Openpolis - LE ULTIME DICHIARAZIONI DI Ramon MANTOVANIhttps://www.openpolis.it/2011-03-23T00:00:00ZL'Onu e la guerra2011-03-23T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it559238<br />
Mi riconosco completamente nelle posizioni espresse negli articoli di fondo e di commento pubblicati nelle ultime settimane su Liberazione circa la vicenda libica. Non ripeterò, quindi, i giudizi articolati sui diversi regimi investiti dalle rivolte popolari. Come non ribadirò il senso delle diverse motivazioni che militano contro l'intervento militare guerrafondaio in corso in Libia. Mi interessa, invece, mettere in evidenza un punto controverso (forse il più controverso) della questione pace-guerra oggi. Si tratta della presunta legittimazione dell'Onu a consentire intraprese militari, del tutto assimilabili alla guerra, ancorché condotte con i moderni strumenti militari che permettono alle potenze occidentali di condurre la guerra dal cielo senza subire perdite, e trasformando una delle fazioni in lotta nelle proprie truppe di terra. <br />
Non c'è telegiornale o talk show, non c'è pensoso commentatore ed "esperto di politica internazionale" o di "politica militare", tranne qualche mosca bianca generalmente censurata, che dica o scriva che le Nazioni Unite hanno autorizzato..., hanno legittimato…, hanno deciso…, e così via.
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Come qualcuno dovrebbe pur ricordare, la guerra contro la Repubblica Federale Yugolslava del '99 non fu nemmeno discussa in sede di Consiglio di Sicurezza Onu e l'allora Segretario Generale lamentò di non essere nemmeno stato informato dell'inizio dei bombardamenti. Fu, invece, il G7 allargato alla Russia a decidere, pur essendo un puro incontro informale non retto da alcun trattato internazionale, la fine del conflitto. Come qualcuno dovrebbe ricordare, sul precedente conflitto bosniaco l'Onu esercitò la propria funzione predisponendo una missione militare d'interposizione allo scopo di impedire la continuazione del conflitto armato. Peccato che, non disponendo di propri strumenti militari, per altro previsti fin dal 1945 nell'articolo 43 dello Statuto, ma mai organizzati a causa della guerra fredda, dovette ricorrere al buon cuore di paesi volontari ed organizzò una forza di circa 5000 unità invece delle 60.000 considerate necessarie. Così i baschi blu dell'Onu nulla poterono contro le diverse pulizie etniche fino all'intervento della Nato, che venne fatto esattamente dai paesi che si erano rifiutati di mettere a disposizione dell'Onu le truppe necessarie affinché la missione di interposizione avesse successo. Senza ricordare questi due precedenti è difficile capire cosa stia succedendo oggi in Libia, giacché si tratta di un caso analogo a quello della Repubblica Federale Yogoslava. Analogo perché si tratta di un paese membro dell'Onu, dilaniato da una guerra civile interna. L'analogia, però, finisce qui. Anche se distingue inequivocabilmente questa fattispecie di casi da quelli dell'Afghanistan e dell'Iraq.
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Lasciamo perdere i "motivi umanitari" ai quali credono solo gli ipocriti e cinici complici degli obiettivi neocoloniali conclamati delle potenze occidentali. Stiamo sul punto della funzione dell'Onu e sulla sua presunta facoltà di legittimare e autorizzare intraprese militari di parte.
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Di fronte alle tragedie umanitarie prodotte da un conflitto armato che sia in grado di minacciare la pace a livello internazionale, senza entrare nello specifico della situazione libica, cosa dovrebbe fare l'Onu?
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In più articoli dello Statuto si parla chiarissimo. Non ho qui lo spazio per citare lo Statuto (ne consiglio però una ri-lettura periodica come per la Costituzione Italiana). Ma non temo smentite se affermo che è improntato alla soluzione negoziale e diplomatica di ogni conflitto, all'idea di riduzione drastica degli apparati e delle spese militari ed alla ricerca di soluzioni collettive e concordate dei conflitti. Ovviamente lo Statuto prevede anche interventi militari, ma solo nel caso falliscano tutte le azioni non militari (previste negli articoli 40 e 41).
Chiunque può giudicare se l'Onu abbia o meno esperito tutti i tentativi che il suo statuto prevede per mettere fine ad un conflitto nel caso della Libia. Eppure ci sono state proposte per esercitare una funzione di mediazione, proposte per avviare un negoziato. Tutte volutamente ignorate sia dai ribelli anti-Gheddafi sia dalle potenze occidentali. E fin qui è normale e sembra la copia esatta della vicenda kosovara. Ma sono state ignorate anche dal Segretario Generale dell'Onu! Che però, per questo, è venuto meno ad un suo preciso compito statutario. A nulla vale dire che bombardare una parte in lotta in una guerra civile è una azione in difesa dei civili, come ha fatto Ban Ki-moon. È un grottesco aggiramento e svuotamento dello Statuto dell'Onu.
In altre parole la risoluzione del Consiglio di Sicurezza è illegittima, ed anche ove la colpevole astensione di Cina e Russia, che solo ora sembrano accorgersi della vera natura guerrafondaia della risoluzione (sic), lo abbia reso apparentemente legittimo, è più che criticabile. E non giustifica in nessun modo l'atteggiamento di chi, governo od opposizione che sia, vorrebbe venderlo come oro colato. <br />
Ma c'è di più. <br />
Anche questa vicenda dimostra che è assurdo, sempre che i principi e il diritto internazionale abbiano un valore, che dopo ventidue anni dalla fine della guerra fredda l'ONU non disponga di una propria forza militare permanente per esercitare la funzione di polizia internazionale, come previsto dall'articolo 43 del suo Statuto.
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Rimanendo nel regime "transitorio" per cui il Consiglio di Sicurezza deve "autorizzare" missioni di paesi "volonterosi", spiegato se non giustificato dall'equilibrio della guerra fredda, si codifica e cristallizza il monopolio occidentale (leggi soprattutto Nato) dell'uso della forza militare.
Mi si scuserà la sommarietà del paragone, ma è come dire che uno stato emana leggi ma non avendo una polizia ai propri ordini, deve affidarsi alle polizie private dei più potenti cittadini, per farle rispettare. Ci saranno leggi per cui si troverà la polizia ed altre che rimarranno inapplicate per mancanza della forza necessaria. Ed è esattamente ciò che succede nel mondo.
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Tutti quelli che si dichiarano difensori dei diritti umani, preoccupati per le crisi umanitarie, desiderosi di promuovere la democrazia in ogni dove, e che fanno finta di non sapere queste cose o, peggio ancora, le ignorano, accettando l'idea che lo Statuto dell'ONU sia una variabile dipendente dagli interessi dei paesi più armati e più potenti non è solo ipocrita. È complice e servo della dittatura "occidentale" che trascina il mondo nella catastrofe e che uccide lentamente le Nazioni Unite riducendole sempre più a "notaio" delle proprie decisioni.<br />
Lacrimogeni e lacrime di coccodrillo2010-12-18T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558147Il 14 dicembre è stato una data cruciale. Un vero incrocio dove si sono incontrate diverse cose nello stesso momento. Come in un appuntamento in parte cercato e in parte casuale. Solo in circostanze simili possono avvenire certe cose.
Intanto vediamo cosa si è incontrato e scontrato per le vie di Roma.
Da un lato un movimento studentesco, con rappresentanze di operai della FIOM e dei comitati di lotta territoriali. Dall’altro il potere nel giorno del voto che avrebbe potuto vedere la defenestrazione del governo Berlusconi. Da un lato i mass media dentro il palazzo e alla manifestazione e dall’altro l’opinione pubblica curiosa di vedere come sarebbe andata a finire dentro il palazzo e disinformata sulla manifestazione.
Fin qui quasi nulla di nuovo. Se parliamo di “cosa” c’era all’appuntamento di Roma.
Ma vediamo bene “chi” c’era all’appuntamento.
Il movimento studentesco (che comprende anche una intera generazione di ricercatori precarizzati e neodisoccupati) è ben diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Figuriamoci da quello degli anni 70. È un movimento figlio della precarietà, che ha capito che la precarietà è un dato strutturale e fondante il modello sociale vigente e non un “sacrificio” parziale, momentaneo e necessario a rilanciare un modello includente. È un movimento che deve difendere sull’ultima trincea ciò che resta della scuola pubblica. Che sa che sull’ultima trincea si vince o si muore. Per due motivi: il primo è che già molto è stato perso nel tempo in cui i diversi governi, a cominciare dal centrosinistra con Berlinguer ministro, hanno a spizzichi e bocconi eroso non solo cose secondarie ma il cuore stesso della natura pubblica dell’istruzione e il principio dell’indipendenza della ricerca culturale dal mero mercato e dagli interessi immediati del sistema delle imprese capitalistiche. Il secondo è la consapevolezza che non sono le “necessità di bilancio” ad ispirare la “riforma” Gelmini, bensì il disegno preciso di rendere coerente il sistema formativo con il mercato del lavoro deregolamentato e con il modello Marchionne delle relazioni sindacali e dei rapporti di forza sociali.
Questa è l’ultima trincea perché dietro non ce n’è un’altra da cui condurre la stessa battaglia.
In altre parole c’è la consapevolezza che siamo ad un passaggio di civiltà. Dalla società dei diritti (esigibili e/o teorici) alla società del mercato e degli individui subordinati al comando del mercato e perciò competitivi fra loro.
Ovviamente questa consapevolezza, come in qualsiasi movimento, ha diversi gradi di approssimazione alla vera e propria coscienza. Si presenta come “intuizione”. È spesso mediata e filtrata da “categorie” analitiche diverse tra loro. E’ anche distorta, ma ci ritorneremo, da un rapporto bastardo con la “politica” e con la rappresentazione che i mass media danno del problema.
Ma c’è. Come si può vedere in un nuovo tipo di unità fra gli studenti e gli operai. Nei collegamenti solidali con tante lotte ambientali e sociali. Perché la trincea, rappresentata dal contratto nazionale e dalla difesa dei diritti costituzionali in fabbrica, su cui combatte la FIOM è anch’essa un’ultima trincea, oltre la quale tutto sarà diverso e peggiore di prima, ma soprattutto diverso. Perché il territorio abitato da comunità che difendono il diritto alla salute è anch’esso un’ultima trincea. O è a disposizione di speculazioni e operazioni “imprenditoriali” nocive, legali o illegali fa esattamente lo stesso, senza l’impaccio dei diritti dei cittadini che lo abitano, o è proprietà della comunità, che per viverlo e gestirlo deve scontrarsi con quelle stesse istituzioni, che invece di tutelarlo, come imporrebbe la costituzione, lo vogliono spogliare di qualsiasi vincolo comunitario per renderlo pienamente disponibile al mercato. Ripeto, illegale o legale fa lo stesso.
L’unità fra tutti questi soggetti in una difesa consapevole dei diritti fondamentali sotto attacco non si può spiegare in altro modo. Ed è il dato saliente che rende possibile la lotta sull’ultima trincea.
Gli stessi soggetti erano in piazza il 16 ottobre, insieme. In quella manifestazione c’era più tradizione dal punto di vista “antropologico” essendo prevalentemente composta da lavoratori e da militanti della sinistra. E il nemico non era a pochi metri dalla trincea. Era ancora lontano e sembrava diviso e, dopo tanto tempo, debole ed attaccabile. Fuor di metafora il governo traballava, la CGIL non aveva ancora compiuto certi passi concertativi e Marchionne non aveva ancora rincarato la dose a Mirafiori, la “riforma” Gelmini non era ancora certa. Il 14 dicembre la manifestazione era prevalentemente studentesca, e quindi visivamente diversa per simboli esibiti e per slogan, con una declinazione più chiara e radicale (io direi proprio più di sinistra nonostante le apparenze) degli stessi contenuti della precedente. Non solo per il soggetto studentesco generazionalmente più colpito direttamente sul proprio futuro (ed è importante proprio per la contesa di civiltà in corso), ma anche per le pessime “novità” degli ultimi due mesi.
Chi c’era dall’altra parte? Un governo arrogante, blindato nella zona rossa, dedito all’acquisto dei voti necessari a sopravvivere. Solo il governo? Secondo me no. Bisogna guardare in faccia la realtà. Anche se mette in discussione più o meno antiche certezze. Soprattutto per evitare semplificazioni tali da indurre la più tossica falsa coscienza. E qui il discorso merita di essere, anche se sommariamente, approfondito.
All’appuntamento del 14 c’è solo il solito Berlusconi cattivo che fa cose poco commendabili? Non sarà, per caso, che è l’intero parlamento e l’intero sistema politico a minacciare la trincea nella quale stanno studenti operai e cittadini in lotta? Io dico di si. E aggiungo che seppur dubbioso su molte altre cose su questa sono proprio convinto. La polizia, è stato detto da più parti, difendeva il parlamento, la “culla della democrazia”, non (o non solo) il governo. In fin dei conti, è stato detto da più parti, il governo ha vinto perché ha comprato dei voti ma adesso è debole e non ce la farà a governare, e forse, con questa cosa oscena, perderà anche consensi. (potrei continuare a elencare luoghi comuni di questo tipo, largamente diffusi). Come se fossimo non ad un passaggio di civiltà, bensì ad una qualsiasi dialettica bipolare, e come se il concetto di democrazia fosse invariabile rispetto alla natura delle decisioni che vengono prese da un parlamento. Come se non ci fosse relazione fra cosa si fa e come lo si fa. Come se non ci fosse conseguenza fra la fiducia al governo e la prossima approvazione della “riforma” Gelmini. Per chi ragiona così dovrebbero esserci molti sintomi e fatti da prendere in considerazione per provocare un serio ripensamento. Temo non ci sia l’onestà intellettuale sufficiente per farlo. Ma vediamo i sintomi e i fatti. All’accusa di aver comprato parlamentari i berlusconiani rispondono serafici: l’avete fatto anche voi, più volte, e in ogni caso dovete provarlo, altrimenti è solo il comportamento normale e costituzionale del deputato che è eletto senza vincolo di mandato. Hanno torto? Hanno ragione sia politicamente sia formalmente. Ciò cancella l’evidenza dei fatti? Certamente no, ma la riconduce alla normalità. Alla normalità del bipolarismo, aggiungo io. Il fatto che deputati eletti in un partito la cui bandiera è l’antiberlusconismo salvino Berlusconi è certamente un fatto estremo. Ma è solo la punta dell’iceberg. Perché la transumanza da uno schieramento all’altro di singoli e di partiti è diventata la normalità, guarda caso, esattamente da quando c’è il maggioritario. O no? Solo uno scemo decerebrato può dimenticare la Lega che esce dal governo per appoggiare un governo tecnico, con il corollario delle accuse a Berlusconi di essere un mafioso e la minaccia di “andare a cercare i fascisti a casa, uno per uno”. O dimenticare la mirabile traiettoria politica di Lamberto Dini. Ricordiamola perché è sintomatica. È un po lungo ripercorrerla, ma vale la pena, proprio perché è fantastica.
Da direttore della Banca d’Italia a Ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi. Propone la controriforma pensionistica, si becca lo sciopero generale, il distacco della Lega dalla coalizione, la crisi di governo. E diventa Primo Ministro del governo tecnico che fa la controriforma pensionistica, con il consenso della CGIL, sostenuto da uno schieramento che va dalla Lega al PDS. Fonda prima una lista, con socialisti e Segni, entra nell’Ulivo e fonda il suo partito: Rinnovamento Italiano. Diventa Ministro degli Esteri e rimane tale in tutti e tre i governi di centrosinistra dal 96 al 2001. Confluisce nella Margherita e diventa vicepresidente del Senato. Nel 2006 diventa Presidente della Comm. Esteri del Senato. Il suo nome viene indicato come candidato unitario alla Presidenza della Repubblica. Dalla Margherita? No, macché, dalla “Casa delle Libertà”. Che dopo averlo descritto a suo tempo come un voltagabbana e un venduto improvvisamente lo vorrebbe Presidente della Repubblica. Nel 2007 è indicato fra i 45 costituenti del PD, ma prima della fondazione del PD esce e fonda un nuovo partito: I Liberaldemocratici. Alla fine del secondo governo Prodi, insieme ad altri tre che cambiano schieramento, fa cadere il governo non votando la fiducia. I Liberaldemocratici si federano al PdL e viene rieletto al Senato e subito dopo, con un ultimo scatto, abbandona i Liberaldemocratici che rompono il patto federativo e (ri)entra nel PdL.
