queste cose Vendola le sostiene da sempre</a>. E se anche il referendum si tenesse nel 2014 la sostanza non cambierebbe. Sarebbe una bomba ad orologeria sotto l'eventuale coalizione Pd-Sel-Udc».<br />
Ilva di Taranto. Lavoro o Salute? Il bilanciamento spetta alla politica - INTERVISTA2012-07-28T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it647675<br />
<b>Professor Ichino, la vicenda dell’Ilva di Taranto riporta la mente alle grandi mobilitazioni degli anni ’70 e ’80 al Sud contro i primi segnali di deindustrializzazione. Quali sono secondo lei le differenze?</b>
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La deindustrializzazione incipiente di quegli anni era un fenomeno di dimensioni mondiali. Il problema dell’Ilva di Taranto, oggi, è invece un problema tipicamente italiano.
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<b>In che senso?</b>
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Qui oggi abbiamo un intervento giudiziale, di portata drammatica per una grande azienda e per la vita di decine di migliaia di persone, motivato da un danno ambientale che è sotto gli occhi di tutti e che, in un Paese civile, avrebbe dovuto essere oggetto di controllo in sede amministrativa molto prima che intervenisse un giudice penale.
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<b>Ma la Regione ha stipulato un accordo con l’impresa su questa materia.</b>
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Più d’uno, se è per questo. Senza però esercitare in modo rigoroso i propri poteri di controllo circa l’adempimento di quanto dovuto e di quanto concordato. Il problema è sempre quello: in Italia il ruolo dei giudici si dilata innaturalmente perché essi svolgono una funzione vicaria rispetto ad amministrazioni che funzionano poco e male. Anche questo intervento dei giudici, suscita qualche interrogativo.
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<b>Per quale aspetto?</b>
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Dal punto di vista delle emissioni nocive, la situazione dell’Ilva è oggi molto migliore rispetto a dieci e ancor più rispetto a venti anni fa. Se il reato c’è oggi, lo stesso reato c’era anche in tutti gli anni passati, e in misura più grave. Per spiegare un insieme di provvedimenti giudiziali così gravi e improvvisi, occorre pensare che i giudici abbiano scoperto qualche cosa di più: per esempio frode e corruzione.
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<b>Qui comunque l’alternativa di fondo è tra lavoro e salute. Cosa bisogna scegliere in questi casi?</b>
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Anche al netto della frode e della corruzione, l’impatto di un grande stabilimento siderurgico sulla salubrità di qualsiasi territorio non è mai positivo. Il problema è stabilire il grado di sacrificio della salubrità della zona che siamo disposti a sopportare, pur di avere il lavoro e il benessere.
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<b>E come si stabilisce, secondo lei il grado di sacrificio accettabile?</b>
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L’unico vantaggio che abbiamo per il fatto di essere un Paese un po’ più arretrato rispetto ai nostri partner europei sta nella possibilità di fare riferimento a quel che fanno loro. La cosa più sensata che possiamo fare è proporci di allineare l’impatto ambientale di uno stabilimento come l’Ilva a quello di stabilimenti analoghi in Germania o in Svezia.
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<b>E se il gap rispetto a quei Paesi è troppo grande per essere superato dall’oggi al domani?</b>
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Dobbiamo imporci un superamento graduale, ma il più possibile accelerato, di quel gap. Questo, però, è cosa di competenza di una amministrazione regionale o statale, non di un giudice penale.
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<b>Il tema della salute e dell’ambiente non dovrebbe essere il primo impegno di un sindacato?</b>
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Sulla protezione della salute non si possono accettare compromessi: ce lo vieta, oltretutto, il diritto europeo. Sulla protezione dell’ambiente, invece, qualche compromesso è inevitabile, a tutte le latitudini e longitudini. Nessuno stabilimento siderurgico può avere un impatto ambientale nullo. Ma il bilanciamento tra interessi economico ed ecologico non può essere affidato al giudice: questo è compito del governo centrale e locale.
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<b>Ieri l’Unità ha proposto un parallelo tra la scelta che devono affrontare oggi i lavoratori dell’Ilva di Taranto con quella che due anni fa hanno dovuto affrontare i lavoratori della Fiat di Pomigliano.</b>
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Non scherziamo. Dal punto di vista della protezione della salute e sicurezza delle persone, il nuovo stabilimento di Pomigliano costituisce un’eccellenza assoluta, a livello mondiale. Lì il referendum riguardava soltanto alcune marginali modifiche della disciplina contenuta nel contratto collettivo nazionale in materia di orario, di pause e di trattamento di malattia. Credo che tutti in Puglia oggi, compreso Niki Vendola, sarebbero felici se potessero sostituire lo stabilimento dell’Ilva con dieci stabilimenti come quello di Pomigliano!<br />
«Pronto per le primarie» - INTERVISTA2012-07-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it647270<br />
Il Pd deve fare chiarezza, l'agenda di Monti anche nel 2013.
<p> Montiani pronti ad andare all'attacco nel Pd. Anche a costo di presentare un proprio candidato da contrapporre a Pier Luigi Bersani. «Sì, potrei essere io il candidato», dice a Italia Oggi Pietro Ichino, giuslavorista, senatore, tra i firmatari di peso del documento-appello dei 15 parlamentari democratici che hanno fatto outing.
<p>Chiedendo al partito di fare chiarezza sul sostegno al governo tecnico e sul programma elettorale, che deve proseguire l'opera di risanamento dettata dall'agenda Monti. Perché non si dia più la sensazione, è il ragionamento, che sì, si sostiene Monti ma non si vede l'ora di disfare quanto sta facendo. E così sul documento dei 15, che sarà discusso nell'assemblea del 20 luglio, in realtà si gioca non solo il modus operandi di questa fine legislatura, ma la partita dell'identità stessa del Pd, che non hai mai risolto il problema della convivenza tra le sue diverse anime, tra ex popolari ed ex diessini, riformisti e conservatori, centro e sinistra.
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<b>Nel documento chiedete ai colleghi di partito di sostenere lealmente il governo tecnico, anzi di adottarne l'agenda anche dopo le elezioni del 2013. Quali sono i temi su cui ritiene che il Pd dovrebbe essere più compatto nel sostenere la linea Monti?</b>
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I temi cruciali sono tutti quelli indicati come tali nel discorso programmatico tenuto da Mario Monti in Senato il 17 novembre scorso. Rispetto ai quali le cose fatte dallo stesso suo governo presentano delle lacune e dei ritardi. Ma un conto è correggere i difetti, tutt'altro conto è disfare quello che si sta facendo e proporre scelte strategiche diverse.
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<b>Per esempio?</b>
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Per esempio rinunciare all'obbiettivo del pareggio strutturale di bilancio, oppure proporsi di tornare indietro rispetto alla riforma delle pensioni, o azzerare la riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nella legge Fornero. Oppure, più in generale, disfare la tela che Monti sta tessendo in Europa, basata essenzialmente su di una ritrovata credibilità dell'Italia come partner affidabile da parte degli altri maggiori Paesi dell'Unione.
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<b>Che riscontri avete avuto al vostro documento?</b>
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Un gran numero di messaggi di adesione, sia dall'interno del Pd, sia da parte di persone che hanno abbandonato il Pd negli ultimi tre anni. E anche qualcuno da parte di persone che hanno votato fin qui per il centrodestra, e che ora sono fortemente preoccupate dalla grave inaffidabilità del PdL sul terreno della «scommessa europea». Perché questo, oggi, in realtà, è il discrimine più importante della politica italiana: lo spartiacque che corre tra chi è convinto che valga la pena di impegnarsi nella scommessa europea delineata da Monti e chi non la ritiene necessaria, oppure è convinto che non la si possa vincere.
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<b>Lei è pronto a candidarsi alle primarie?</b>
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Potrebbe non essere necessario, se Bersani rispondesse positivamente e in modo convincente al nostro appello. Se invece questo non avvenisse, e se davvero fossi ritenuto io la persona più adatta per dare voce a questa vasta area politica che oggi stenta a farsi sentire, non mi sentirei in diritto di rifiutare soltanto per evitare un inevitabile drastico peggioramento della qualità della mia vita. Ma ci sono tante altre persone che potrebbero altrettanto bene, e forse anche meglio.
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<b>Per assicurare l'affidabilità dell'Italia anche dopo le elezioni del 2013, c'è chi pronostica un Monti bis. Cosa ne pensa?</b>
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Occorre vedere prima se Monti stesso sarà disponibile, o non sarà chiamato a incarichi ancora più alti, in Italia o in Europa. Certo, in questo momento lui è la persona che può meglio interpretare il ruolo da lui stesso disegnato per il nostro Paese nel suo progetto di costruzione europea. Ma quello che conta di più sono i contenuti essenziali della sua agenda; e costruire una maggioranza che si impegni in modo molto chiaro e netto a farne il proprio programma per i prossimi dieci anni.
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«Rischiano i dipendenti delle imprese più piccole» - INTERVISTA2011-09-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it608072<br />
«Non parlerei di attentato alla Costituzione, ma di scelta sbagliata, fatta contro la Cgil».
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<i>Pietro Ichino, giuslavorista e parlamentare Pd, da sempre un nemico giurato del dualismo nel mercato del lavoro provocato dall’articolo 18 tanto che per neutralizzarlo sostiene da anni la necessità di introdurre il “contratto unico”, ha molti dubbi sull’articolo 8.</i>
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<b>Cosa cambia, concretamente?</b>
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«La nuova versione approvata ieri dalla commissione Bilancio perfeziona per alcuni aspetti la formulazione originaria, ma la sostanza rimane quella: la riforma del diritto del lavoro viene delegata alla contrattazione aziendale».
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<b>Non si rischia una giungla contrattuale?</b>
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«Direi piuttosto che si rischia un aggravamento del dualismo, nel nostro tessuto produttivo, tra i lavoratori regolari delle aziende medio-grandi, per i quali presumibilmente non cambierà nulla, e i poco o per nulla protetti delle imprese più piccole, che rischieranno di perdere anche il poco che hanno».
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<b>Quali sono i limiti di intervento?</b>
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«Ora è stato esplicitato il limite dei principi costituzionali e dei vincoli internazionali ed europei. Ma gran parte del nostro diritto del lavoro non ne è coperto: per esempio l’articolo 18 dello Statuto, in materia di licenziamenti».
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È vero che l'articolo 18 muore?</b>
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«Non mi sembra probabile che nelle imprese medio-grandi le rappresentanze sindacali legate ai sindacati confederali saranno disposte a rinunciare a questa protezione. Questo potrà accadere più facilmente nell’area delle imprese più piccole, o comunque oggi non sindacalizzate. Per questo parlavo del rischio di un aggravamento del dualismo attuale del nostro tessuto produttivo».
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<b>Ma la Bce non ci chiede proprio il superamento del dualismo tra chi è protetto contro il licenziamento e i milioni di precari?</b>
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«Sì; e ci chiede anche, nell’area del lavoro regolare, il passaggio dalla vecchia tecnica protettiva, consistente nell’ingessatura del posto di lavoro, a una protezione nuova del lavoratore, costituita dalla garanzia economica e professionale nel mercato del lavoro. È evidente che la contrattazione aziendale, abbandonata completamente a se stessa, senza neppure qualche linea-guida, non è in grado di produrre una riforma di questo genere e di questa complessità».
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Secondo Susanna Camusso è un attentato alla Costituzione.</b>
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«Non parlerei tanto di attentato alla Costituzione, che è formalmente salvaguardata nella nuova formulazione della norma, quanto piuttosto di una scelta politica profondamente sbagliata: quella di delegare alla contrattazione aziendale una riforma che invece richiede un disegno organico e un legislatore che se ne assuma per intero la responsabilità».