È stato comprato Dini? E se si quante volte?
Domanda: questo zig zag si spiega con il fatto che sarebbe stato sempre ed opportunamente sul mercato? Non è che per caso si spiega meglio con la intercambiabilità di un certo personale politico nell’ambito di politiche simili, se non identiche, da parte di schieramenti che agiscono dentro i confini delle compatibilità del sistema? E che proprio perché simili sui contenuti dispiegano il massimo di scontro sulla contesa della postazione di governo, rubandosi perfino lo stesso personale a vicenda?
Attenzione, perché chi non vuole vedere la transumanza da uno schieramento all’altro, mercanteggiata illegalmente o meno fa lo stesso, come un fenomeno strutturale del bipolarismo, finisce poi, con un salto mortale, per proporre come soluzione del problema una cosa magica: le preferenze. Ma come, dico io, la “nomina” dei parlamentari non doveva essere la garanzia di fedeltà al capo e al partito? E se c’è una forza misteriosa e superiore che provoca la transumanza il rimedio può essere che ognuno sia eletto con i propri consensi personali, indebolendo così i legami col capo e col partito? Non succederà, per caso, che per aumentare i voti del partito si “comprino” candidati che portano un valore aggiunto di preferenze, senza guardare per il sottile in quanto a moralità, principi etici e affidabilità delle persone?
Che rimedio sarebbe questo?
Insomma, come si vede il 14 gli studenti hanno giustamente, magari confusamente ma giustamente, individuato il sistema politico, il palazzo, come impermeabile alle loro istanze. All’appuntamento c’erano corpose minoranze sociali destinate all’esclusione e alla deprivazione di diritti e dall’altra un palazzo strutturalmente incapace di ascoltare. Se persino una vittoria parziale come l’archiviazione della “riforma” Gelmini, attraverso la caduta del governo Berlusconi, è affidata alla “vittoria” di Fini e del FLI che hanno votato e condividono la Gelmini, è evidente il grado di separazione ed incomunicabilità che separa il palazzo dalla società.
Se siamo ad un passaggio di civiltà, reso più rapido e violento dalla crisi, e se il bipolarismo rende il palazzo, e la sua dialettica interna, strutturalmente incapaci di fermare il processo di esclusione sociale in corso, come mai non emerge con la dovuta forza il vero problema politico? Che è, con tutta evidenza, un problema democratico. Chi lo indica come problema preminente? Forse quelli che esaltano il bipolarismo e imputano al solo Berlusconi crimini che essi stessi hanno più volte commesso, anche se con più rispetto del galateo? Forse quelli che “spiegano” con predicozzi vergognosi ai “ragazzi” che non bisogna esagerare, che non bisogna fare cose che sottraggono consenso alla propria stessa causa, perché in “democrazia” quello che conta alla fine è il consenso (elettorale) e andare contro la “pubblica opinione” sfasciando vetrine è controproducente? Eh no! Così lo negano. Così lo nascondono.
Bisognerà pur dire una verità.
In queste condizioni proprio solo gli scontri, con tutti i loro eccessi, indicano l’esistenza di un problema democratico. E, come una cartina di tornasole, svelano i “misteri delle alchimie politiche” degne del piccolo chimico e denunciano le mille ipocrisie e omertà di chi, dal mondo della politica ufficiale, attraverso prediche e pensosi aggrottamenti di sopracciglia (la nonviolenza, la non violenza, dobbiamo capire, dobbiamo capire) dimostra solo di aver separato il proprio destino politico da quello degli esclusi. E per giunta vorrebbe che gli esclusi mantenessero comportamenti ed atteggiamenti coerenti non già con la gravità della situazione, bensì con il destino di un pezzo del palazzo. Per questo si sentono dire cose come: i ragazzi sono bravi (del resto vogliamo che votino per noi) ma i teppisti vanno condannati; non esistono teppisti, sono infiltrati, mandati da chi vuole oscurare le ragioni dei bravi ragazzi; e così via.
Lo ripeto. Se all’appuntamento c’erano minoranze sociali che avvertono di essere e restare escluse nella società e un palazzo chiuso, blindato e sordo, c’è un problema democratico di prima grandezza, non la solita vicenda della politica spettacolo e la solita liturgia della manifestazione radicale ma composta.
Facciamo finta, per capirlo meglio, che non fosse volato nessun petardo e che non ci fosse stato nessuno scontro.
Di cosa si discuterebbe oggi sui mass media? Di cosa discuterebbero dentro il palazzo? Solo ed esclusivamente della vittoria (di Pirro o meno e più o meno scandalosa) di Berlusconi. Solo delle contromosse di Fini e di Casini. Solo delle probabili o meno elezioni anticipate. La manifestazione sarebbe stata, come sempre succede, relegata in trafiletti e comunque descritta come un’appendice dello scontro epico dentro il palazzo.
Se non è vero mi si dica, mi si dimostri il contrario.
Siccome invece è vero, allora bisogna riconoscere che solo attraverso il fatto eclatante degli scontri è emersa la gravità della situazione. E che se c’è qualcosa da condannare è il sistema nel suo complesso. Non chi ha fatto gli scontri.
In particolare c’è un pezzo del sistema, che si è presentato all’appuntamento, diverso dal palazzo ma egualmente contrapposto agli esclusi. I mass media.
Ho appena detto che “solo” gli scontri hanno dato conto della gravità della situazione. E cioè del problema democratico preminente. Perché non può esserci democrazia con l’esclusione sociale di una intera generazione. Ma ho messo travirgolette il “solo” perché i mass media, presi nel loro complesso, non informano, non spiegano, non descrivono i fenomeni sociali. E quando lo fanno, male, è solo per poi far dire a santoni, guru dell’economia che negli ultimi venti anni non hanno azzeccato una sola previsione, predicatori televisivi, pseudo opinionisti ed “esperti” di ogni tipo, che si, i “ragazzi” hanno ragione a lamentarsi, ma devono capire che il welfare è finito, è vecchio, è un lusso che non ci può più permettere. O, nella versione di centrosinistra, che i “ragazzi” hanno ragione a lamentarsi, ma è colpa del ministro Gelmini, che è incapace, e non dei diktat dell’Unione Europea, del sistema finanziario, delle banche, della dittatura del mercato, del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, del WTO. Secondo questa congerie di imbroglioni basterebbe regolamentare un po meglio la precarietà in modo che torni ad essere quella “flessibilità” indispensabile alle imprese per competere. Basterebbe non esagerare con i tagli al welfare, pur comprendendo la necessità di tagliare molto perché il bilancio…, la spesa pubblica…, gli sprechi…, i parametri dell’UE…, i patti di stabilità…, i patti sociali necessari…, e così via all’infinito. Tanto essendoci gli altri al governo un po di demagogia e di finte promesse si possono fare, ma sempre rassicurando i poteri forti, che non possono sentir dire che la precarietà va eliminata, che l’economia deve essere diretta secondo le esigenze della collettività, che i diritti non devono essere soppressi secondo le esigenze del mercato, che i parametri, i patti di stabilità, i bilanci, sono forche caudine che non vanno bene e che vanno rovesciate. Chi lo dice è estremista, comunista, demagogo, cattivo maestro, massimalista, visionario, velleitario. Bisogna essere realisti, concreti, avere una cultura di governo, e quindi prendere per oro colato i “pareri” delle agenzie di rating, le “indicazioni” del FMI, gli andamenti borsistici, gli articoli del Financial Times. Questa accozzaglia di ripetitori acritici di teorie economiche ridicole e falsificate dalla storia, di dilettanti che si danno le arie da statisti, di personaggi e personaggini alla perenne ricerca di un quarto d’ora di visibilità sulle agenzie di stampa o seduti in un salotto televisivo a ripetere banalità, non hanno alcuna cultura di governo, sono tutto meno che concreti e realisti. È da vent’anni che ripetono sempre la stessa litania. È da vent’anni che prevedono il secondo tempo della redistribuzione, della crescita per tutti, dell’inaugurazione di una nuova stagione per nuovi diritti. E intanto fanno finta di non vedere che il primo tempo è infinito, che la forbice fra ricchi e poveri è aumentata a dismisura, che il mercato e la sua stessa logica intrinseca erode, cancella, e distrugge diritti e coesione sociale. Se sono costretti a prenderne atto dicono che è colpa del governo in carica, mica del sistema economico, e la buttano in caciara. Ovviamente sono pronti in un batter d’occhio a condannare la violenza, e chiamare criminali, teppisti, delinquenti, infiltrati, i manifestanti che fanno gli scontri.
Fanno tutti finta di non sapere che le ragioni di una manifestazione senza scontri scompaiono dai mass media. Un trafiletto e via. Fanno finta di non sapere che anche quando si parla di una manifestazione, magari imponente, invece che i manifestanti, in tv appaiono i leader che camminano in mezzo a grappoli umani di giornalisti (sic) che si contendono uno scampolo di frase, una parola da mettere nel tritacarne dei battibecchi della politica spettacolo.
Possibile che nessuno dica la semplice verità che i mass media e i talk show sono massimamente responsabili del fatto che per “fare notizia” bisogna fare ogni volta cose sempre più eclatanti, scontri compresi? Possibile che non si veda anche qui un problema democratico enorme? E che si finga di indignarsi per le ovvie conseguenze di una simile situazione, in perenne peggioramento? Possibile che i predicatori televisivi strapagati per dire le loro “opinioni”, quasi sempre superficiali e banali, abbiano perfino la faccia tosta di fare prediche ai “ragazzi”, dicendogli di non fare “cazzate”, ben sapendo che senza quelle cazzate spariranno dai mass media? Certo che è possibile, perché solo il guru televisivo potrà così volgere il suo pensoso sguardo verso il basso e descrivere e denunciare le ingiustizie che affliggono una generazione. Una generazione che deve commuoversi ed entusiasmarsi quando sente il guru ma che non può parlare, farsi ascoltare, direttamente e per proprio conto. Una generazione, cioè, le cui sofferenze vengono usate come ingrediente dello spettacolo televisivo e mass mediatico, fanno crescere l’audience e quindi gli introiti pubblicitari e quindi i cachet dei predicatori. Che schifo!
Quando, 12 anni fa, si suicidarono Sole e Baleno, i loro compagni anarchici chiesero che ai funerali non si presentassero televisioni e giornalisti. Che si evitasse la solita sarabanda. Che ci fosse un minimo di rispetto. Dovettero cacciare i giornalisti prendendoli a pedate. Sacrosante pedate! Il diritto di cronaca…, il diritto di cronaca…, e giù condanne per chi li aveva cacciati. Eppure pochi mesi prima la famiglia Agnelli aveva chiesto ed ottenuto che nessuna televisione o giornalista andasse alla cerimonia funebre per Giovanni Alberto Agnelli, morto di tumore a 33 anni. Li c’era il rispetto per la morte e per il dolore, li non c’era il diritto di cronaca.
Basterebbe questo piccolo esempio per qualificare il sistema massmediatico italiano.
In conclusione si può dire, e ripetere, che gli scontri del 14 sono il prodotto della gravità sociale e democratica della situazione, della impermeabilità del palazzo e della enorme mancanza di informazione. A questo è dovuto il consenso evidente della stragrande maggioranza dei manifestanti. A questo è dovuta l’incisività dell’evento e il suo potere comunicativo e politico. Il resto sono chiacchiere pseudo sociologiche, da salotto, quando non veri e propri imbrogli ipocriti.
Ovviamente la lotta continua e continuerà. E dovrà trovare ogni giorno le forme consone al livello dei problemi e ai rapporti di forza. Credo che il movimento sia abbastanza maturo per sapere che gli scontri, più che giustificati il 14 per denunciare e rendere evidente la gravità della situazione, diverrebbero impedenti lo sviluppo della lotta se reiterati ad ogni occasione.
Ma questo lo vedremo presto, credo.
ramon mantovaniUn buon congresso2010-11-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558146Senza nasconderne i limiti e i problemi è opportuno sottolineare i passi avanti e i risultati positivi del Congresso della Federazione della Sinistra.