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<b>Non è una sconfessione dell’accordo interconfederale di giugno?</b>
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«Sicuramente lo ignora, anzi sembra puntare a scardinarlo. Non è stato ancora ratificato dalla Cgil. Ora, in conseguenza di questo intervento legislativo, vedo il rischio che la ratifica possa saltare. Ma forse è proprio quello che Sacconi vuole».<br />
La linea "chiara" del Pd non è il "pensiero unico"2011-06-28T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it589448<br />
Caro Direttore, <br />
Federico Orlando vuole scrivere un pezzo sul tema "Perché l`intellighenzia critica il suo partito quando vince?" e decide di creare una lettera fittizia che gli dia l`occasione per scriverlo (Europa, 24 giugno).<br />
Niente di male. Senonché questa idea - dice ora Orlando (Europa, 25 giugno) - gli è venuta leggendo «le affermazioni di Ichino nella tavola rotonda con Fassina e Alleva sull`ultimo numero di Micromega», che poi ha confuso con l`editoriale di Ricolfi sulla Stampa. Ma come è possibile costruire una polemica sulla confusione
fra le 30 pagine di una tavola rotonda in tema di politica del lavoro pubblicate in una rivista mensile, con l`editoriale pubblicato in prima pagina da un quotidiano, dedicato a tutt`altro argomento (l`esito dei referendum)? La cosa più curiosa di tutte, poi, è che in quella tavola rotonda ora pubblicata da Micromega non esprimevo alcuna critica nei confronti del Partito democratico: perla precisione, né il Pd né alcun suo atto o documento è mai nominato, in alcuno dei tre interventi che ho svolto in quel dibattito. Mi limitavo a discutere molto pacatamente con il responsabile dell`Economia dello stesso Pd e con un giuslavorista molto vicino alla Cgil sul modo migliore per superare il dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. Che senso ha indicare nella mia partecipazione a quel dibattito la manifestazione di una «troppo frequente insoddisfazione di alcuni intellettuali verso il proprio partito»? O dobbiamo pensare che secondo Federico Orlando la disciplina di partito vietidi discutere le opinioni del responsabile dell`Economia del partito stesso?
<p>Per pura coincidenza venerdì scorso stavo partecipando alla Direzione del Pd, nel corso della quale, poco dopo aver letto su Europa la "risposta` di Federico Orlando all`immaginario lettore, ho sentito Cesare Damiano concludere il suo intervento con la stessa frase con la quale egli aveva commentato pochi giorni prima le conclusioni dell`Assemblea programmatica del Pd sul lavoro e le relazioni industriali: «C`è stato un dibattito aperto, ma ora sulla politica del lavoro il partito ha deciso la sua linea e tutti devono farla valere con una voce sola; non deve accadere che il giorno dopo leggiamo la solita intervista su di una linea diversa».
<p>Mi è parso di percepire, in questa conclusione dell`ex-ministro del Lavoro, il significato serio dell`intervento un po` sgangherato di Federico Orlando su Europa: basta con questi intellettuali saccenti e permanentemente insoddisfatti, il partito ha bisogno di più unità e più disciplina da parte di tutti! Ma nell`intervento di Orlando c`è qualche cosa di più rispetto a quello di Damiano: ora che il partito ha vinto le elezioni, viene meno il motivo del discutere. E un avvertimento implicito: comunque il partito, ora che ha vinto, ha anche la forza per far valere quella disciplina.
<p> Se è così, non posso che dissentire da questa istanza di Federico Orlando (e di Cesare Damiano): a norma dello statuto, oltre che di un elementare buon senso democratico, la disciplina di partito vincola soltanto nel momento del voto, non nel momento dello studio, dell`elaborazione e del dibattito, anche di quello che si svolge pubblicamente sulle pagine dei giornali.
<p>Sono convinto di quel che ho detto in apertura del mio intervento all`Assemblea di Genova: l`unità che rende forte il Partito democratico non è quella che nasce da un "pensiero unico", secondo il modello del partito monolitico del secolo scorso, ma è quella che nasce dalla volontà di stare insieme di persone con idee e retroterra culturali diversi.
<p>Il partito ha bisogno di una linea chiara, certo, ma anche di una attività di elaborazione e dibattito continuo, fonte di un patrimonio di idee e materiali programmatici che guardino anche al di là del politicamente possibile oggi, per costruire fin d`ora anche il politicamente possibile domani. Dell`utilità di questo patrimonio, del resto, proprio in materia di politica del lavoro abbiamo una prova evidente proprio in questi giorni: il partito dovrà pur aggiornare rapidamente il suo programma su questo terreno, dopo che le due parole d`ordine principali approvate dall`Assemblea di Genova due settimane fa - in materia di parificazione della contribuzione previdenziale e in materia di apprendistato - sono state immediatamente fatte proprie dal governo.
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Chi ha paura del modello tedesco ?2011-06-20T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it585181<br />
Caro Direttore, <br />
sono in molti ad attendersi che i giudici del <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=11C0YI"><b>lavoro</b></a>, cui la Fiom ha fatto ricorso contro gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori, decidano la sorte del contratto collettivo nazionale di lavoro e dei suoi rapporti con la contrattazione aziendale. Comunque vadano i giudizi, quelle attese andranno deluse. A Torino l’altro ieri il giudice ha avvertito le parti in causa che i contratti stipulati sono in sé legittimi: dunque produrranno i loro effetti quale che sia la sentenza, la quale verterà soltanto sul punto se ci sia stata o no una violazione procedurale ai danni della Fiom e quali debbano essere le procedure sindacali da seguire per l’attivazione dei nuovi stabilimenti.
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La questione della struttura della contrattazione collettiva devono dunque risolverla Confindustria e sindacati, che si incontrano domani per discuterne. E, se a quel tavolo non si arriverà a un grande accordo interconfederale sottoscritto da tutti – come riuscì a ottenere nel luglio 1993 il ministro del Lavoro Giugni, con un’opera di sapiente tessitura e cucitura – questa volta tutti concordano che debba essere il legislatore a sciogliere il nodo. <br />
Anche il protocollo firmato nel 1993 da tutti i sindacati, del resto, prevedeva la necessità di un intervento legislativo in materia di rappresentanza sindacale e di efficacia dei contratti collettivi di diverso livello.
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Se ne è discusso a Genova nei giorni scorsi, nell’assemblea programmatica del Pd, con la partecipazione anche dei segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e del direttore generale di Confindustria. Uno spettatore non esperto di politichese e di sindacalese avrebbe stentato a cogliere le differenze di orientamento negli interventi che si sono susseguiti su questo punto. Tutti – anche il rappresentante degli industriali ‑ hanno sottolineato l’irrinunciabilità del contratto collettivo nazionale. Per un motivo molto semplice e da tutti condiviso: due terzi dei lavoratori italiani non sono coperti dalla contrattazione aziendale.