1) la Federazione è stata immaginata, proposta e discussa a lungo per reagire e rispondere a due problemi posti dalla sconfitta del 2008 e all’idea che per unire la sinistra si dovessero cancellare le identità e sciogliere le organizzazioni comuniste. I due problemi sono: la frammentazione e dispersione delle forze politiche della sinistra e la tendenziale subalternità al PD, sia nella versione governista sia in quella testimoniale, entrambe prodotte del bipolarismo. Alla fine è chiaro che la Federazione è un progetto strategico che si propone di unire la sinistra anticapitalista italiana. Non una generica sinistra senza principi e senza confini. Non l’unità comunista con la promozione di una dialettica a sinistra sulla base di discriminanti ideologiche. Per altro non chiare sul versante delle scelte politiche, a cominciare dal rapporto col PD e con la questione del governo. E’ stato molto faticoso in questi due anni superare le spontanee e/o maliziose interpretazioni e proposte di una Federazione come partito unico dei comunisti con l’aggiunta di qualche indipendente, che avrebbero prodotto nuove divisioni e una forza politica tanto capace di esibire una identità astratta e sempre meno attrattiva, quanto incerta e moderata nelle scelte politiche. Il compito della Federazione è chiaro. Costruire, nel vivo delle lotte, un programma di fase per l’uscita a sinistra dalla crisi capitalistica e su questa base partecipare alle elezioni a tutti i livelli. Sono due compiti, collegati intimamente fra loro, che necessitano dell’unità di tutte le donne e gli uomini che pensano che la critica del capitalismo, e del modello sociale conseguente, sia la base indispensabile per rapportarsi con le lotte e per costruire un programma autonomo ed indipendente dal centrosinistra, per sua natura ambiguo o addirittura apologetico nei confronti del mercato e del liberismo. L’unità si deve fare, quindi, sul punto fondamentale di cui necessita la lotta di classe ed ogni movimento di trasformazione, senza che nessuno, collettivamente o individualmente, debba rinunciare ad un grammo della propria cultura politica e soprattutto delle proprie pratiche. Senza egemonismi (che sono sempre stati il contrario dell’egemonia) e senza riduzioni ad uno o semplificazioni che, come insegna l’esperienza, hanno sempre e solo prodotto nuove divisioni. In altre parole la Federazione vuole essere il luogo politico dell’unità dei partiti, delle associazioni e comitati, delle persone che decidono di fare quelle due cose insieme in modo democratico e che continueranno ad avere le proprie differenze culturali, di pratiche politiche e di organizzazione per fare tutto il resto. Ovviamente questo è difficile da capire e digerire per chi pensa che un partito, comunista o meno, debba solo elaborare programmi e liste elettorali e partecipare al “gioco politico” nelle relazioni fra partiti nelle istituzioni. Come è difficile da capire per chi, impegnato in lotte e attività sociali, pensa che la rappresentanza delle stesse possa essere risolta al momento delle elezioni con la scelta di una lista, o peggio ancora di un leader, rifiutando o accettando il ricatto del bipolarismo e del meno peggio con l’astensione o con il voto utile. Ma su questo punto documento e statuto della Federazione sono chiarissimi. Restano nel corpo militante e fra le persone di sinistra molte perplessità ed anche una notevole dose di confusione. Dovute al fatto che i mass media le poche volte che hanno parlato del nostro progetto lo hanno fatto occultando, per ignavia o per malizia fa lo stesso, la vera portata della proposta unitaria per descriverlo, invece, come orticello comunista privo di una proposta politica. Ed anche dovute al fatto, bisogna pur dirlo, che molti militanti sono totalmente disabituati a fare ragionamenti complessi di fronte a problemi complessi. Che non leggono e non studiano nemmeno i documenti politici per poi affidarsi alle semplificazioni dei mass media e/o per discutere sulla base di suggestioni e soprattutto di contrapposizioni astratte e demagogiche. Ma, lo ripeto, essendo chiaro il progetto della Federazione c’è la possibilità, con pazienza e perseveranza, di farlo vivere e crescere. Innanzitutto con il lavoro di allargamento della Federazione, sia a livello locale con collettivi e persone impegnate nelle lotte, sia a livello nazionale ribadendo la necessità di unire davvero tutta la sinistra anticapitalista. La Federazione vuole essere l’unità di tutta la sinistra anticapitalista. Attualmente non lo è affatto, anche se non è poco aver invertito la tendenza alla divisione e unito ciò che fino a ieri sembrava impossibile unire. Sul piano delle forze organizzate permangono profonde divisioni. Sul piano delle persone di sinistra senza partito permangono diffidenze, dubbi e soprattutto contrarietà dovute alle pratiche autoreferenziali, elettoraliste e istituzionaliste dei partiti, Rifondazione compresa. Da una parte alcune formazioni, come Sinistra Critica, PCL ed altri, e dall’altra SEL hanno proposte politiche contrapposte e, lo dico brutalmente, totalmente subalterne al bipolarismo. Da una parte l’idea che la ripetizione ossessiva di slogan radicali e di anatemi ideologici (spesso scagliati contro chi è più vicino) e la fuga dal problema di contribuire o meno alla cacciata di Berlusconi con il sistema elettorale esistente, possa costituire la base per l’accumulazione di forze sufficienti per cambiare qualcosa di concreto. Dall’altra l’idea che cavalcando (con successo) proprio uno degli aspetti più deleteri (e distruttivi di tutte le culture critiche della sinistra) del bipolarismo si possa ottenere una ristrutturazione del centrosinistra che apra le porte ad una svolta di sinistra reale nel paese. Non è necessario ripetere per l’ennesima volta quanto queste idee siano illusorie e quanto siano corrispondenti esattamente al disegno sulla base del quale è fondato il bipolarismo. Ridurre alla testimonianza impolitica le istanze radicali o trasformarle in “speranze”, tanto suggestive in campagna elettorale quanto irrealizzabili in un governo, comunque dominato dai poteri economici e dal vaticano. Non sono differenze sostanziali di contenuto, come la contrarietà alla legge trenta, il ritiro dall’Afghanistan, l’opposizione alle politiche economiche dell’UE ecc a motivare una divisione che persiste. Sono scelte ideologiche e di linea politica che impediscono l’unità. Indulgere all’infinito in discussioni circa il novecento e il nuovismo o fare la gara a chi è più comunista o più radicale è insensato, oltre che inutile. La Federazione deve rispettare i progetti altrui, pretendere il rispetto per il proprio, e soprattutto deve continuare a ribadire, con ostinazione, che permanendo i progetti e le linee diverse, sui contenuti di lotta si può e si deve combattere insieme. E che anche il confronto, su progetti e linee diverse, si può e si deve fare a partire dal riconoscimento della centralità dei contenuti che uniscono. Proprio per misurare l’efficacia dei progetti e delle linee rispetto al rafforzamento delle lotte e al raggiungimento di obiettivi concreti per milioni di italiani. Alla manifestazione del 16 ottobre c’era la sinistra reale di questo paese. I contenuti della piattaforma della FIOM (ben ribaditi nell’intervento di Landini al congresso) per la Federazione possono essere sposati integralmente e possono essere la base per discutere con SEL come con Sinistra Critica e il PCL sul come farli diventare obiettivi concreti, oggi e subito. E’ il modo concreto per rispondere a quella domanda di rappresentanza politica che è salita dalla manifestazione. Mentre citarli strumentalmente per scagliarli contro altri, che pure li condividono, per farli diventare un espediente retorico e demagogico al servizio di proposte politiche che, essendo interne alle logiche bipolari, li riducono a slogan impotenti o a sogni irrealizzabili è il contrario. Per il banale motivo che alla fine, o la piazza e i suoi contenuti saranno in grado di dare una spinta all’unità a livello politico della sinistra o le diverse opzioni della sinistra mortificheranno e divideranno la piazza e il movimento di lotta. E non avrà molta importanza ciò che dicono i sondaggi o diranno gli stessi voti elettorali se la sinistra politica che dice di condividere quei contenuti sarà divisa in tre pezzi in lotta fra di loro. Perciò è giustissimo che la Federazione, ben sapendo le differenze di progetto e di linea che esistono con altri, continui a sfidarli su questo terreno della discussione.
2) sebbene non si possa dire di possedere un programma di fase, complesso e articolato, capace di unificare i fronti di lotta e di accumulare le forze per passare dalla resistenza ad una controffensiva del mondo del lavoro e dei movimenti progressisti, il congresso ha chiarito a definito alcune linee di fondo sulla base delle quali costruire un tale programma. E su queste basi ha approvato e sancito una proposta politica chiara ed inequivocabile. C’è nel documento e c’è stata nel dibattito l’idea che alla finanziarizzazione e al mercato senza regole liberista sia necessario assegnare al mondo del lavoro il ruolo di fulcro dell’unità di tutte le lotte. Come è già stato evidente nella manifestazione della FIOM del 16 ottobre. La Federazione ha chiaramente l’idea della costruzione di tale unità sulla base di una alleanza strategica dei movimenti ambientalisti e dei diritti civili con quello dei lavoratori, degli studenti, dei precari e degli immigrati. La Federazione propone cose precise per l’oggi. Sulla base di scelte di fondo che in politica economica sono totalmente controcorrente rispetto agli indirizzi dell’Unione Europea, a cominciare dalla riproposizione dell’intervento pubblico in economia e dalla subordinazione dei bilanci e delle politiche monetarie rispetto ai diritti sociali. Che in politica estera sono contrapposte a guerre e spese militari sostenute da tutti i partiti socialisti, socialdemocratici, e in Italia del PD. Che sulle politiche sociali e dei diritti sono all’opposto dei “patti sociali” di confindustria e alla subalternità al vaticano. E’ su queste basi, e non su altre, che è stata approvata la proposta di dare vita ad una alleanza democratica in difesa dei principi costituzionali, per battere Berlusconi, senza fare un impossibile accordo di governo. Al di la di sfumature, di suggestioni, di ovvie differenze culturali e perfino di propensioni ben visibili sulla stampa e in diverse dichiarazioni e discorsi, questo è quanto è stato deciso ed approvato. Con il dissenso dei compagni di Falce e Martello sul versante di sinistra e con quello del documento di una parte di Rifondazione (primo firmatario Bonadonna) sul versante di destra. Questa proposta politica è stata accettata e difesa, nei loro discorsi, da Salvi, da Patta, da Diliberto, oltre che da Ferrero. Con toni e sfumature diverse? Ovviamente si. Ma senza che sia stata proposta alcuna alternativa. Per altro, voglio dire esplicitamente che io sono d’accordo con Diliberto quando dice che se si fa un accordo senza entrare al governo questo non comporta che il confronto con il PD e con gli altri partiti di centrosinistra, a cominciare da SEL, debba escludere temi sociali e concreti che riguardano milioni di persone. Non fosse altro che è proprio sulla base di quei temi sociali, e non su anatemi astratti, che si misura la distanza e la stessa impossibilità di fare un governo insieme. Come non esclude che si facciano anche proposte e accordi minimi su temi specifici. Esattamente come bisogna sempre fare in qualsiasi istituzione con qualsiasi governo. Infine è chiara l’idea che l’obiettivo di superare il bipolarismo sia prioritario, come è chiara la contrarietà a qualsiasi uscita dalla crisi del centrodestra sulla base di governi tecnici o simili. Questi indirizzi programmatici di fondo e la proposta politica dell’alleanza democratica senza accordo di governo sono la linea politica della Federazione per navigare nella complessa situazione della crisi economica, della offensiva liberista e padronale e della crisi latente del governo Berlusconi. Questa è la linea politica sulla base della quale confrontarsi a tutto campo con chiunque, con il massimo di apertura e di duttilità tattica.
3) la vita della Federazione è stata contraddistinta, fino a qui, da una inevitabile logica pattizia fra le forze che hanno partecipato alla sua fondazione. È inutile menare scandalo per questo. Senza quella logica pattizia non ci sarebbe nessuna unità con basi solide per resistere a qualsiasi novità sulla scena politica. Non ci sarebbe la forza organizzata minima per sorreggere e sviluppare nessuna linea politica. La permanenza di divisioni (anche elettorali) avrebbe provocato la definitiva e più che giustificata delusione di altre decine di migliaia di militanti e il totale disorientamento dei potenziali elettori. Lo statuto approvato definisce con chiarezza che il futuro della Federazione sta nelle mani degli iscritti e delle iscritte. Il principio di una testa un voto è inequivocabile. Come lo è quello delle maggioranze qualificate al fine di evitare che chiunque possa sopraffare gli altri. Soprattutto al fine di impedire che coalizioni improvvisate di correnti possano snaturare la Federazione e cambiare la linea sulla base di cordate e di manovre di corridoio. Ma qui comincia la vera sfida. E bisogna avere la consapevolezza che la sfida è persa in partenza se si usa la demagogia e il basismo. A nulla vale il principio di una testa un voto se poi dobbiamo fare il prossimo congresso con una decina di documenti politici in guerra fra loro. A nulla vale il principio delle maggioranze qualificate se provoca solo mediazioni al ribasso. A nulla vale la Federazione con compiti ben precisi sui quali cercare permanentemente l’unità se poi si portano nella federazione discussioni su compiti e contenuti propri dei partiti che la compongono ed estranei a quelli della Federazione. Ma queste cose attengono alla maturità e alla qualità dei gruppi dirigenti e dei militanti. Attengono perfino all’onestà intellettuale con la quale si discute e al principio di lealtà verso chi la pensa diversamente. Non c’è norma statutaria e non c’è declamazione di principio che possano magicamente infondere qualità e buon senso in chi non legge, non studia, non ascolta, e pensa che qualsiasi mezzuccio o manovretta di corridoio sia un mezzo lecito, giustificato dal fine di imporre ciò che vuole agli altri. La democrazia funziona non solo se si vota continuamente su tutto. Funziona se quando si vota i votanti sanno cosa votano sulla base di una conoscenza approfondita e non sulla base di opzioni presentate demagogicamente, che contano proprio sulla ignoranza diffusa e sulle suggestioni da quattro soldi. Funziona se dopo aver votato qualcosa chi è in disaccordo non tenta di impedirne la realizzazione o non tenta ad ogni riunione, su qualsiasi tema sia convocata, di riprodurre sempre la stessa discussione. Funziona se dopo una decisione chi si è dichiarato d’accordo votandola non fa subito un bell’articolo che la contraddice. Magari al fine di marcare la differenza necessaria a giustificare l’esistenza della propria corrente o, peggio ancora, al fine di ritagliarsi uno spazio politico personale fittizio da usare per rivendicare un posticino negli organismi e nelle liste. E potrei continuare. Queste cose affliggono tutti a sinistra. Non esistono scorciatoie leaderistiche e basiste che possano risolvere questi problemi. Al contrario sia il leaderismo sia il basismo alimentano passività, ignoranza e superficialità all’ennesima potenza. Solo la fatica di una lotta culturale e ideologica attiva e permanente, con l’obiettivo di curare la malattia e salvare il malato, può sortire degli effetti positivi. Solo valorizzando le pratiche sociali e culturali ricche, alla lunga, si possono superare le discussioni astratte che sono il terreno privilegiato per le cordate e i personalismi di tutti i tipi.
4) sebbene sia chiaro che la Federazione non è l’unità dei comunisti, tanto che al congresso tutti gli emendamenti che insistevano sul tema sono stati giustamente dichiarati inammissibili, il tema esiste ed è bene discuterne. E’ evidente che proprio nel momento nel quale il PRC e il PDCI condividono lo stesso progetto di unità della sinistra anticapitalista e la stessa proposta politica è necessario affrontare seriamente il tema. Non lo era prima sia perché avrebbe sostituito e fagocitato il progetto dell’unità della sinistra anticapitalista e perché avrebbe subordinato la scelta della linea politica ad una immatura unificazione organizzativa dei due partiti. Oggi il tema dell’unità comunista è da affrontare seriamente. Dico oggi ma è evidente che in caso di elezioni anticipate sarebbe idiota metterlo al centro delle nostre attenzioni. Resta da vedere se si vuole affrontare sulla base di una suggestione e come se le differenze culturali, di concezione politica ed organizzativa del partito, fossero all’improvviso sparite. La demagogia dell’unità, per ricevere applausi, scagliata contro altri implicitamente accusati di non volere l’unità, non produce unità. Bensì diffidenze e nuove divisioni. Nessuna persona dotata di buon senso pensa che due, tre, quattro o cinque partiti comunisti siano meglio di uno. Non fosse altro che per il banale motivo che il numero e l’attività complessiva dei militanti si riducono proporzionalmente al proliferare di sigle e di partiti. Fermo restando tutto ciò bisogna sapere che le differenze e le divisioni esistono. E che possono perfino aumentare con la demagogia e con le semplificazioni. Se, per esempio, Rifondazione dicesse una cosa banale e apparentemente di buon senso come “chi è uscito dal partito ritorni, le nostre porte sono aperte e non chiediamo nessuna autocritica” provocherebbe solo un solco più profondo con gli altri e anche nuove divisioni al proprio stesso interno. Se di unità c’è bisogno e se di unità è opportuno parlare bisogna farlo seriamente e con i piedi piantati per terra. L’unità dei comunisti è innanzitutto un tema ideologico, politico e culturale. Non un tema organizzativo per unificare due o più gruppi dirigenti. L’unità dei comunisti non è un tema sostitutivo dell’unità della sinistra anticapitalista. Ci sono due terreni precisi sui quali fondare la discussione sull’unità dei comunisti. Il primo è quello delle pratiche sociali condivise, è lo stare nelle lotte e nel radicamento sociale insieme, senza egemonismi e stupide competizioni, è quello sul quale avviare con i soggetti sociali l’elaborazione di obiettivi di lotta. Il secondo è quello dell’analisi del capitale e della formazione sociale plasmata dal capitalismo di questa fase storica. È quello della difesa della propria storia dal revisionismo imperante e, al tempo stesso, della critica della propria storia. È quello della critica di un modello organizzativo e di una concezione del partito verticistico, intriso di predominio maschile e di istituzionalismo. Senza che questa critica dia luogo a sette o, peggio ancora, a leaderismi e basismi che di democratico non hanno nulla. Insomma, come si vede i problemi sono seri. E a nulla vale ignorarli unificando due o più partiti per poi tornare a dividersi, in modo lacerante, alla prima occasione nella quale i problemi che si credevano superati si ripresentano violentemente. Comunque non è questa la sede per approfondire questo tema. Penso che il prossimo congresso del PRC debba offrire una proposta e una discussione a tutte le comuniste e a tutti i comunisti di questo paese. Una proposta e una discussione capaci di far scoprire a molti e a molte di essere comunisti. E di far scoprire a molte e a molti che si ritengono comunisti di non esserlo sul serio.
Ma questa è un’altra storia…
ramon mantovaniAfghanistan: una proposta contro l’imbroglio demagogico2010-10-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558145Noi proponiamo il ritiro unilaterale delle truppe italiane, la fine della guerra della NATO, un cessate il fuoco e un negoziato politico interno e internazionale (con il concorso del Pakistan e dell’Iran) garantiti dal presidio del territorio da parte di una forza di Caschi Blu (con l’esclusione dei paesi attualmente belligeranti). Altre “soluzioni” sono semplicemente la prosecuzione della guerra o, peggio ancora, l’ennesimo imbroglio demagogico, cinicamente giocato sulla pelle degli afghani e degli stessi soldati italiani. Il governo italiano, se avesse una propria politica estera, dovrebbe proporre in sede NATO il ritiro e l’apertura di una nuova fase gestita dall’ONU, dai paesi dell’area e dai belligeranti afghani. Ma una simile proposta, per quanto sia l’unica pragmatica e realistica, si scontrerebbe con la vera natura della guerra e con i suoi veri obiettivi (che non sono cambiati solo perché dall’unilaterale “Enduring Freedom” siamo passati al “multilateralismo occidentale” della NATO), e contro gli interessi dell’industria bellica USA. Quindi il governo italiano dovrebbe ritirare unilateralmente le proprie truppe, seguendo l’esempio olandese, proprio per esercitare l’unica pressione seria e possibile in sede NATO e verso gli USA, al fine di mettere fine ad una guerra che mai potrà essere vinta sul piano militare. L’opposizione (parlamentare), se avesse una propria politica estera diversa da quella degli USA e quindi diversa da quella del governo Berlusconi, presenterebbe immediatamente una mozione in parlamento per il ritiro unilaterale, sia per mettersi in sintonia con l’opinione pubblica sia per sfruttare le evidenti contraddizioni fra Lega e PDL. Ma non lo farà. Continuerà a vagheggiare “ridiscussioni della missione”, non meglio precisate “exit strategy” senza proporre nulla di concreto e così via. Finirà inevitabilmente con il discutere, anche dividendosi, delle false piste proposte dal governo (come quella di La Russa sulle bombe), utili solo a rappresentare, nella politica spettacolo, come unica dialettica possibile quella interna ai favorevoli alla guerra, e a far apparire come estremistica, irrealistica e velleitaria qualsiasi idea o proposta che sia contraria alla guerra come soluzione del problema afghano. Noi abbiamo mille ragioni per essere contro questa guerra. Sono politiche ed anche etiche. La principale delle quali è quella per cui siamo contro la costruzione di un nuovo ordine mondiale, conseguente alla globalizzazione capitalistica, nel quale i paesi “occidentali” dominano e “governano” il mondo sconvolto dalla crisi, attraverso la “guerra permanente” e la riduzione dell’ONU ad “ente inutile”. Perciò siamo contro la NATO e contro il governo USA. Perciò pensiamo che su questo punto corra un confine fra ciò che è di sinistra e ciò che è di destra.
Il resto sono chiacchiere e pagliacciate buone solo per i talk show.
ramon mantovani
Pubblicato su Liberazione il 12 ottobre 2010Perchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (2)2010-09-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558149Seconda fase parte prima.
La fase neoliberista del capitalismo è stata ed è un enorme processo di ristrutturazione economico-finanziario, una fortissima concentrazione e contemporaneamente un’esponenziale crescita di società multinazionali, una violenta distruzione delle regole e dei vincoli che erano stati imposti nella fase keinesiana, un durissimo attacco al movimento operaio e a qualsiasi SINISTRA reale.
Abbiamo già detto precedentemente come la fase keinesiana avesse minato, in tutto l’occidente, il motore dello sviluppo capitalistico. E avesse posto alcune delle condizioni fondamentali per rendere politica (e non solo teorica) la possibilità del superamento del capitalismo in occidente.
Già alla fine degli anni 60 tutto ciò è più che evidente.
La società è organizzata e funziona intorno alla produzione materiali di beni, merci e servizi. La finanza (che è consustanziale al capitalismo) serve agli investimenti del capitalismo principalmente dedito alla produzione di merci. Il mercato interno di ogni paese è il motore principale dello sviluppo, e con esso il prezzo del lavoro (salario e stipendi) sale per garantire la realizzazione del profitto attraverso la vendita delle merci. I paesi esportatori, essendo il commercio internazionale un sistema a somma zero (se c’è chi vende ci deve essere chi compra e le bilance commerciali alla fine devono pareggiarsi, pena una grave crisi di sovrapproduzione), devono contare su una crescita, anche favorendola direttamente, dei mercati interni ai paesi importatori. Lo fanno con misure monetarie che “peggiorano” la loro capacità competitiva rispetto ai paesi meno sviluppati per favorirne lo sviluppo e la crescita del mercato interno. Viceversa questi ultimi fanno l’esatto opposto, svalutano le proprie monete per ridurre il deficit commerciale e garantire occupazione e mercato interno. Vengono alla luce le gravi contraddizioni del modello fordista di organizzazione e divisione del lavoro, relative alla massificazione delle società, alla alienazione, alla distruzione ambientale e perciò, il movimento operaio e la SINISTRA ne teorizzano il superamento per la creazione di un nuovo modo di produzione.
La caduta del tasso di profitto del capitale investito in produzione di merci; il commercio internazionale “regolato” e vincolato; il dominio degli USA che pagavano parte dello sviluppo garantendo a una cerchia di paesi (sostanzialmente il club dei paesi dell’OCSE) un alto tasso di sviluppo ottenendo in cambio la loro subalternità politico-militare; la esclusione dal “circolo virtuoso” dei paesi fuori dall’OCSE e le loro rivendicazioni ad uscire dall’arretratezza, che avrebbero ulteriormente regolato in senso sempre più solidale il commercio internazionale; il crescente potere di condizionamento del modello di sviluppo da parte del movimento operaio, sono tutte condizioni che a un certo punto diventano insostenibili per la logica intrinseca del capitalismo. Che è sempre la ricerca del massimo profitto. Come sono le condizioni alla base della necessità storica di superare il compromesso keinesiano in senso anticapitalista. Sia sul versante di una direzione pubblica dell’economia volta a mantenere la sviluppo dei mercati interni obbligando gli investimenti ad orientarsi secondo una logica contrapposta alla ricerca del massimo profitto, sia sul versante della ulteriore solidarizzazione del commercio internazionale, anche rimettendo in discussione le asimmetrie prodotte a Bretton Woods in favore del dominio USA.
Che succede, invece?
Prima di descrivere la possente controffensiva del capitale bisogna per forza, perché è una precondizione fondamentale, citare una nuova condizione politica. Una vera novità, che non manca di avere risvolti anche paradossali.
A un certo punto gli USA non furono più in grado di garantire la convertibilità del dollaro in oro (anche a causa del costo della guerra in Viet Nam che fu molto più lunga del previsto e che costo moltissimo). La convertibilità del dollaro in oro era il fondamento di tutto il sistema monetario e commerciale mondiale e soprattutto della sua stabilità. Nonché del potere politico degli USA che veniva esercitato negli interessi propri e del club dei paesi ricchi e sviluppati. Nel 1971 Nixon dichiarò inconvertibile il dollaro in oro. Ma a questa scelta obbligata non corrispose una perdita di potere degli USA, come sarebbe stato logico. Bensì il contrario. Non esistendo nessuna moneta di un paese in grado di pagare il prezzo di esercitare la funzione garantita fino ad allora dagli USA, in virtù di una pura preminenza politico-militare il potere di comando degli USA sull’economia mondiale si accrebbe. La scelta di non inventare, alla firma degli accordi a Bretton Woods, una moneta mondiale garantita da un accordo multilaterale (il Bancor che aveva sognato Keynes) si rivelò per gli USA strategicamente decisiva. Qualche mese dopo la dichiarata inconvertibilità del dollaro in oro vennero cancellati gli accordi di Bretton Woods e la stabilità monetaria mondiale, per quanto asimmetrica fosse stata, finì. Da quel momento in poi il sistema avrebbe funzionato non più con una base materiale, per quanto mediata dal dollaro. Bensì sulla base del semplice complesso dei cambi valutari che fluttuavano liberamente.
Questa fu la svolta storica, determinata da condizioni squisitamente politiche, che mise fine al tentativo condizionare lo sviluppo capitalistico con regole capaci di impedire crisi epocali, come quella del 29, e di garantire un certo grado, asimmetrico e squilibrato, ma comunque ispirato alla cooperazione e perfino alla solidarietà nelle relazioni commerciali internazionali.
Questa svolta, decisa al di fuori di qualsiasi discussione democratica e ignota e misteriosa per la stragrandissima maggioranza della popolazione mondiale, fu il la definitivo per la controffensiva del capitale.
Come per la sinistra non esiste politica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria, per il capitalismo fu decisiva la teoria economica neoliberista. Da allora in poi i cervelli neoliberisti divennero guru, profeti indiscussi e vennero premiati con diversi premi Nobel.
Seguendo le loro indicazioni i capitalisti dei paesi esportatori e con rapporti di forza politici meno favorevoli per il movimento operaio, come gli USA e la Gran Bretagna, iniziarono ad aumentare i prezzi delle merci per annullare gli aumenti salariali che erano stati contretti ad erogare. La latente sovrapproduzione emerse con forza. Perché sebbene si riduca il costo del lavoro, insieme ad un costante aumento della produttività per ora lavorata, a favore del profitto, si deprime il mercato interno e non si vende tutto quel che si produce. La conseguente inflazione e disoccupazione provocano un ulteriore blocco degli investimenti e della crescita, chiudono il cerchio e si scopre che eliminare il “circolo virtuoso” può produrre un nuovo circolo vizioso non solo per gli operai ma anche per il capitale. E’ la famosa stagflazione. Vera ossessione delle imprese capitalistiche dell’epoca. Se la ricerca del massimo profitto deprime il mercato interno e produce crisi di sovrapproduzione che possono cancellare il massimo profitto la soluzione è semplicissima. Bisogna vendere le merci esportandole. Questa propensione esportatrice scatena una competizione mai vista prima e soprattutto rovescia il pur squilibrato ordine monetario che aveva sorretto la fase precedente. I paesi prevalentemente esportatori necessitano di monete sottovalutate e forti e di tassi bassi di interesse sul denaro, per favorire le esportazioni e gli investimenti. I paesi prevalentemente o addirittura quasi totalmente importatori sono costretti, per far fronte all’indebitamento della bilancia commerciale, a sopravalutare le proprie monete, rendendole così sempre più deboli. Soprattutto devono rendere le loro economie attrattive per i capitali speculativi che cominciano a circolare potentemente. Non hanno altra scelta per poter sostenere la spesa pubblica, per quanto ridotta sia rispetto a quella dei paesi esportatori.
Le monete si svalutano e si rivalutano non più per cercare di mantenere la stabilità ed evitare crisi finanziarie, ma solo per competere meglio nella giungla che è diventato il mercato mondiale. E’ cominciata l’epoca della competizione totale. La “competitività delle imprese” e dei “sistemi paese” è la legge che sovra ordina tutto. Le conseguenze sono enormi, da tutti i punti di vista.
Citiamo solo quelle salienti. Senza pretesa di descrivere ed analizzare completamente un fenomeno così grande e complesso che è conosciuto con il nome di “globalizzazione”.
Innanzitutto c’è il fatto che se il sistema per svilupparsi deve sempre più esportare, svincolandosi dal mercato interno, per competere può e anzi deve ridurre il costo del lavoro, in una spirale crescente. I bassi salari da limite dello sviluppo, come erano nella fase precedente dominata dal mercato interno, diventano condizione per lo sviluppo connesso alle esportazioni nella fase del mercato globale. Questo automaticamente deprime la forza del movimento operaio e dei lavoratori. E’ facile ricattare e far valere il ricatto dicendo una cosa semplicissima, se non competiamo falliamo e se falliamo i posti di lavoro spariscono. Insomma, dovete sacrificarvi se volete salvare il posto di lavoro.
Si innesta un meccanismo per cui i paesi esportatori impongono “nuove regole”, cioè semplicemente deregolamentano, nel commercio internazionale a favore delle proprie imprese, sia nazionali sia multinazionali. Meno regole ci sono, e meno dazi e possibilità di imporre dazi da parte dei paesi importatori, più competizione c’è. E quindi, dicono i neoliberisti, più possibilità di sviluppo per tutti. Peccato che le regole che vengono abrogate sono proprio quelle che permettono ai deboli di non competere “alla pari” con i forti. E cioè di non essere totalmente sopraffatti in poco tempo.
Il capitale, libero da molti vincoli che l’avevano limitato nella ricerca del massimo profitto, non solo si orienta ad investire nella competizione, speculando sempre più, sul mercato globale e sui singoli mercati, ma ottiene, attraverso precise decisioni politiche prese negli organismi fuori da qualsiasi controllo democratico, come il GATT (poi WTO), di estendere il mercato sul quale competere anche a comparti e settori fino ad allora completamente pubblici. Infatti i paesi più deboli sono sempre più costretti, per reggere il deficit commerciale, per non soccombere e per non cancellare totalmente la spesa pubblica che pur riducono sempre più, a svendere il patrimonio naturale come giacimenti di materie prime e biodiversità, sistemi ed imprese pubbliche di trasporti, di comunicazione ecc, e perfino il patrimonio culturale e paesaggistico. Inoltre, ma ne parlo solo da questo punto di vista perché il tema è enorme, alla fine degli anni 80 c’è in poco più di due anni (la Cina aveva già cominciato prima) l’intero Est Europeo che entra nel mercato capitalistico. E l’immensità del processo di privatizzazione e allargamento territoriale del mercato da un respiro grande al processo stesso. Conferendogli l’aura di qualcosa di definitivo e infinito presso le opinioni pubbliche del mondo.
Non c’è, infatti, solo la sconfitta del “circolo virtuoso” e della possibilità di ridurre, contenere e superare il capitalismo in occidente. E’ proprio questa sconfitta, insieme alla stagnazione e ai limiti del modello del socialismo reale (non solo e non soprattutto a causa del divorzio crescente fra il bisogno di liberazione delle popolazioni e i regimi ottusi e autoritari che le governano dall’alto) a produrre la fine del socialismo reale in un battibaleno.
I capitalisti diventano sempre più indifferenti al territorio dal quale provengono. Non nel senso di diventare privi di radici e di rapporti politici con il territorio, separandosi da qualsiasi stato nazione, come vuole una vulgata e una cattiva lettura della critica della globalizzazione. Semplicemente diventano liberi dall’obbligo di contribuire in proprio alla qualità del mercato interno accettando l’aumento del costo del lavoro e contribuendo, con forti tassazioni, alla spesa pubblica in welfare, infrastrutture e gestione politica di settori strategici dell’economia. Mentre prima dovevano venire ad accordi e compromessi con il potere politico, che era intestatario del potere di creare le condizioni per la riproduzione del capitale, ora sono loro a costringere il potere politico a favorirli in tutto e per tutto nella competizione globale e a far fronte alla spesa pubblica vendendo sui mercati le imprese pubbliche, le banche, i servizi pubblici, e a tartassare, ove necessario, la popolazione invece che le imprese. Sono ora i mercati e i capitalisti ad avere in mano completamente le leve per garantire o meno la riproduzione del potere politico. Sono loro cioè a decidere nei fatti della rielezione o meno di un governo. Tutto ciò è così vero che ben si vede nel processo di delocalizzazioni, che cominciò in Italia già negli anni 70. I governi devono “concedere” molto, producendo gravi conseguenze sociali, affinché le imprese rimangano sul territorio e non precipitino il paese nella disoccupazione di massa, ma le imprese se ne fregano delle conseguenze sociali delle loro delocalizzazioni e le fanno lo stesso, e i governi per attrarre nuovi investimenti devono produrre condizioni sempre più vantaggiose per il capitale. Per esempio i bassi salari non bastano più, bisogna precarizzare e svalorizzare sempre più il lavoro umano. E costruire infrastrutture risparmiando sulle spese sociali. E così via all’infinito. Anche se tutto ha un limite, speriamo. Non abbiamo più (USA a parte) governi mediatori di interessi e nemmeno alti “comitati d’affari” delle borghesie nazionali che dovevano farsi carico dei problemi del paese, nel bene e nel male. Abbiamo governi “maggiordomi” o “camerieri” o “servi” con funzione di “guardie”, al totale servizio delle imprese nazionali, delle multinazionali e dei loro interessi più immediati. Governi che devono obbedire velocemente.