<p>Se dunque non ci fosse il contratto nazionale, questi due terzi dei rapporti di lavoro resterebbero senza regole sulle materie riservate alla contrattazione collettiva (soprattutto retribuzione e inquadramento professionale).
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La questione cruciale – sulla quale però il dibattito e il documento conclusivo dell’assise di Genova sono stati molto vaghi ‑ è se, a quali condizioni ed entro quali limiti il contratto aziendale possa sostituire la disciplina contenuta in quello nazionale. È la questione che la vicenda Fiat ha posto bruscamente all’ordine del giorno delle relazioni industriali italiane, strappando la tela non soltanto del protocollo del 1993, ma anche dell’accordo del 2009 con cui Cisl, Uil e Confindustria, al costo di uno scontro durissimo con la Cgil, avevano molto timidamente aperto alcuni spazi di derogabilità del contratto nazionale.
<p>Se si toglie la Fiom, che si batte per il ripristino integrale del vecchio assetto della contrattazione collettiva, oggi l’opinione che va per la maggiore nelle organizzazioni sindacali, Cgil compresa, e nel Pd è che si debba andare in direzione di uno “snellimento” del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità, per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale. Senonché, se “snellimento” significa riduzione del contenuto del contratto, in tutta la vasta area dove la contrattazione aziendale ancora non riesce ad arrivare questo necessariamente riduce la protezione dei lavoratori.
<p>Logica vuole, dunque, che il contratto collettivo nazionale conservi la sua capacità di regolare compiutamente il lavoro in quella vasta area; ma questo implica che la contrattazione aziendale possa più largamente sostituire la disciplina nazionale. Quanto largamente? Molto.
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Nell’era della globalizzazione, il sindacato deve poter negoziare a 360 gradi su piani industriali anche fortemente innovativi in materia di organizzazione del lavoro, di struttura delle retribuzioni, di distribuzione dei tempi di lavoro. E deve poterlo fare in azienda; perché è al livello aziendale, non a quello di un intero settore, che l’innovazione si presenta nella fase iniziale della sua diffusione. È vero che non tutta l’innovazione è buona; ma se per paura di quella cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, il Paese continua a non crescere. E gli investimenti stranieri si fermano alle Alpi.
<p>Nella Germania che è stata per decenni la patria del modello della contrattazione centralizzata, da diversi anni si è introdotta la regola che consente al contratto aziendale di sostituire il contratto nazionale in parte o anche del tutto. Perché mai ciò che sta dando buona prova in Germania dovrebbe essere impraticabile in Italia?
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D’altra parte, sindacati e Confindustria possono benissimo accordarsi per mettere briglie più strette alla contrattazione aziendale. Ma non possono impedire a un imprenditore di tenersi fuori dal loro gioco. Se dunque essi vogliono evitare che la riforma della contrattazione la facciano di fatto le imprese non associandosi a Confindustria, faranno bene a guardare con più attenzione e meno chiusure mentali al modello tedesco.<br />
Per un cambio profondo necessario a Milano, domenica prossima voterò Pisapia sindaco.2011-05-09T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it560421<br />
Occorre un netto cambio della guardia a palazzo Marino, perchè la città di Agostino e Ambrogio, di Federigo Borromeo e Moisè Loira, di Manzoni e Gadda, torni ad essere la capitale dell'economia, della cultura, della solidarietà sociale e del senso civico.
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Milano ha bisogno urgente di un profondo cambio della guardia per riscoprire la propria antichissima vocazione di città moderna.
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La Milano di Pietro Verri e Cesare Beccaria, di Emilio Alessandrini, Guido Galli e Giorgio Ambrosoli, deve riscoprire la propria vocazione di capitale del diritto, della cultura delle regole, della trasparenza amministrativa, di quella civicness diffusa che tanto difetta nel nostro Paese, soprattutto al vertice. Di quelle civic attitudes che tanto difettano anche nell’amministrazione cittadina, a cominciare da una parte non trascurabile del suo Corpo dei Vigili urbani e dalle decine di dirigenti assunti tre anni e mezzo fa senza alcun criterio di competenza e senza neppure un accenno di fissazione di obiettivi specifici, misurabili e concretamente realizzabili, sui quali verificare la loro prestazione. Di questa cultura difetta evidentemente anche il Sindaco, che ha ammesso e mantenuto nella lista elettorale (dopo aver dichiarato pubblicamente e recisamente il contrario: “o lui o io!”) un candidato impegnato a ingiuriare e dileggiare pubblicamente la magistratura milanese. Come può Milano essere governata da chi qualifica i magistrati come terroristi, invitando la cittadinanza a disprezzarli?
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La Milano di Bonvesin della Riva, della Società Umanitaria (che fu il primo esempio in Europa di una modernissima agenzia del lavoro) e della Caritas Ambrosiana di don Virginio Colmegna deve riscoprire la propria vocazione a essere la capitale della solidarietà fattiva e intelligente nei confronti dei più deboli e poveri: quella vocazione che invece la Lega Nord, aspirante partito di maggioranza relativa in seno al centrodestra, quotidianamente irride e dichiara di voler seppellire.
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La Milano di Agostino e Ambrogio, di Carlo Borromeo e di Federigo con la sua Biblioteca Ambrosiana, di Carlo Porta e Alessandro Manzoni, di Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale, deve riscoprire la propria vocazione a essere una capitale della cultura italiana e mondiale: prima di tutto rilanciando l’attuazione del progetto operativo della Biblioteca Europea, già compiutamente predisposto da Antonio Padoa Schioppa, che potrebbe dare splendore e prestigio alla Milano di Expo 2015, ma è invece abbandonato dall’Amministrazione municipale, solo per un motivo di faziosità.
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La Milano di Maria Teresa, con le sue scuole normali organizzate dall’abate Francesco Soave (che furono il primo esempio in Italia di istruzione elementare gratuita e obbligatoria), di Carlo Cattaneo, di Moisè Loria con le sue scuole dei mestieri, deve riscoprire la propria vocazione di capitale dell’istruzione e della formazione professionale, voltando pagina rispetto a una troppo lunga stagione che ha visto città e Regione rimanere inerti di fronte al taglio dei fondi per gli insegnanti di sostegno, ha visto il patrimonio edilizio scolastico deteriorarsi oltre ogni limite, persino a rischio della sicurezza fisica di studenti e insegnanti, e ha visto il sistema milanese e lombardo della formazione professionale profondamente infiltrato dal malaffare e dalla frode ai danni del Fondo Sociale Europeo.