Ma il tratto ancor più dirompente della nuova fase neoliberista è la finanziarizzazione. Il capitale impiegato nella produzione di merci, come abbiamo già detto, nella fase del “circolo virtuoso” realizzava tassi di profitto troppo bassi. Molte imprese avevano già in quella fase propri settori finanziari che avevano iniziato a svincolarsi dalla mera attività industriale e a indirizzare il capitale in operazioni più redditizie come la rendita fondiaria moderna, investimenti speculativi in borsa e perfino in titoli di stato. Dopo la fine di Bretton Woods, inizia la deregolamentazione delle transazioni finanziarie, visto che la competizione sui mercati internazionali lo richiede imperativamente. Del resto con la libera fluttuazione dei cambi valutari si creano le condizioni per speculare ogni giorno (ogni ora con le nuove tecnologie veloci e praticamente gratuite) con sempre più ingenti masse di capitale scommettendo sulle variazioni di cambio di qualsiasi moneta. E si cancellano nel tempo, negli USA e poi dovunque, tutti i vincoli introdotti dopo il 29 per il settore bancario, come la rigida separazione delle banche di credito che prestavano soldi alle imprese e ai cittadini dalle finanziarie che operavano con investimenti speculativi in borsa. All’inizio del processo le principali finanziarie speculative del mondo erano statunitensi. Ne nasceranno dovunque. E alle scommesse si aggiungono le scommesse sulle scommesse. E così via. Facendo crescere a dismisura il capitale finanziario totalmente separato dalla produzione. Sembra che si possano fare soldi con i soldi. E che grandi e piccoli investitori (in Italia li hanno sempre chiamati risparmiatori, ma in realtà al momento dell’investimento diventano esattamente l’opposto di risparmiatori) possono arricchirsi in breve tempo. Il destino delle nazioni, e della grande maggioranza degli individui (anche quelli che non investono un bel niente) non dipende più dallo sviluppo produttivo, dalla soddisfazione, attraverso il consumo, di bisogni elementari e maturi di società sempre più complesse. Dipende sempre più dagli andamenti dei cambi valutari, dalla borsa, dalla rendita finanziaria. Si diffonde l’illusione che si possa consumare di più di quello che ci si potrebbe permettere attraverso il lavoro. Facendo, appunto, soldi con i soldi. Siccome una parte del capitale speculativo si dedica anche a comprare e vendere imprese, nel processo di concentrazione derivante dalla competizione globale, e a scommettere in borsa sulla capacità di competizione delle imprese, anche queste ultime vedono spesso i propri destini dipendere dalle scommesse che si fanno o non si fanno su di loro e, nel processo di concentrazione e internazionalizzazione delle imprese, l’acquisizione e la vendita di fabbriche e perfino di interi settori produttivi di grandi multinazionali si fanno più secondo la logica degli appetiti speculativi che secondo quella di piani industriali veri e propri.
Tutto questo è alla base della crisi odierna. Perché far soldi con i soldi nel lungo periodo è impossibile. Si può scommettere sulle scommesse a lungo. E indebitarsi molto al di sopra delle proprie possibilità, creando così una crescita completamente virtuale. Ma alla fine se si fanno soldi, da qualche altra parte nel mondo per quanto lontano esso sia o non si veda, ci deve pur essere qualcuno che crea, con il lavoro, il valore sul quale si fonda quello dei soldi. Il giorno che si scopre che quel valore non è stato creato o, come è successo pochi mesi fa, non è scambiabile trasformando il valore della merce in danaro, perché l’acquirente che si è impegnato a comprarlo non è in grado di pagarlo, tutti i titoli di quelli che hanno scommesso sulle scommesse di quelli che hanno investito su una previsione sbagliata perdono di valore. E il sistema crolla. Si può salvarlo per un periodo, semplicemente immettendo nel circuito, e dandoli proprio ai responsabili del disastro, soldi garantiti e non virtuali, da parte degli stati. Con buona pace dei mille liberisti che lo sollecitano contraddicendo ogni loro principio. Distogliendo quei soldi, invece, proprio dalle altre cose su cui andrebbero impiegati. Si tenta, cioè, di rimettere con i piedi per terra lo stesso identico castello speculativo che è caduto rovinosamente. Sapendo che si potrà reggere in piedi sempre per un minor tempo, però. Perché il libero mercato e la libera finanza se non vengono impediti con regole e vincoli, ed anche con la coercizione, vanno alla bolla speculativa come una falena alla luce di notte. Con una sempre maggior velocità.
In Europa, proprio nella culla del “circolo virtuoso”, questo processo neoliberista si sviluppa in modo contradditorio. Un modello economico e sociale che ha accompagnato la ricostruzione dopo la guerra e che ha garantito sviluppo e crescita generale per tutti (nonostante gli enormi problemi e squilibri) non si cancella dalla sera alla mattina. Cominciano a crescere le tendenze di fondo neoliberiste, a partire dalla Gran Bretagna che non a caso all’inizio degli anni 80 sarà la prima ad applicare durissimamente le dottrine neoliberiste, ma esse convivono con gli istituti del welfare, con una forte presenza della stato in economia, ed anche con politiche monetarie comunitarie ancora parzialmente ispirate dallo spirito di Bretton Woods. Per esempio, mentre nel mondo le monete fluttuavano liberamente in Europa viene creato il Serpente Monetario Europeo, che nel 78 diventerà Sistema Monetario Europeo (SME), dal quale la Gran Bretagna rimarrà fuori. Sostanzialmente, non senza problemi, dentro il Mercato Comune i paesi con alta produttività ed esportatori si assumevano il costo, operando sul mercato valutario, di impedire che la bilancia commerciale si squilibrasse eccessivamente con i paesi a bassa produttività ed importatori. Perché alla lunga avrebbe limitato le esportazioni e la stessa crescita dei paesi più forti. Ma, nel corso, del tempo, come era del resto successo con il sistema di Bretton Woods, gli squilibri permisero alla Germania di dominarlo, utilizzandolo sempre più unilateralmente e, data la sua propensione sempre più esportatrice, iniziò fin da subito ad applicare, soprattutto con la sua Banca Centrale, una politica economica neoliberista. Vale la pena di soffermarsi, anche se brevissimamente e aprendo una parentesi, su un fatto praticamente sconosciuto ai molti che parlano a vanvera della Linke e dell’esperienza tedesca. L’unico tentativo di invertire la rotta neoliberista tracciata dalla Banca Centrale Tedesca fu messo in atto nel 98 dal Ministro delle Finanze Oskar Lafontaine, quando insieme al governo francese tentò di avviare una “dialogo macroeconomico” europeo per cambiare gli assi fondamentali delle politiche economiche e monetarie europee, ormai ultraneoliberiste. La Banca Centrale e la Confidustria tedesca lo sconfissero, con l’attivo contributo di gran parte del suo partito a cominciare dal primo ministro Schroder, e dei Verdi. Perciò si dimise dal governo a dalla Presidenza (che equivale alla carica di segretario generale per i partiti italiani) della SPD.
La traiettoria neoliberista seguita nella costruzione europea nel corso di tre decenni richiederebbe una lunghissima trattazione. Non è possibile farla qui. E comunque è stata oggetto di grandi discussioni in occasione della creazione dell’Euro e del tentato varo del Progetto di Costituzione, bocciato nel referendum francese e reiterato come Trattato di Lisbona. Dovrebbe essere patrimonio di qualsiasi persona di SINISTRA. Dovrebbe.
Mi limito a ricordare che dal tentativo di salvaguardare lo “spirito cooperativo” per la stabilità monetaria, che abbiamo lungamente descritto, e di temperare, correggendoli, gli squilibri che in Europa produceva il mercato e la sua logica spontanea, si passa esattamente al contrario. Sul piano mondiale l’Europa diventa, anche in concorrenza “controllata” con gli USA una delle punte di diamante dell’offensiva neoliberista. Infatti adotta una linea, più per responsabilità della Commissione che dei singoli governi, aggressiva e ultraneoliberista verso i paesi del terzo mondo. Apre i mercati finanziari a qualsiasi speculazione e transazione senza alcun controllo. Sul piano interno adotta politiche ispirate da un puro dogmatismo neoliberista, con trattati (Maastricht) che palesemente implementano unicamente la finanziarizzazione, gli interessi dei paesi e delle regioni forti e, naturalmente delle grandi multinazionali, a scapito dei paesi e delle zone deboli. A queste ultime vengono imposti tagli draconiani alla spesa sociale e provvedimenti che trasformano i loro territori in terra di conquista della speculuzione immobiliare e finanziaria.
L’ultimo tema sul quale vorrei soffermarmi, nella descrizione parziale e sommaria della restaurazione neoliberista è quello della guerra.
Come abbiamo detto esiste un legame fra le politiche neoliberiste che negli anni 70 e 80 si affermano, e il crollo dell’Unione Sovietica, del COMECON e del Patto di Varsavia. E’ un punto che andrebbe approfondito. Non è nelle mie capacità farlo. Ma certamente, nel pieno della restaurazione neoliberista che investe l’occidente e di conseguenza tutto il mondo, la fine del socialismo e di economie e sistemi sociali che, per quanto piene di problemi, erano fuori dal mercato capitalistico e dal sistema fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, pone al sistema geopolitico enormi problemi.
In estrema sintesi, gli USA, che come abbiamo visto, hanno mantenuto la loro egemonia politico-militare nel corso dei tre decenni precedenti, scelgono ed impongono a tutti dopo l’89, prima con Bush padre e poi soprattutto con la presidenza democratica Clinton, una linea che si prefigge obiettivi ben precisi. Impedire che l’ONU (altro attore che Keynes e i paesi socialisti avevano sperato diventasse decisivo) si democratizzi e soprattutto, venuta meno la guerra fredda, diventi protagonista, come del resto vorrebbe il suo Statuto, soggetto promotore di pace e di soluzione politica delle controversie internazionali. Impedire che l’ONU e le sue agenzie, come quella sul commercio e lo sviluppo, sulla sanità ecc. possano agire per disturbare gli interessi del capitalismo finanziarizzato. Lo fanno, ottenendo fortissima collaborazione da parte dell’Europa, sia trasformando gli incontri informali del G7, poi G8, in un vero direttorio che sovrasta lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che indica la strada sulla quale tutti devono marciare dal punto di vista economico, politico e militare. Lo fanno trasformando la NATO, che a stretto rigor di logica non avrebbe più motivo di esistere, nel gendarme del mondo che, come succede per la guerra contro la Repubblica Federale Yugoslava, può intervenire militarmente fuori dei propri confini, sulla base di una decisione propria e senza nemmeno che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU abbia discusso di alcunché. Sanno bene i governi degli USA e quelli europei, che gli enormi squilibri che produce e produrrà il modello neoliberista nel mondo non possono che essere “governati” senza democrazia e con la coercizione militare. Del resto i teorici del neoliberismo lo teorizzano apertamente da tempo in sede accademica. Con una minima approssimazione credo si possa dire che tutte le guerre, dalla caduta del muro di Berlino in poi, hanno la caratteristica di produrre instabilità generale e in aree sensibili (balcani e medio oriente per esempio) al fine doppio di giustificare una crescente presenza militare della NATO e dei paesi ricchi e di ristrutturare le relazioni geopolitiche in modo coerente con il dominio del mercato e del sistema capitalistico.
Oggi, nel pieno della crisi, si vede ancor meglio quanto fosse importante strategicamente per gli USA, in gravi difficoltà economiche prodotte dalla incessante tendenza all’indebitamento e dalla forte esposizione alle conseguenze delle bolle speculative connaturata alla concezione dello stato debole in economia, mantenere la propria egemonia politico-militare per se stessi e per il sistema capitalistico mondiale. Le contraddizioni che emergono con forza nella crisi dovrebbero, o potrebbero, produrre la creazione di un ordine mondiale fondato sul multipolarismo (da non confondere con il multilateralismo clintoniano che è solo l’unilateralismo concordato fra i paesi ricchi). Ma lo scontro di civiltà ricercato in ogni modo, e teorizzato due decenni fa da Huntigton come sostitutivo del confronto fra est e ovest e della lotta di classe, e la reiterazione ancor più estremista dei dogmi neoliberisti e della primazia degli organismi come il FMI, dominato politicamente degli USA, unitamente al rilancio della NATO, tendono ad impedire un simile approdo o processo. Tendono, perché in America Latina è aperta la possibilità che si aggreghi un polo geopolitico dotato di un modello economico e sociale non neoliberista e dichiaratamente, in diversi paesi, anticapitalista. E’ la dimostrazione che un altro mondo è possibile. Che dalla crisi irreversibile e strutturale del sistema di può uscire a sinistra. Perciò gli USA e l’attuale governo Obama vogliono eliminare questa possibilità, non esitando ad alimentare la guerra civile in Colombia allo scopo di installare numerose basi militari e a schierare nuovamente (era stata disattivata nel 1950) la IV Flotta al largo delle coste del Venezuela.
Queste 20 pagine riassumono certamente in modo del tutto insufficiente anche i soli tratti salienti dell’enorme processo di ristrutturazione capitalistica nella fase neoliberista. Non avevo, del resto, la presunzione di poterlo fare bene. Ma sono, spero, sufficienti per passare ad analizzare alcuni processi politici e il cambio di significato delle parole che mi sta a cuore chiarire.
Già negli anni 70, all’inizio della restaurazione e della cancellazione progressiva delle esperienze di “circolo virtuoso”, nella SINISTRA italiana avvengono molte cose. Ho già detto della contraddittorietà delle scelte del PCI degli anni 70. Il PSI non ha dubbi e non fa scelte contraddittorie. Decide chiaramente di sposare gli interessi dei settori emergenti del capitalismo finanziario, dedito alla rendita fondiaria moderna. Propugna una modernizzazione del paese, che in realtà non è altro che la riforma complessiva del “sistema italia” affinché possa competere nella giungla-mondo. Lo fa, avendo mantenuto fino ad allora un insediamento e perfino una simbologia operaia, compresi i riti di un partito di SINISTRA. Un lungo saggio del nuovo segretario del PSI, Bettino Craxi uccide Marx e Lenin e rivaluta un incolpevole Proudhon (che si sarà certamente rivoltato nella tomba). Si vedrà bene, nel corso degli anni, quale fosse la vera natura del “socialismo libertario” e contrapposto al vecchiume autoritario comunista. La svolta anticomunista e libertaria del PSI non gli costa nessuna scissione politica. Anzi, una parte dei dirigenti del movimento del 68 (soprattutto di Lotta Continua) ne diventano entusiasti sostenitori. E il PSI sebbene non aumenti molto i propri consensi elettorali riesce a sostituire con nuovi sostenitori l’esodo silenzioso che investe parte della sua base storica. Soprattutto riesce a “pesare” sempre più nella politica italiana. Una vulgata vuole che la tattica di “ALLEARSI” indifferentemente col PCI o con la DC a livello locale e quella di essere partito di GOVERNO e ALLETATO ormai strategico della DC, gli abbia permesso pur con un terzo di voti rispetto al PCI di contare tre volte più di un PCI sempre più isolato ed emarginato sulla scena nazionale. Ma questa è, secondo me, solo una piccola parte della verità. La vera base della forza del PSI, della sua crescente centralità nella vita politica e del suo “peso” risiede, a dispetto della quantità di consensi, nella rappresentanza diretta di interessi emergenti nel capitalismo italiano. Perché leggere i fenomeni politici senza indagarne i nessi con il sistema economico, con la rappresentanza di interessi e con le dinamiche sociali è foriero di gravi abbagli ed errori di valutazione. Il PSI “pesa” sempre più man mano che i settori emergenti del capitalismo crescono, grazie a tutto il processo che abbiamo descritto più sopra. Negli anni 80 siamo già nel pieno del processo di delocalizzazione di grandi fabbriche nei poli industriali. La produzione di merci nella società è stata soppiantata, nella funzione di centro gravitazionale, dalla finanza e dal “terziario avanzato” che è in gran parte legato al mondo della speculazione finanziaria e della rendita fondiaria moderna. Gli operai sono percepiti come una specie in via di estinzione da una opinione pubblica ubriacata dalla novità meravigliosa secondo la quale si possono fare soldi con i soldi. Milioni di persone (ho detto milioni!), anche delle classi meno abbienti, si fermano davanti agli sportelli delle banche ad ammirare i grafici dei listini della borsa sui video, che in tempo reale dicono quanto sta guadagnando il “risparmiatore” che ha investito i suoi soldi (magari l’intera liquidazione) nella speculazione. Il settore delle assicurazioni, delle finanziarie e la trasformazione delle banche in finanziarie dedite alla speculazione, nonché quello della pubblicità, dei mass media televisivi privati e così via, e la cementificazione legata alla rendita fondiaria assorbono buona parte della disoccupazione che ha cominciato a prodursi. La società cambia devvero. Sembra che il nuovo modello modernizzante sia la soluzione di tutti i problemi. Si afferma un “senso comune” secondo il quale la modernizzazione si lascerà alle spalle il vecchio sistema industriale. I suoi difetti come l’inquinamento, i lavori faticosi e ripetitivi, la massificazione della società, la lotta e il conflitto saranno sostituiti da un sistema più moderno, efficiente, si potrà cambiare lavoro cambiando il posto migliorando le proprie condizioni salendo individualmente la gerarchia sociale e non più dovendo lottare per strappare un aumento salariale insieme ad altre migliaia di lavoratori, facilmente si può fondare una piccola impresa commerciale o edilizia giacché il settore tira, nella società si conta non per ciò che si fa bensì per ciò che si consuma sempre più individualisticamente, la solidarietà necessaria fra sfruttati è sostituita sempre più dalla competizione in tutti gli scalini della gerarchia sociale. Ormai ci sono due SINISTRE. Una rappresentata dal PCI che sembra sempre più vecchia e strategicamente perdente (anche agli occhi di una parte del suo gruppo dirigente) perché legata ad una classe che già non ha più la forza contrattuale della fase del “circolo virtuoso” e che diventerà sempre meno importante socialmente e quindi politicamente. E ce ne è un’altra moderna, dinamica, vincente. Che cresce in importanza e che, sebbene le sue dimensioni non dovrebbero permetterglielo, è in grado di contendere alla DC la direzione del sistema politico. Certo, altri piccoli partiti borghesi e parti sempre più grandi della DC si adeguano. Ma gli uni non hanno il vantaggio di coniugare una storia di SINISTRA con le più disinvolte ALLEANZE sul piano degli interessi da rappresentare e gli altri appartengono ad un partito grande, interclassista, cattolico e conservatore e quindi poco coniugabile con i nuovi paradigmi tecnocratici e con “l’edonismo reganiano” sul quale è virato velocemente il progetto ideologicamente “libertario” del PSI. Ancora una volta nella storia è una forza considerata di SINISTRA ad essere la punta di diamante di una restaurazione borghese. E’ proprio un rovesciamento totale del significato delle parole.
Le RIFORME di cui parla il PSI sono in realtà CONTRORIFORME. La SINISTRA incarnata dal PSI è socialmente e anche ideologicamente la DESTRA del pensiero capitalistico dominante. La LIBERTA’ è solo quella individuale competitiva e quella di impresa, non una LIBERAZIONE della classe o delle masse. L’isolamento del PCI non si da solo nel quadro politico, cioè nelle relazioni fra le forze politiche e nella possibilità di ALLEARSI. E’ un processo molto più complesso che ha le sue cause nella perdita di centralità da parte del sistema produttivo e quindi della classe operaia, nella perdita di ALLEATI da parte della classe a causa del trasmigrazione di parti del mondo del lavoro nel settore legato ai settori emergenti e rapaci del capitalismo finanziario e dedito alla speculazione e alla sua galassia di piccole e micro imprese. Culturalmente il PCI ormai fatica a sviluppare “egemonia” in una società nella quale si affermano valori individualistici, competitivi e consumistici fino all’ossessione. Anche perché penetrano nella sua stessa base sociale, fra gli operai, nei quartieri popolari e fra i suoi stessi iscritti.
Già all’inizio degli anni 80 il PCI si era trovato davanti ad un bivio. Ormai il fallimento della politica di “unità nazionale” era chiaro. L’offensiva della FIAT evidenzia due cose precise: a) la volontà del padronato di riconvertire i rapporti di forza facendo della famosa vertenza, anch’essa cominciata con licenziamenti politici come l’ultima di Melfi, il simbolo e la prova che ormai è il capitale all’offensiva e che la classe operaia deve difendersi; b) la classe è isolata, ha perso una parte dei suoi ALLEATI. La famigerata marcia dei 40mila colletti bianchi lo dimostra.
Berlinguer e formalmente, ma solo formalmente, il gruppo dirigente del PCI imboccano la strada a sinistra del bivio. Va ai cancelli della FIAT a condividere fino in fondo le sorti della lotta e della classe. Dichiara finita l’esperienza di “unità nazionale”. Propone la prospettiva dell’alternativa, in netta contrapposizione con l’alternanza già allora teorizzata da Craxi (seppur come semplice avvicendamento fra partiti laici e DC alla guida del governo). Denuncia la degenerazione del sistema politico ponendo la famosa “questione morale”. Ci sono ancora le energie per combattere. Forse ci si può difendere contrattaccando. Ma ci sono due freni che lo impediscono chiaramente dentro il PCI. E’ questo uno dei punti più dolenti da analizzare. Negli anni 70 (come ho detto a torto o a ragione) il PCI sceglie quella strada che abbiamo descritto. Ma su quella strada, essendo un corpo vivo, cambia molto di se stesso. Se la “CULTURA DI GOVERNO” è sempre più legata al “senso di responsabilità” da dimostrare per “salvare il paese”… Se la “difesa delle istituzioni democratiche” diventa difesa astratta dello “STATO” quale esso è, comprese le decisioni autoritarie più inaccettabili sul piano repressivo… Se bisogna mantenere ed estendere i governi locali comunque, indipendentemente da ciò che si può fare di buono, date le nuove condizioni che man mano il superamento del “circolo virtuoso” producono (come succede nella prima giunta di sinistra di Milano del 75 quando il PCI cambia due assessori che fanno una politica invisa a Berlusconi e Ligresti per sostituirli con altri due che finiranno nelle inchieste sulla corruzione e del sacco di Milano)… Insomma se succedono tutte queste cose e decine di migliaia di quadri politici immersi nelle istituzioni si immaginano come classe dirigente e in procinto di cimentarsi con la prova di GOVERNO, proprio nel momento in cui comincia la controffensiva capitalistica, non è difficile capire che cresca l’idea POLITICISTA per cui, senza sentirsi di tradire alcunché, molti pensano che tutto dipenda dalla POLITICA UFFICIALE, dai voti elettorali e dalla capacità di fare ALLEANZE per governare nelle istituzioni. Infatti, all’epoca, nella discussione si parla apertamente del “partito degli amministratori” come della vera anima del PCI.
Queste cose sono freni che agiscono dentro la svolta a SINISTRA del PCI dei primi anni 80. Con silenzi significativi, non applicando e sostenendo le decisioni che si votano, dissentendo sempre più apertamente su riviste di corrente (come “il Moderno”, dei miglioristi lombardi). Berlinguer, che nessuno contesta come segretario, ha una maggioranza reale nel gruppo dirigente ben più risicata di quanto appaia. Forse non l’ha nemmeno più.
Il PSI, dal canto suo, incrementa la svolta a destra. Il pentapartito è ormai l’espressione delle forze laiche totalmente identificate con il nuovo corso dell’economia e delle correnti democristiane che le seguono sullo stesso terreno. E’ una curiosa ALLEANZA strategica, molto competitiva all’interno e instabile circa la leadership della stessa, giacché la DC è riluttante a cederla a chicchessia. Ma questa competitività interna al pentapartito e gli scontri che ne derivano, nel nuovo contesto e data la reale aderenza di tutti al neoliberismo, monopolizzano la politica. È l’anticipazione, nel sistema proporzionale, di una dialettica politica anche molto aspra che però avviene sulla base di scontri personalizzati senza che nessun cardine della politica economica e sociale venga messo in discussione. Addirittura, apparendo le politiche neoliberiste come egemoni ed indiscutibili, per molti versi questa dialettica tende a sussumere perfino quella che dovrebbe esserci fra maggioranza ed opposizione. Il gioco politico si consumava ed esauriva li dentro. Craxi ne era cosciente. Molti a SINISTRA pensavano e dicevano: “speriamo che Craxi sconfigga la DC.” “Meglio Craxi che De Mita.” Tutto ciò oscurava la vera natura restauratrice del progetto craxiano. Se invece che analizzare i contenuti della politica praticata si giudicavano le forze secondo concetti e parole ormai dal significato cangiante era facile scambiare il PSI come la SINISTRA DI GOVERNO possibile. Del resto il PSI comincia a teorizzare il superamento della prima repubblica, è sempre più incline al Presidenzialismo, e decide di forzare la situazione con una spallata. La cancellazione dei 4 punti di scala mobile (pochissime migliaia di lire sulla busta paga) sancisce la sconfitta del movimento operaio, ne distrugge la forza contrattuale visto che da quel momento dovrà lottare non più per incrementare il salario bensì per difenderlo, chiarisce che il lavoro è una merce il cui prezzo è legato esclusivamente alla produttività e al profitto e non può in nessun caso essere considerato una “variabile indipendente” da questi fattori. Determina, infine, che nella competizione che comporta svalutazione della lira ed inflazione sul mercato interno a pagare il prezzo più alto dovranno essere i lavoratori. Ovviamente la discussione, da parte dei sostenitori del provvedimento, è inquinata dalla presunta “oggettività” e necessità dello stesso, da un falso minimalismo (ma come! Tutto questo casino per poche migliaia di lire!) e soprattutto dall’accusa al PCI di fare demagogia, di aver abbandonato il “senso di responsabilità” che pure era stato così apprezzato in passato. Sono gli stessi argomenti che sempre più fortemente vengono usati nella discussione interna al PCI. Dov’è finita la politica di UNITA’ DELLA SINISTRA? Dove il “senso di responsabilità”? Dove è sparita la CULTURA DI GOVERNO? Dove ci porterà questo scontro frontale con i socialisti? All’isolamento, senza più capacità di ALLEANZE! In alcune federazioni i gruppi dirigenti locali, invece che organizzare e promuovere i Comitati per il SI al referendum che sarà poi promosso dal PCI, raccoglievano firme di iscritti e personalità dell’area del PCI che dichiaravano il NO.
Basta leggersi il Programma di Licio Gelli per capire come da allora in poi, ogni volta che si parlerà di modernizzazione del paese, del sistema politico e delle istituzioni, ricorreranno le proposte in esso contenute. Fino ai giorni nostri. Ma non si trattava solo e nemmeno prevalentemente di un complotto, per quanto sia intrisa di manovre oscure ed inconfessabili la vicenda della P2. Il sistema italiano, il “circolo virtuoso”, il PCI come forza anticapitalista dotata di un vastissimo consenso, e soprattutto Costituzione, natura parlamentare della Repubblica, dovevano essere per forza rimossi per permettere il dispiegarsi delle politiche neoliberiste. Con qualsiasi mezzo.
Il PCI si tolse di torno da se. Già dopo la morte di Berlinguer e la sconfitta del referendum la maggioranza del gruppo dirigente fa un compromesso fortemente orientato a destra. Lo scontro con i socialisti continua, soprattutto per volontà di questi ultimi che alternano attacchi durissimi a profferte unitarie sulla base della loro egemonia, ma appare sempre più come una sorta di contrapposizione priva di contenuti che non siano la collocazione nel quadro politico. Oramai la separazione del PARTITO dalle sorti dei suoi referenti sociali è evidente nell’ansia di “GOVERNO” che un corpo politico di dirigenti nazionali e locali non nasconde più. I socialisti che per un decennio hanno attaccato, non a caso, Togliatti e chiesto al PCI una svolta ideologica cominciano ad ottenerla. Per quanto Occhetto parli di SINISTRA DIFFUSA, di COSTITUENTE di un NUOVO PARTITO DI SINISTRA, e sembri proporre svolte di SINISTRA come quella che dovrebbe farla finita con il “consociativismo” e quella “ambientalista”, in realtà si prepara solo la rimozione dei simboli e dei cardini sociali ed ideologici che avevano mantenuto sempre il PCI nell’ambito della opzione politica anticapitalista. Ma sulla fine del PCI, come sulla nascita di Rifondazione, non dirò più nulla. Sono temi che mi porterebbero fuori dalla strada che ispira queste riflessioni e comunque meritevoli di ben altri approfondimenti.
Seconda fase, parte seconda.
E’ così che si arriva alla cosiddetta SECONDA REPUBBLICA.
Dopo la caduta del Muro di Berlino il capitale trionfa. Non solo si espande in una parte del territorio del pianeta prima escluso dal mercato e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma si dimostra che non esiste alternativa al sistema. E che quindi la Storia è finita. E’ la fine delle ideologie, perché ha trionfato quella egemone nel mondo. Ci possono essere mille sfumature, ma solo nell’ambito dell’idelogia vincente, che non a caso i resistenti chiamano spregiativamente “pensiero unico”.
Il PDS non è il PCI che ha cambiato nome, separandosi dal vecchiume comunista che per giunta viene accusato di non essere certamente l’erede del meglio della tradizione del PCI, che subisce una rilettura revisionistica, fino alla tesi che in realtà il PCI non è mai stato comunista (sic!), bensì socialdemocratico. Il PDS aderisce all’Internazionale Socialista e al Partito Socialista Europeo proprio nel momento in cui diventano la punta di diamante politica dell’offensiva neoliberista in Europa e nel mondo. Sposa l’idea che è necessario “modernizzare” e rendere efficiente il sistema politico attraverso riforme elettorali maggioritarie. La Lega delle Coorperative ormai è un colosso capitalistico, che applica nelle proprie aziende relazioni sindacali perfino peggiori di quelle confindustriali, i suoi settori finanziari ed assicurativi fanno parte del vorace capitalismo speculativo, i settori edilizi partecipano al banchetto. Il sindacato decide di assumere in tutto e per tutto le compatibilità del sistema neoliberista. Non più solo contrattando difensivamente i “sacrifici necessari a salvare il paese”, che non finiscono mai, ma partecipando, con la concertazione a renderli istituzionali, permanenti e praticamente indiscutibili nella contrattazione aziendale. In dieci anni siamo passati dal taglio di “poche migliaia di lire” all’accordo secondo il quale i sindacati si impegnano a contenere le richieste di aumento salariale nell’ambito dell’inflazione programmata, e cioè molto al di sotto della inflazione reale. Non si può nemmeno più lottare per conservare il potere d’acquisto del salario. In seguito accetteranno la riforma pensionistica e la conseguente istituzione dei fondi pensione, che nel mondo stanno diventando una leva immensa della speculazione finanziaria. La competizione esasperata ha prodotto un maggior disequilibrio fra i diversi paesi europei, e l’ingresso dei nuovi paesi è voluto, si dice per motivi politici, ma “permesso” solo se questi ultimi prima di entrare si ristrutturano trasformandosi in terra di conquista per le multinazionali, ma anche per le piccole imprese italiane, e soprattutto per il capitale finanziario e speculativo. All’interno dei singoli paesi cresce lo squilibrio fra zone che competono e zone che non reggono la competizione. Essendo i mercati liberi la funzione di mediazione e di riequilibrio dello stato si riduce fortissimamente. Per questo, e solo per questo, diventano tutti federalisti. PDS in testa. Tutta la retorica dell’autogoverno locale, dei rappresentanti più vicini ai cittadini, della democrazia moderna ed efficiente, riposa su una idea di riforma dello stato che deve accompagnare e implementare l’uccisione di quel che resta del “circolo virtuoso” per permettere ai “sistemi impresa” locali delle zone ricche di competere con le zone ricche in Europa e nel mondo, e alle zone deboli di competere con le zone deboli, mettendo a disposizione del mercato tutto al fine di attrarre investimenti. Povero Altiero Spinelli!
Ma nel sistema politico italiano il PDS è considerato di SINISTRA. Qualcuno mi vuol dire cosa c’entra quello che il PDS ha teorizzato e fatto negli anni 90 con la SINISTRA, sempre che la SINISTRA sia quella di cui abbiamo parlato nel corso di questo scritto?