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La Milano di Leonardo da Vinci e di Carlo Cattaneo deve riscoprire la propria vocazione di capitale della cultura tecnica e industriale, voltando pagina rispetto ai tre anni di sperpero di denaro pubblico e di impressionante paralisi nel progetto per Expo 2015; deve riscoprire la cultura ambrosiana del pragmatismo e del “fare” concreto, che nell’ultimo decennio è stata sostituita dalla politica del (solo) annuncio.
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La Milano di Giuseppe Mengoni, Marco Zanuso, Pier Luigi Nervi, Gio Ponti e Gio Pomodoro deve riscoprire la propria vocazione di capitale dell’urbanistica, dell’architettura civile e dell’arredo urbano, che negli ultimi anni sembra essersi rovinosamente persa in una città ferita da troppi mega-cantieri senza capo né coda, come quello che deturpa la basilica di S. Ambrogio, avviato contro tutto e contro tutti e poi fermo da anni; come quello della Darsena nel cuore della città, fermo esso pure da anni e divenuto foresta di erbacce e nido di pantegane; come quello di City Life sull’area della vecchia Fiera, dove la furia cementificatrice è stata bloccata soltanto dalla cattiva programmazione finanziaria del progetto; come quello dei box di piazza Bernini, per il quale sono stati abbattuti alberi secolari, anch’esso bloccato da tempo. Una città il cui degrado civile e amministrativo è simboleggiato dai monumenti, dalle lapidi, dalle vetrine e ogni altra superficie capillarmente deturpate dai graffiti.
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Per questo cambio profondo di prospettiva, e per il corrispondente cambio della guardia necessario a Palazzo Marino, domenica prossima voterò Giuliano Pisapia sindaco e Stefano Boeri per il Consiglio comunale. <br />
E invito i milanesi che su questi temi la pensano come me a fare altrettanto.<br />
La libertà non si trova allo stato di natura2011-02-28T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558628<br />Deporre un tiranno, come sta accadendo nei Paesi dell'Africa mediterranea, è molto più facile che dar vita ad una democrazia fondata su di una vera divisione dei poteri e ad un'economia concorrenziale.<br />
Tutti, giustamente, esultano per il travolgente movimento di popoli che nel nord-Africa ha abbattuto due regimi autoritari e ne sta abbattendo un terzo, sempre in nome della libertà. Quasi tutti, però, dimenticano un fastidioso particolare: la libertà non si trova allo stato di natura. Un regime di vera libertà culturale, divisione dei poteri politici e concorrenza in economia è quanto di più artificiale esista al mondo: richiede un know-how sofisticatissimo e non facilmente trasferibile. Per questo, purtroppo, la caduta di un despota è una buona notizia soltanto a metà.<br />
Il discorso vale anche, se del caso, sulla sponda opposta del Mediterraneo.<br />
La resa incondizionata del ministro Brunetta2011-02-07T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557876<br />
Caro Direttore, venerdì scorso il governo ha firmato con Cisl, Uil e Ugl una Intesa che sostanzialmente azzera la riforma Brunetta delle amministrazioni. Se nell’estate scorsa Tremonti aveva abolito la “carota” prevista in quella riforma, cioè i premi per i dipendenti pubblici più meritevoli, ora questa Intesa abolisce il “bastone”: in sostanza garantisce che a nessuno, per quanto inefficiente, verrà tolto un solo euro del “salario accessorio” percepito nel 2010. Per spiegare il contenuto effettivo di questo accordo, ne propongo una traduzione dal buro-sindacalese in italiano.
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<b>Intesa 4 febbraio 2011: Fermi tutti, abbiamo scherzato!</b>
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<b>1.</b> - Le Parti, sostituendo questo accordo agli atti di un legislatore velleitario e di un Governo inconcludente, si danno reciprocamente atto che la riforma delle amministrazioni pubbliche recata dal decreto legislativo n. 150/2009 deve considerarsi come mai emanata. In particolare, ogni funzione di valutazione della performance delle amministrazioni attribuita a organi indipendenti deve intendersi avocata a sé dalle Parti stesse, nello spirito del Memorandum Governo-sindacati 23 gennaio 2007. Tutte le invettive pronunciate dal ministro Brunetta contro il detto Memorandum nel corso degli ultimi due anni e mezzo devono intendersi revocate, con formali scuse all’ex-ministro Nicolais.
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<b>2.</b> - Le parti convengono, in particolare, che deve considerarsi abrogato l’articolo 19 del <a href="http://www.innovazionepa.gov.it/media/155296/testo_del_decreto_150_del_27ottobre09.pdf"><b>decreto legislativo n. 150/2009</b></a><b>:</b> conseguentemente, in tutte le circolari e documenti emanati dal settembre 2009 in poi dal ministero della Funzione pubblica, la frase “mai più un solo centesimo di salario accessorio verrà erogato al dipendente inefficiente” e ogni frase che dica una cosa simile devono intendersi sostituite dalla seguente: “il ministro riconosce di essere incapace di differenziare il trattamento dei dipendenti pubblici in base alla rispettiva performance individuale e pertanto garantisce a ciascuno di essi che, anche se lavorerà malissimo e qualunque nefandezza commetta, non potrà percepire meno di quanto ha percepito nel 2010, a titolo sia di stipendio sia di cosiddetto ’salario accessorio’”. Siamo tutti bravi, altro che fannulloni!
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<b>3.</b> - Al ministro della Funzione pubblica sarà ancora consentito – purché soltanto per ragioni propagandistiche – sostenere nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, o nelle interviste a quotidiani e settimanali, che al 25% di dipendenti più meritevoli verranno destinati premi finanziati con le “risorse aggiuntive”. Le Parti, tuttavia, si danno reciprocamente atto che, stanti i vincoli posti con il d.lgs. n. 78/2010 (i “tagli lineari” del ministro Tremonti per la “stabilizzazione finanziaria”), nessuna amministrazione potrà incrementare il fondo del salario accessorio con risorse aggiuntive; conseguentemente è garantito il ritorno a un trattamento rigorosamente egualitario, secondo la buona prassi consolidata prima del decreto n. 150/2009.