Io, come si vede, non parlo nemmeno del fenomeno della destra italiana e della ristrutturazione del sistema politico nel periodo di tangentopoli. Sarebbe necessario, per la completezza del ragionamento, ma la trattazione sarebbe così lunga che non finirei più. E comunque sono abbastanza scontati perché molto discussi e trattati. Mi sta a cuore approfondire alcuni elementi che secondo me sono quasi totalmente sottovalutati o volutamente omessi dalla discussione attuale.
Il PDS compete con la destra? Si, certamente. Ma non per migliorare le condizioni di vita degli operai, degli impiegati, dei pensionati, degli studenti e così via. O meglio, dice di volerlo fare. Come del resto lo dice la destra. O forse che Berlusconi che promette posti di lavoro e la Lega che promette che cacciando gli immigrati ci saranno risorse per gli italiani, non lo fanno? Ma il PDS attacca la destra accusandola di fare demagogia. Dice esplicitamente che è il tempo dei sacrifici, dei tagli di bilancio per ridurre il debito pubblico e per stare negli accordi di Maastricht. Dice che il sindacato deve “concertare” e non configgere. Dice che per competere bisogna rendere “flessibile” il mercato del lavoro. Dice che bisogna privatizzare tutto. Dice che bisogna aumentare la spesa militare e partecipare alle missioni militari (cioè alle guerre) per continuare ad essere un paese “importante”. Dice che bisogna “modernizzare” la Costituzione. La GOVERNABILITA’ diventa il tutto! E dice che senza fare queste cose, ed altre che ometto per brevità, non è possibile ricreare le condizioni affinché dello “sviluppo” tornino ad avere qualche vantaggio anche le masse popolari. E’ la politica dei due tempi. Ma il secondo tempo non viene mai, e non può venire per il semplice motivo che il primo tempo distrugge sempre più i presupposti del secondo.
Torno a chiedere: è di SINISTRA tutto questo? Sfido chiunque a dirmi e dimostrarmi che ho esagerato.
E’ ispirato dal SETTARISMO descrivere così questa realtà, in sede analitica? Io penso di no. Però penso che sia SETTARIA l’idea che basti dire che il PDS non era di SINISTRA, dando vita ad una disputa nominalistica, per fare e possibilmente vincere una battaglia politico-culturale. Tuttavia senza avere chiaro in testa cosa sia veramente di SINISTRA e cosa no è facile fare un errore madornale. Pensare, cioè, che la politica delle ALLEANZE nella sfera della politica unifichi nella società un blocco sociale che accumulando forze diventi in grado di produrre nuove conquiste e di cambiare, anche solo minimamente, la realtà.
E’ il grande equivoco degli anni 90. Noi decidemmo, giustamente, di stare ai contenuti e di non diventare SETTARI, per non cadere nell’illusione che la denuncia delle contraddizioni e l’accusa al PDS di non essere di sinistra potesse risolverci il problema. I nostri referenti sociali erano piegati, sconfitti, le loro condizioni di vita erano peggiorate e continuavano a peggiorare, le loro organizzazioni sociali, come il sindacato, stavano sempre più fra quelli che gli predicavano sacrifici e che giustificavano sconfitte, nel mondo trionfava il capitalismo, il senso comune era ormai degenerato in individualismo, razzismo, xenofobia. Bisognava parlare di contenuti, di lotte. E bisognava farlo sapendo di non essere un partito di massa. Né per la quantità degli iscritti e dei voti né, tanto meno, per i legami diretti con la classe, con la società, sempre più isolata e indebolita l’una e sempre più disarticolata e atomizzata l’altra. Alcuni credevano che bastasse alzare una bandiera, perché pensavano che l’isolamento della classe e l’egemonia della destra nella società fosse soprattutto il prodotto di un fatto politico: la scomparsa del PCI. Mentre, come abbiamo visto, era vero esattamente l’opposto. Era il PCI ad essere stato cancellato per effetto della controffensiva del capitale che gli aveva tagliato le gambe nella società e che aveva messo di fronte ad un secondo bivio il suo gruppo dirigente. O resistiamo e ci scordiamo per un lungo periodo il GOVERNO e la nostra ascesa a “classe dirigente” o ci adeguiamo, separiamo il nostro destino da quello della classe e diventiamo una opzione realisticamente in grado di GOVERNARE il sistema dato, come esso è, circoscrivendo la nostra alternatività alla destra sui metodi di gestione del sistema, sui tempi e anche sullo “stile” di GOVERNO, ma non sulla sostanza. E’ abbastanza difficile pensare che se il gruppo dirigente del PCI avesse, diciamo così, tenuto duro e continuato a sviluppare una politica anticapitalista, avrebbe avuto davanti una strada in discesa. Molto sarebbe cambiato, certo. Ma non l’essenziale. Perché nelle condizioni internazionali e con la fine del socialismo reale, con la ristrutturazione capitalistica e la competizione totale, si sarebbe aperta una fase difensiva. E quando ci si difende, magari per decenni, in condizioni sempre più difficili, si finisce con l’indebolirsi. E alla fine si diventa sempre più isolati e percepiti come inutili al fine di migliorare le condizioni di vita della gente in carne ed ossa. Nella storia bisogna sapere quando si può avanzare e quando si deve resistere. Se si pensa di avanzare senza aver prima resistito, o se si pensa di avanzare invece che resistere quando resistere è imprescindibile, è matematico che ci si trova dall’altra parte della barricata. Parimenti, quando stai in una trincea a difenderti e vedi disertare una buona parte dello stato maggiore e della truppa, per quanto tu gli gridi “traditori” e loro ti rispondano dall’altra trincea “vieni anche tu che così non ha perso nessuno” tu sei più debole e quelli che vuoi difendere dietro di te, per quanto ti dicano “meno male che ci sei” o “almeno tu sei coerente” e pensino che tu sei uno di loro percepiscono che perderai. Con onore, ma perderai. E questo, in politica, è esiziale.
Ciò che devi fare è resistere, si. Combattere, si. Ma devi avere una strategia per uscire dalla resistenza sempre più passiva, per contrattaccare e possibilmente per vincere qualche battaglia. Al fine di tornare ad accumulare forze.
Magari devi passare alla guerra di movimento. Alla guerriglia. Fuor di metafora, se sei un partito di massa, con profonde radici nella classe e legami sociali, e se combatti su un terreno favorevole come il “circolo virtuoso” a tua volta instauri un “circolo virtuoso”. Conquisti parti importanti per un blocco sociale alternativo e sei in grado di fare una ALLEANZA con altri perché l’unità quando si avanza e si vincono battaglie importanti è relativamente facile costruirla. Mentre quando si arretra e perde, si deve resistere per un lungo periodo in condizioni difficili e si fatica a vedere una via d’uscita, è molto difficile. Molto.
Rimandiamo, per il momento, il tema di come si possa resistere e passare alla controffensiva. Perché in realtà la metafora che ho usato è incompleta e può essere perfino fuorviante.
Negli anni 90 oltre alla ristrutturazione del sistema economico e a tutto il processo di modificazione del modello sociale che abbiamo solo parzialmente descritto, in Italia, proprio per l’alto tasso di incompatibilità del sistema politico parlamentare e dei poteri reali del governo con la “necessità” imposta dalle nuove condizioni economiche l’attacco alla democrazia politica è stato furibondo. In Italia, al contrario di altri paesi che hanno già sistemi politici pronti per essere usati alla bisogna nella nuova fase capitalistica, il sistema politico deve essere cambiato radicalmente. Nei paesi retti da bipartitismi già interni alla pura logica della gestione e del governo dell’esistente come gli USA, o in paesi con sistema bipartitico dove uno dei due partiti ha una storia e un insediamento di SINISTRA come la Gran Bretagna, i sistemi politici possono tranquillamente rimanere come sono. Anzi, diventano dei modelli a cui ispirarsi proprio perché, nonostante abbiano sistemi elettorali immutati da quando votavano solo poche centinaia di migliaia di persone perché erano nei fatti la classe dirigente del paese, sono più congeniali a incanalare il consenso unicamente dentro il GOVERNO dell’esistente con la rapidità e il grado di autonomia delle istituzioni dal conflitto sociale necessari a prendere tutte le misure imposte dalla competizione globale delle imprese e della finanza. In Gran Bretagna basta che il Labour Party si trasformi. Non c’è bisogno di cambiare il sistema. Infatti il Labour abbandona, oltre a qualsiasi riferimento alla lotta di classe ecc. anche la sua idea proporzionalista della riforma elettorale. Così è in molti altri paesi, che hanno leggi proporzionali, fortemente proporzionali, o sostanzialmente proporzionali, ma dove la storia ha creato un bipartitismo di fatto. Spagna e Germania, per esempio. Anche qui basta che uno dei due partiti diventi anch’esso neoliberista e il gioco è fatto. In Italia no, non è così. Qui c’è un sistema parlamentare. Le leggi si fanno in parlamento. La rappresentanza è eletta sulla base della scelta da parte dei cittadini, motivata dal complesso di fattori che identificano una proposta politica, sociale, culturale e anche ideologica. La rappresentanza degli interessi, per quanto mediata dai fattori appena detti, è ben visibile e si riflette, almeno per tre decenni e più, direttamente nella linea di condotta dei partiti in parlamento. Soprattutto il gioco politico delle ALLEANZE e degli scontri fra le forze politiche si fanno a valle del voto popolare, proprio nella attività parlamentare. Il che rende deboli i GOVERNI, e cioè esposti a ciò che si muove nella società e si riflette nella rappresentanza istituzionale. Le ALLEANZE sono sempre a geometria variabile perché la realtà sociale che cambia influisce. Come ha fatto l’Italia a diventare la sesta potenza economica del mondo pur cambiando due tre o anche quattro volte il GOVERNO nel corso di una legislatura? Da un punto di vista strettamente strumentale la fase del “circolo virtuoso” si sarebbe bloccata con la legge truffa. Con un parlamento stabilizzato dentro il bipolarismo le lotte non avrebbero avuto la possibilità di incidere, magari determinando la caduta di governi e nuove ALLEANZE fondate sulla base dei nuovi equilibri sociali. E quelle lotte sconfitte avrebbero bloccato il “circolo virtuoso” perché in assenza di aumenti salariali indiretti e garantiti dallo stato (welfare) il mercato interno si sarebbe bloccato. E con esso il sistema. In realtà la stabilità di governo intorno alla DC c’è sempre stata. Il ricambio continuo dei governi, al contrario di tutta la litania cantata per giustificare il maggioritario in Italia (come si fa ad avere un paese che cambia governo due volte all’anno?), è stato proprio uno dei fattori che ha permesso una sostanziale stabilità del sistema, perché la politica e i governi si adattavano e seguivano le mutazioni sociali continuamente. Perché, altrimenti, il popolo italiano avrebbe votato così tanto ad ogni elezione, ben al di sopra della media di tutti gli altri paesi dell’OCSE? Perché con il voto si contava, si sapeva che si influiva sulla realtà economico-sociale del paese e sulla propria condizione di vita. Non si votava per un leader e per le sue promesse demagogiche, tanto meno per orientare il gioco delle ALLEANZE e degli scontri fra partiti nelle istituzioni. Quella dimensione c’era, ovviamente. Ma dipendeva strettamente dal legame della politica e di quella stessa dialettica a tutto ciò che si muoveva nella società. Ed infatti, nonostante tutto, era una dialettica seria, rigorosa, e sebbene molto tecnica e sofisticata, infinitamente più chiara e comprensibile da parte dei cittadini e delle classi sociali rispetto al teatrino spettacolare dei giorni nostri. Le grida e gli insulti, le curve contrapposte, i leader, la demagogia e le “speranze” che sono in grado di suscitare, non hanno reso la POLITICA più chiara e comprensibile, in modo da permettere ai cittadini di scegliere, al momento del voto, sulla base di ragionamenti e di interessi precisi, e sulla base della vicinanza a idee e proposte. Al contrario li hanno fatti diventare sempre più spettatori passivi del “gioco politico” riservando a loro solo il diritto di poter fare il tifo per uno dei due contendenti. Anche per il più tifoso il grado di partecipazione alla formazione delle decisioni e dei veri contenuti delle scelte politiche è stato ridotto quasi a zero. Ma torniamo alla STABILITA’ di GOVERNO. Alla GOVERNABILITA’. Essa diventa il mantra ripetuto ossessivamente per anni e anni. Bisogna, infatti, con una tipica operazione mistificatoria, accompagnare l’indebolimento della funzione di governo, molte delle cui prerogative nella fase del “circolo virtuoso” sono fuggite semplicemente verso le pure dinamiche di mercato, verso organismi internazionali a-democratici e sovrastanti i governi nazionali, verso i privati ai quali si sono vendute le imprese statali, verso la banca centrale europea, verso la finanza (“i cittadini votano ogni tanto ma la borsa vota tutti i giorni” ha detto un noto premier italiano) e così via, al rafforzamento dei poteri del GOVERNO nei confronti del parlamento e in generale della società. In realtà questo rafforzamento del GOVERNO non serve ai “politici” per darsi più importanza. Al contrario di quel che credono molti neofiti adoratori del potere in quanto tale che si mettono la parola GOVERNO e GOVERNABILITA’ in bocca ogni frase che dicono e qualsiasi tema affrontino. Il rafforzamento del GOVERNO è proprio una necessità oggettiva del capitalismo e del modello sociale neoliberista. Esattamente, mi si permetta il paragone, come la guerra lo è per GOVERNARE il mondo trasformato in un grande mercato. Nel sistema del “circolo virtuoso” il compromesso sociale cui era stato costretto il capitalismo, come ho già detto, prevedeva una forte funzione di governo politico e pubblico dell’economia. Ora la funzione è rovesciata. L’economia comanda sulla politica, la orienta la dirige. Quindi c’è bisogno di un esecutore. Di un “amministratore” politico. Non di un luogo di decisione nel quale si media fra interessi anche contrapposti recependo, seppur in forma spesso squilibrata, i rapporti rapporti di forza sociali. Bensì di un luogo dove si amministrano le conseguenze di decisioni “oggettive” ed indiscutibili. I rapporti di forza sociali, le domande, le proteste, le rivendicazioni, sono da tenere fuori dalla porta. Sono incompatibili con la funzione di GOVERNO. E quando le decisioni applicate dal GOVERNO sono talmente stridenti (e cioè capaci di incrinare il consenso elettorale) con la coesione sociale si allargano le braccia e si indicano con l’indice i veri responsabili che impediscono al GOVERNO di ascoltare la società: “l’ha detto il FMI! L’ha detto la Banca centrale europea! L’ha detto la borsa! l’ha detto Marchionne!”. Di più, le rivendicazioni sociali, le lotte, devono diventare impolitiche. Devono cioè, essere impedite di pretendere una qualsiasi cosa che metta in discussione l’economia e le decisioni che il GOVERNO amministra. Per questo gioco il bipolarismo e il sistema elettorale maggioritario sono perfetti. L’alternanza (e non l’alternativa ovviamente) dei governi che condividono le compatibilità del sistema riduce lo spettro delle decisioni cui i cittadini, con le lotte e con il voto, possono partecipare alla mera scelta di chi amministrerà le decisioni del FMI. Dentro questo spettro c’è spazio per scontri epici nei talk show, per contrapposizioni mortali, per colpi bassi di ogni tipo. La realtà sociale deve essa conformarsi a questo spettro, non può pretendere di allargarlo a scelte che possano mettere in discussione il sistema. Se qualcuno tenta di farlo basta dirgli che farebbe cadere il governo in carica favorendo l’altro schieramento. Lo si mette fuori dalla POLITICA in quanto la POLITICA ufficiale ormai è solo la cosa che si occupa di chi amministra l’esistente e delle mille manovre e scontri per sedersi al GOVERNO. Le ALLEANZE non sono sociali fra classi e ceti e settori e categorie che trovano nella ALLEANZA delle rappresentanze e in decisioni proprie del GOVERNO un coronamento politico e la realizzazione di obiettivi concreti. Le ALLEANZE sono coalizioni capaci di conquistare il GOVERNO. Se per caso, come è successo in Italia, per conquistare il GOVERNO è necessario ALLEARSI anche con una forza che propugna il cambiamento e che palesa una CULTURA DI GOVERNO incompatibile con il governo dell’esistente questa viene massacrata. Non dimenticherò mai quando dal 96 al 98 in Europa ci fu un fenomeno per cui tre governi contenevano forze che ponevano una anche solo timida inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberiste. Il governo francese pose problemi al trattato di Maastricht, varò la legge delle 35 ore, solo per dire due cose. Nel governo tedesco il ministro dell’economia che era anche il Presidente della SPD e vice primo ministro tentò di mettere in discussione, in accordo con il sindacato (beato lui), le politiche monetariste della banca centrale tedesca ed europea, e noi chiedemmo al governo che viveva grazie ai nostri voti poche e limitate cose. Nel volgere di pochi mesi Lafontaine fu scaraventato fuori dal governo, noi pure con l’accusa che i libPerchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (1)2010-09-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558148Fin dalla sua nascita Rifondazione Comunista ha ricevuto, alternativamente, le accuse di essere settaria, estremista, identitaria, oppure, quando ha scelto di proporre percorsi unitari e/o produrre alleanze elettorali o di governo locali o nazionali, di essere traditrice dei propri principi, governista, integrata nel sistema separato della politica-spettacolo.