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<b>4.</b> - Le Parti convengono che devono considerarsi abrogate tutte le disposizioni nelle quali compaia il riferimento a organi indipendenti di valutazione della performance delle amministrazioni: ritorna in vigore la disposizione contenuta nel Memorandum Governo-sindacati 23 gennaio 2007, che prevedeva l’affidamento della funzione di valutazione a commissioni paritetiche, costituite da rappresentanti delle amministrazioni oggetto di controllo e da rappresentanti sindacali dei dipendenti delle amministrazioni medesime.
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<b>5.</b> - Il Governo s’impegna a impartire all’Aran entro 15 giorni istruzioni affinché l’Agenzia stessa adegui il proprio operato alle disposizioni della presente Intesa e, in particolare, adegui i contenuti della contrattazione collettiva di livello nazionale ai criteri che hanno ispirato la contrattazione integrativa in tutto il periodo precedente al decreto n. 150/2009. Il ministro della Funzione pubblica ritira tutte le critiche ingiustamente rivolte a quella felice stagione della contrattazione collettiva del settore pubblico e si impegna, in generale, a non parlar più del sindacato del settore dell’impiego pubblico, se non in termini elogiativi.
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Dichiarazione a verbale</i> – La Cgil-Funzione pubblica si astiene dal sottoscrivere la presente Intesa non perché sottovaluti il positivo rilievo dell’azzeramento delle perniciose velleità del ministro Brunetta in materia di valutazione della performance di struttura e individuale, ma perché dissente dalla sostanziale assoluzione che con l’Intesa stessa gli viene accordata dalle Organizzazioni sindacali firmatarie: compito di ogni sindacato degno di questo nome è battersi fino all’ultimo sangue contro tutti i Governi di centrodestra e rifiutare di contribuire a qualsiasi accordo con essi, quale che ne sia il contenuto.
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Sulla Fiat e sul Pd. «Rompiamo con i tabù del lavoro» - INTERVISTA2011-01-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557513<br />
<b>Lei ha detto che il vero problema del caso Fiat sono i mancati investimenti stranieri diretti. Ma è solo il nostro diritto del lavoro la causa del mancato arrivo?</b>
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No: le cause sono molte e di vario genere: in particolare, il difetto di efficienza delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, l’alto costo dei servizi alle imprese dovuto a difetto di concorrenza nei rispettivi mercati, la mancanza di una cultura della legalità diffusa. Ma tra le cause della chiusura del nostro Paese agli investimenti stranieri c’è anche la vischiosità e inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali. E io ci aggiungo l’ipertrofia, la complicatezza e la non traducibilità in inglese della nostra legislazione di fonte nazionale in materia di rapporto di lavoro.
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<b>A sinistra è forte l’opinione sui contratti Fiat che infrangono la legge ed addirittura la Costituzione.</b>
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La vera questione non sta in un contrasto tra quei contratti e il nostro ordinamento: la vera questione sta nel fatto che essi derogano al contratto collettivo nazionale. Questo è il vero tabù che è stato violato.
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<b>Perché lei è radicalmente contrario a chi sostiene la tesi della sostanziale intangibilità del CCNL?</b>
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“Radicalmente” è forse un avverbio eccessivo. Ma mi sembra che chi sostiene quella tesi confonda il ruolo del contratto collettivo con quello della legge. Solo la legge ha la funzione di sancire diritti tendenzialmente stabili nel tempo e uguali per tutti; il contratto, invece, serve proprio per consentire una modulazione del regolamento in esso contenuto, in relazione alle circostanze e ad equilibri di interessi che mutano nel tempo.
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<b>Il dibattito sul contratto Fiat mostra l’arretratezza delle relazioni industriali del nostro Paese. Bisogna dare più autonomia alle parti sociali o nuove regole legislative?</b>
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Occorrono entrambe le cose. L’autonomia contrattuale ha bisogno, per potersi espandere al massimo, di una buona cornice di regole semplici, non intrusive e stabili nel tempo.
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<b>Il caso Fiom Fiat ha mostrato un posizionamento incerto della nuova segretaria Camusso, prima distaccatasi dalla Fiom, poi invece l’ha seguita.</b>
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Probabilmente c’è un po’ di tattica in questo comportamento. Ma, conoscendo Susanna Camusso da trent’anni, non dispero che riesca a tirare fuori la Cgil dal vicolo cieco in cui si è cacciata.
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<b>Da tesserato Cgil lei pensa che la sua organizzazione possa esprimere una maggioranza riformista?</b>
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Certo che sì! Una larga maggioranza degli iscritti percepisce la necessità di uno svecchiamento della cultura sindacale e industriale della Cgil.
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<b>Si sente isolato nella sua battaglia politico culturale di innovare il centrosinistra lavoro? Ha notato un progresso o un arretramento dalla sua discesa in campo in politica, a partire dalla mancata attenzione ai veri scandali del mondo del lavoro, finte partite Iva in testa?</b>
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Isolato proprio no: i miei due disegni di legge più importanti, quelli per il nuovo Codice del lavoro semplificato, sono stati firmati dalla maggioranza dei senatori del Pd e sono stati fatti propri dal Movimento Democratico di Veltroni. Il 10 novembre scorso, poi, il Senato ha votato a larghissima maggioranza una mozione che impegna il Governo a varare un nuovo Codice del lavoro semplificato modellato proprio sul <a href="http://www.pietroichino.it/?p=4896"><b>disegno di legge n. 1873</b></a>. E sono quotidianamente assediato dai giornalisti che mi chiedono interviste, mediamente una al giorno; e dalle federazioni e i circoli del Pd di tutta Italia che mi chiedono di organizzare incontri pubblici con me: dall’inizio della legislatura ne ho fatti quasi trecento. Tre anni fa, quando accettai la candidatura al Senato, non speravo certo di arrivare a tanto in così breve tempo.
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<b>Lei è tra le personalità più prestigiose candidate da Veltroni nel 2008. Da allora è cambiato molto, e parecchie persone hanno abbandonato il PD. Come valuta la segreteria Bersani, troppo poco riformista secondo lei come sostengono alcuni dei suoi critici?</b>
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Il Pd ha difficoltà a esprimere scelte chiare e nette sulle questioni cruciali: c’è indubbiamente, per questo aspetto, un difetto di leadership, che però non è certo imputabile soltanto a Bersani. D’alta parte, dobbiamo anche abituarci all’idea di un grande partito nel quale convivono molte anime, molte componenti. E poi è ancora un partito molto giovane, che deve ancora farsi un po’ le ossa ed esprimere un nuovo gruppo dirigente. Certo, sarebbe stato meglio che questo processo di maturazione fosse stato più rapido. Ma l’impazienza, in politica, è cattiva consigliera.
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<b>Vendola ha parlato di schiavismo riferendosi a Marchionne. Un’alleanza con il suo partito è compatibile con un centrosinistra riformista?</b>
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Un grande partito di centrosinistra “a vocazione maggioritaria”, quale il Pd vuole e deve essere, deve essere capace di ospitare al suo interno anche minoranze di sinistra che la pensano come Vendola. Ma se quel modo di pensare diventasse in qualche modo dominante nel partito, vorrebbe dire che la vocazione maggioritaria è stata sostituita da una vocazione minoritaria.
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<b>Le elezioni potrebbero essere a breve. Quali sono le sue priorità programmatiche per il programma del Pd?</b>
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I <a href="http://www.pietroichino.it/?p=12350">cinque punti enunciati da Veltroni</a> al Lingotto sabato scorso:<br />
abbattimento del debito dal 120 all’80 per cento del Pil in cinque anni; nuove relazioni industriali per favorire la scommessa comune di lavoratori e imprenditori sui piani industriali innovativi e l’apertura del nostro Paese agli investimenti stranieri; flexsecurity contro l’apartheid nel mercato del lavoro; detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile per produrre uno shock positivo sul tasso di occupazione femminile e un fisco più friendly verso il lavoro autonomo di nuova generazione; investimenti su istruzione, ricerca e bellezza del Paese.<br />
Fiat. L'errore di restare fermi. La svolta necessaria a Mirafiori.2010-12-30T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549311<br />
Caro Direttore, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri sollecita una risposta chiara da parte del Partito Democratico a questa domanda: sul terreno delle riforme di cui il Paese ha urgente bisogno, da che parte sta la vostra opposizione all’azione del governo, in avanti o all’indietro? Panebianco indica diverse materie sulle quali la risposta deve essere puntuale, netta e concreta; una di queste è la materia del lavoro e delle relazioni industriali, nella quale la vicenda Fiat sta portando a una svolta epocale.
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Nello stesso giorno, su Repubblica due editoriali – quello di Stefano Rodotà e quello di Tito Boeri – sembrano dare, proprio in riferimento alla vicenda Fiat, due risposte di segno opposto: Rodotà denuncia l’accordo di Mirafiori come un “ritorno al Medioevo” delle relazioni industriali, Boeri denuncia l’inerzia del governo e del legislatore nel porre le regole necessarie perché non solo l’accordo di Mirafiori, ma cento altri analoghi possano consentire l’afflusso di quegli investimenti e di quei piani industriali innovativi ai quali il nostro Paese è oggi drammaticamente chiuso. Su questa materia, la domanda di Panebianco può tradursi così: il Pd sta con Rodotà o con Boeri?
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Non ho titolo per rispondere a nome dell’intero Pd (al cui segretario, comunque, tutti abbiamo titolo per chiedere una risposta molto più chiara di quella data finora su questo punto). Posso farlo, però, almeno a nome di quella larga parte dello stesso partito che si riconosce nel progetto di riforma del diritto sindacale contenuto nel disegno di legge n. 1872, presentato l’anno scorso da 55 senatori democratici. Quel progetto – che i lettori del Corriere ben conoscono – muove dalle stesse considerazioni proposte ieri da Tito Boeri. Tra le cause principali della chiusura del nostro Paese agli investimenti delle multinazionali sta anche, insieme ad altre cause strutturali e a una legislazione sul rapporto di lavoro complicatissima e intraducibile in inglese, l’inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali: un sistema nel quale non è chiaro chi abbia il potere di contrattare un piano industriale innovativo con effetti vincolanti per tutti i lavoratori interessati; e le minoranze sindacali hanno di fatto un potere di veto sulle scelte compiute dalle coalizioni maggioritarie. Occorre dunque dotare il Paese di regole semplici capaci di rispondere positivamente alle questioni poste dalla “sfida” di Marchionne, conciliando l’effettività del contratto con il pluralismo sindacale.
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Il progetto delinea un assetto nel quale il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi a tutte le aziende del settore, ma soltanto se non vi sia un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza dei consensi nell’impresa interessata. Contiene poi una definizione precisa dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati; sancisce il potere della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare il piano industriale a 360 gradi, compresa la clausola di tregua che impegna a non scioperare contro il contratto stesso, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti dell’azienda. Alla minoranza sindacale, a cui in questo modo viene tolto il potere di veto, viene però garantito il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando non abbia firmato il contratto: ciò che la legge oggi vigente non garantisce.
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Certo, sarebbe molto meglio se queste regole potessero essere fatte oggetto di un accordo interconfederale firmato da tutte le confederazioni maggiori. Ma questa prospettiva è purtroppo assai lontana: c’è pieno consenso, infatti, tra Cgil Cisl e Uil sui criteri per la misurazione della rappresentatività nei luoghi di lavoro, ma – come rileva il segretario della Uil Angeletti sulla Stampa di ieri – il consenso non c’è sul collegamento necessario tra rappresentatività e potere di contrattare in azienda, anche in deroga al contratto nazionale. <br />
Inoltre la Cisl teme che una riforma legislativa di questo genere irrigidisca, invece che fluidificare, il nostro sistema delle relazioni industriali, impedendo la contrattazione a chi si trova a essere minoranza (ma la nuova norma non impedirebbe a nessuno la stipulazione, a qualsiasi livello, di contratti che aumentino gli standard di trattamento; si limiterebbe a consentire, regolandolo, ciò che oggi in Italia non può fare nessuno in condizioni di sufficiente certezza del diritto: cioè stipulare contratti che deroghino al contratto nazionale).
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Il peggio che possiamo fare è stare fermi: il difetto delle regole necessarie rischia non soltanto di essere pericoloso per il principio del pluralismo sindacale, ma anche di essere paralizzante per progetti ambiziosi – e preziosi per il Paese – come quello della “Fabbrica Italia” di Marchionne.<br />
«Basta con i veti delle minoranze nelle fabbriche» - INTERVISTA2010-12-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549013<br />
«Sergio Marchionne - dice subito Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro alla Statale di Milano e senatore del Pd, uno dei massimi esperti del diritto del lavoro e delle relazioni industriali - ha ragione quando chiede che il contratto aziendale sia una cosa seria. Per questo occorre una regola che sancisca il potere della coalizione sindacale maggioritaria di stipulare un accordo con efficacia davvero vincolante per l’impresa e per tutti i dipendenti; compresa la clausola di tregua (ovvero l’impegno a non scioperare contro l’accordo stesso, ndr)».
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<b>È la sintesi, contestuale a quanto sta accadendo in questi giorni dopo l’accordo raggiunto su Mirafiori da Fiat e sindacati, Fiom esclusa, di un suo disegno di legge.</b>
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«Sì: il disegno di legge numero 1872, che ho presentato l’anno scorso, con altri 54 senatori. Ma il progetto risale al mio libro del 2005 A che cosa serve il sindacato, dove quello che sta accadendo in questi giorni è previsto con una certa previsione e spiegato».
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<b>La Fiom, intanto, è rimasta fuori e si prepara ad affrontare il 2011 in una posizione di isolamento, con tutti i rischi che questo può comportare.</b>
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«Quel progetto servirebbe a far sì che la Fiom rimanga dentro il “sistema costituzionale” delle relazioni industriali, anche se non ha firmato l’accordo. Conviene anche alla Fiat che essa abbia i propri rappresentanti sindacali in azienda e non diventi un “super-Cobas”.
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<b>E come si ottiene questo risultato?</b>
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«Occorre una regola che, come è previsto nello stesso disegno di legge numero 1872, attribuisca anche al sindacato minoritario il diritto alla rappresentanza, in proporzione ai consensi ricevuti in un’elezione triennale. Quello che non va riconosciuto al sindacato minoritario è il potere di veto di cui esso dispone nel nostro sistema attuale di relazioni industriali, che proprio per questo è obsoleto e inconcludente».
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<b>L’accordo di Mirafiori, come già quello di Pomigliano, è accusato di violare i diritti fondamentali dei lavoratori…</b>
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«La Fiom ha torto, e con essa hanno torto Sergio Cofferati e Luciano Gallino (<a href="http://www.openpolis.it/dichiarazione/548997"><b>Repubblica del 24 dicembre</b></a>, ndr), quando confondono le regole contenute nel Contratto collettivo nazionale con i “diritti fondamentali dei lavoratori”. La Cgil fece già questo errore nei primi anni ‘50 e subì una durissima sconfitta, proprio nelle elezioni della Commissione interna della Fiat, nel 1955; sembra che oggi se ne sia del tutto dimenticata. Fiom, Cofferati e Gallino sbagliano, sul piano tecnico-giuridico, anche quando denunciano l’illegalità, addirittura l’incostituzionalità, dell’accordo di Mirafiori nella parte in cui esso nega alla Fiom il diritto di costituire una sua rappresentanza sindacale riconosciuta in seno all’azienda».
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<b>Entriamo nel dettaglio.</b>
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«L’accordo applica alla lettera quanto è previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995 (ha diritto a costituire la Rsa solo il sindacato che ha firmato almeno un contratto collettivo applicato nell’azienda). E la Corte costituzionale ha più volte dichiarato la piena compatibilità di questa norma, anche così modificata, con il principio di libertà sindacale sancito dall’articolo 39 della Carta».
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<b>Relazioni industriali più «americane», con meno pluralismo sindacale in azienda?</b>
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«È così: l’articolo 19 dello Statuto, come è stato modificato dal referendum del 1995, è più vicino alla cultura delle relazioni industriali statunitense che a quella italiana, fortemente legata al principio del pluralismo sindacale. Se fino a ieri l’opinione pubblica non se n’era accorta è solo perché, di fatto, si è continuato ad applicare la norma sulle rappresentanze unitarie contenuta nel protocollo Ciampi del 1993; e nessuna grande multinazionale è venuta a chiedere una stretta applicazione della norma del 1995, con la medesima ruvida fermezza con cui lo ha fatto Marchionne».
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<b>A questo punto, come se ne esce?</b>
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«Resto convinto che sia possibile e utile per tutti, a cominciare da Confindustria e dalla Fiat, riscrivere questa norma in modo da conciliare la nostra tradizione di pluralismo sindacale con l’esigenza di togliere il potere di veto alle minoranze e di aprire il sistema agli investimenti stranieri e ai piani industriali innovativi».
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<b>La Cgil ha comunque sempre opposto un muro.</b>
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«A chi aveva avvertito la necessità di una profonda riforma del diritto sindacale italiano la Cgil finora ha sempre risposto difendendo recisamente lo status quo: “Non si deve toccare nulla, per non mettersi su di un piano inclinato: altrimenti, si sa dove si incomincia, ma non si sa dove si va a finire”».
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<b>E così si è arrivati allo strappo.</b>
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«Anche il contratto collettivo nazionale non lo si doveva toccare: infatti quello dei metalmeccanici è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso dal 1972. Ora tutti vedono a che cosa ha portato quella difesa a oltranza dell’intangibilità del contratto collettivo nazionale».
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<b>Adesso che cosa accadrà nella parte restante del nostro tessuto produttivo?</b>
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«Come prevedevo nel mio libro di cinque anni fa, il contratto collettivo nazionale conserverà un suo ruolo insostituibile, ma solo come “rete di sicurezza”, cioè come disciplina applicabile dove manchi un contratto aziendale, stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria. Questo è quello che propongo nel mio disegno di legge; ma mi sembra che le cose si stiano muovendo da sole in questa direzione».<br />