Questa due accuse sono state formulate da soggetti diversi e spesso entrambe, come se nulla fosse, dagli stessi soggetti e persone.
Torna, come un tormentone, man mano che si avvicina la prossima scadenza elettorale nazionale, anticipata o meno, la logica di uno scontro prima allusivo e velato e poi, speriamo di no, dirompente, che ci dovrebbe dividere fra settari e governisti. Fra stupidi incapaci di coniugare la propria identità con la politica delle “alleanze” e liquidatori di principi e valori per una convenienza particolare (si potrebbe dire perfino privata giacché sono in gioco i posti nelle istituzioni) del ceto politico dirigente.
La dialettica fra questi due poli del contendere ha una sua logica, una sua base oggettiva e strutturale. Si alimenta, cioè, non solo della volontà polemica degli estremisti dei due campi contrapposti, bensì della spinta oggettiva e potente della realtà sociale prodotta dalla ristrutturazione capitalistica, dalla “riforma” delle istituzioni sfociata nella “seconda repubblica”, dalla cultura egemone ispirata dal pensiero unico e dai mass media che la implementano a sviluppano incessantemente.
Come si può ben capire da queste mie parole penso che sia distruttiva dell’autonomia di classe e di pensiero di una forza comunista. Che è sempre il bene più prezioso ed indispensabile per elaborare analisi, strategie e tattiche volte a cambiare la realtà e non semplicemente a descriverla o ad adeguarsi ad essa nella speranza di ricavarne qualche vantaggio volatile.
Ma prima di arrivare al punto, e cioè alla forma in cui si manifesta oggi questa nefasta contrapposizione, vorrei insistere, per capirci bene, sulle cause che la riproducono continuamente.
E per farlo partirò da lontano e userò delle parole chiave, il cui significato e senso è stato stravolto dalla ristrutturazione capitalistica e spesso trasformato nell’esatto contrario. Senza chiarire cosa si intende per sinistra, alleanze, politica, sociale, governo, partito, sindacato, movimento, lotta, elezioni, istituzioni e così via il dialogo è fra sordi. Invece che produrre confronto e ricerca di sintesi e unità partorisce scontri, contrapposizioni e anatemi.
Così dicendo ho certamente dichiarato una intenzione certamente troppo ambiziosa. Tuttavia mi cimento con questa impresa chiedendo preventivamente scusa per schematismi e sommarietà del ragionamento.
Ragionamento che seguirà un filo temporale ripercorrendo due fasi intrecciate fra modello capitalistico-sociale e dinamiche politico-istituzioinali.
La prima, divisa in due parti, dall’avvento del centrosinistra nel 64, è quella del modello fordista keinesiano.
La seconda è quella neo liberista, divisa anch’essa in due parti dall’avvento della cosiddetta seconda repubblica.
Prima fase, parte prima.
Nel dopoguerra si sono date condizioni speciali, in Europa e in Italia, che sono state alla base di enormi trasformazioni e che hanno permesso alle forze comuniste ed anticapitaliste di avanzare e conquistare potere nella società e nelle istituzioni.
Da una parte l’esistenza del campo socialista e la necessità delle borghesie europee di concedere (ma è meglio dire cedere perché nulla è arrivato senza lotte anche sanguinose e durissime) parte del loro potere e dei loro profitti per evitare di essere travolte dall’avanzata della classe operaia e più in generale delle masse popolari. Dall’altra la fase fordista del capitalismo, fondato soprattutto sulla produzione di merci e beni materiali e sulla necessità di crescita dei mercati interni nazionali, ha consegnato al movimento operaio organizzato la forza contrattuale per far valere le proprie rivendicazioni nei luoghi della produzione e nello stato.
E’ su queste due basi che si fonda l’intervento dello stato in economia (una bestemmia per il pensiero liberale classico) e la capacità del movimento operaio di agire contemporaneamente sul versante della lotta in fabbrica e su quello della politica.
Ovviamente nulla è mai lineare ed univoco. Ma non si può negare in nessun modo che questa sia stata la tendenza di fondo dal 45 all’inizio degli anni 70. Altrettanto ovviamente in ogni paese dell’europa occidentale ci sono state condizioni diverse ed anche progetti diversi, sia di strutture economiche e produttive sia istituzionali e politiche. Ma, con l’eccezione della Spagna dove il fascismo ha partorito uno stato tanto debole ed estraneo all’economia, lasciata totalmente nelle mani dei padroni, quanto forte negli apparati repressivi, in tutti i paesi abbiamo avuto forti movimenti operai organizzati, forti partiti di sinistra, imprese pubbliche nei settori strategici, un welfare diffuso, forte e crescente.
Tralascio volutamente di parlare delle differenze tra l’esperienza italiana, fortemente condizionata dal partito comunista e dal sindacato di classe, ma anche più subalterna agli USA e al Vaticano, e le altre.
Va ricordato, però, che il keinesismo imperante in quell’epoca aveva limiti precisi, anche rispetto alla propria impostazione teorica. Un esempio valga per tutti: Keynes aveva teorizzato la necessità di mettere sotto controllo i cambi valutari, sia allo scopo di evitare le crisi prodotte dalle speculazioni sia a quello di creare maggior stabilità e multilateralità nel sistema mondiale. L’impostazione era quella secondo la quale finanza e commercio dovevano servire l’economia reale e non autonomizzarsi, per evitare e scongiurare l’intrinseca tendenza del capitale a separare i valori di scambio (moneta) con i valori d’uso (merci per il consumo). Non essendo possibile fondare la base del sistema valutario unicamente sull’oro, che sarebbe stato un ostacolo alla crescita, l’idea era quella di fondare, a Bretton Woods, un sistema basato su una moneta non statale (Bancor) e su un accordo multilaterale di tutte le nazioni del pianeta. Questa impostazione era certamente condivisa dall’URSS e sembrava trovare i favori anche dell’amministrazione Roosvelt negli USA, ma alla fine gli USA imposero il dollaro come moneta generale degli scambi, fissandone la parità con l’oro a 35 dollari per oncia, e soprattutto ottennero che il nuovo organismo internazionale (FMI) fosse fondato non sul principio di un voto per ogni stato membro (come all’ONU) bensì sulla base delle quote di dollari versate nelle casse del Fondo. E si assicurarono, unici al mondo, il potere di veto. Così, la stabilità che venne garantita dal FMI per lungo tempo, produsse una asimmetrica crescita. Dominata del potere dell’economia reale, politica e finanziaria degli USA. Che consolidarono il loro potere classicamente imperialistico e produssero una forma bastarda del keinesismo che negli USA dura tuttora, fondata sul militare. Quando nel 1971 cominciò la grande offensiva neoliberista gli USA poterono cancellare in una notte il sistema volto a garantire l’equilibrio negli scambi valutari e commerciali, dichiarando l’inconvertibilità del dollaro in oro.
Ma torniamo al modello fordista e a quello keinesiano di stato fortemente regolatore dell’economia capitalistica.
Nel corso di quasi tre decenni imperò un compromesso sociale ben preciso e definito. L’industria privata doveva sottostare alla programmazione economica dello stato, che del resto la finanziava e sosteneva sui mercati internazionali. E che in seguitò possederà in proprio imprese nei settori strategici come energia, trasporti e banche. La crescita dei salari diretti e di quelli indiretti (welfare) garantiva la crescita del mercato interno e, conseguentemente, lo sviluppo produttivo. Le Piccole e Medie Imprese (PIM) crescevano sia per effetto dello sviluppo generale sia grazie al sostegno indiretto dello stato attraverso la rete di infrastrutture e il credito garantito dalle banche locali e dello stato.
In questo contesto il movimento operaio poteva far valere le proprie rivendicazioni salariali. Poteva conquistare maggior potere nei luoghi produttivi giacché, grazie al sindacato a al partito di classe, faceva valere i propri interessi come interessi generali dicendo la propria, anche attraverso l’allora efficacissima arma del conflitto e dello sciopero, sugli indirizzi strategici della produzione e dell’organizzazione del lavoro. Poteva, grazie al sistema parlamentare su cui era fondata la democrazia politica nella repubblica, usare la propria rappresentanza per conquistare leggi e riforme coerenti con i propri interessi.
E’ chiaro che sto parlando del meglio del sistema. Non mancavano contraddizioni e problemi di ogni tipo. Ma corruzione, clientelismo, favoritismi, malversazioni, usi impropri del potere pubblico in economia e chi più ne ha più ne metta, per un lungo periodo non sono stati elementi sufficienti per cancellare il “circolo virtuoso” di cui sopra. Tralascio per brevità gli squilibri territoriali nord sud e soprattutto la politica attiva degli USA in Italia, nel contesto della ben esistente guerra fredda. Ma, ripeto, il “circolo virtuoso” reggeva. Ed ha prodotto, per dirla in soldoni, il paradigma secondo il quale la crescita era diseguale, squilibrata e classista, ma si traduceva in un avanzamento nelle condizioni di vita per tutti. La forbice fra ricchi e poveri si accorciava nei fatti. Ed ogni generazione aveva la certezza di vivere meglio della precedente. In tutti i sensi.
Ed ora cominciamo a “giocare” con certe parole che si usano oggi come allora ma che hanno completamente cambiato di significato. Il paragone fra i due significati, quello di allora e quello di oggi, lo farò alla fine dell’articolo. Ma chiunque potrà fare già subito, da se, un confronto con ciò che si sente dire ripetutamente oggi.
SINISTRA. A meno di parlare di sinistra liberale o liberaldemocratica, di sinistra cattolica ecc. (il termine sinistra è pur sempre un termine relativo e si può essere la sinistra di qualsiasi cosa) è fuor di dubbio che in quei decenni la parola SINISTRA indentificava il complesso di forze politiche e sociali che si proponevano il superamento del capitalismo e la costruzione di una società socialista. Che erano indiscutibilmente per una società fondata sul lavoro. Che erano ostili alla rendita fondiaria e finanziaria. Che consideravano il miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari come un obiettivo basilare e fondante qualsiasi tipo di proposta politica. Che erano per un nuovo ordine internazionale, contro la guerra fredda, a favore di tutti i movimenti di liberazione nazionale contro il colonialismo. Che consideravano i diritti sociali e di cittadinanza previsti dalla costituzione come architravi della democrazia politica, dichiarando una concezione della democrazia stessa ben al di la delle concezioni liberali o borghesi. Che pensavano e producevano istituzioni di democrazia diretta e dal basso come i consigli di fabbrica ecc. E si potrebbe continuare a lungo a descrivere gli elementi e i contenuti senza i quali era perfino inimmaginabile, allora, considerare di sinistra una organizzazione, un partito o anche una semplice persona.
C’erano differenze nel campo della sinistra? Si, molte. C’è un’ampia letteratura sulle differenze e sulle divisioni nella sinistra a quei tempi. L’area socialista, per esempio, fu scossa da numerose scissioni, ricomposizioni e nuove scissioni. Ed erano tutte motivate ideologicamente e/o dal grado di vicinanza allo schieramento dell’Italia con gli USA.
Ma il PCI e il PSI erano due partiti operai chiaramente anticapitalisti e, nonostante le differenze di impostazione ideologica e di tattica politica, avevano una fortissima unità d’azione e, soprattutto un insediamento sociale sostanzialmente comune. Nel sindacato (furono le correnti socialdemocratiche e riformiste già scisse dal PSI nel dopoguerra a rifondare la UIL dopo la scissione democristiana della CGIL). Nelle case del popolo e in mille organizzazioni sociali e culturali, a cominciare dall’ARCI. Nel movimento cooperativo. Nelle leghe dei braccianti e nel movimento contadino non cattolico. In diversi movimenti, da quello della pace a quello delle donne, da quello dell’occupazione delle terre a quello della solidarietà internazionale.
L’unità d’azione, dopo la sconfitta dell’unità elettorale del 48, fra PCI e PSI non era una banale forma di azione congiunta su obiettivi limitati. Era una strategia che nei fatti rappresentava l’unità della classe operaia. Va detto che non votò mai tutta e nemmeno maggioritariamente per la sinistra giacché era molto forte in diverse parti del paese il richiamo cattolico e la sudditanza nei confronti dei padroni nelle piccole e medie imprese. Ma senza dubbio la classe operaia delle grandi fabbriche, che lottavano e trascinavano con se il movimento operaio, era fortemente orientata in senso socialista e comunista.
E’ vero che esistevano forze dette di sinistra, a cominciare dal Partito socialista dei lavoratori italiani e dal Partito socialista unitario, che poi si fonderanno nel PSDI. Ma erano considerate, ed erano nei fatti, forze centriste alleate della DC e schierate con gli USA. Il loro insediamento sociale ed elettorale non aveva quasi nulla a che vedere con quello del PCI e del PSI.
La prova sta nel loro sostegno, non senza che gli facesse perdere qualche pezzo, alla Legge Truffa nel 53. Il PCI e il PSI fecero una durissima opposizione e seppero conquistare il sostegno di una parte minoritaria dei liberali e dei socialdemocratici, mentre loro si apparentarono con la DC per tentare di superare il 50 % dei voti, che gli avrebbe valso il 65 % dei seggi. Se la DC e i suoi alleati (tra gli altri il Partito sardo d’azione, il PLI, il PSDI, il PRI avessero superato il 50 % dei voti, invece che fermarsi al 49,8 %, la legge truffa non sarebbe poi stata abrogata e la storia italiana sarebbe cambiata.
E’ chiaro che la guerra fredda e il timore che la SINISTRA potesse prevalere spinsero la DC e gli USA a tentare di superare il sistema politico scaturito dalla vittoria contro il fascismo, dalla costituzione e dalla vittoria contro la monarchia nel referendum. Che l’obiettivo fosse superare la repubblica parlamentare con legge proporzionale per normalizzare e “occidentalizzare” l’Italia, mettendo in un angolo le forze anticapitaliste e il conflitto, fu ben capito dal PCI e dal PSI, che non rifecero l’errore del 48 di presentare una sola lista e che sollecitarono gli scissionisti socialdemocratici e liberali a presentarne di proprie. Anche se solo per un soffio la DC, i suoi alleati e gli USA furono sconfitti.
A dimostrazione che la SINISTRA ha sempre pensato che la forma dello stato e le leggi elettorali non sono indifferenti al fine di implementare o meno la democrazia e soprattutto al fine di cambiare la realtà socioeconomica del paese. E che essere di SINISTRA era inequivocabilmente essere proporzionalisti dal punto di vista elettorale. Non solo in Italia. Lo erano anche i socialisti francesi e i laburisti inglesi.
Insomma, almeno per un ventennio dopo la Liberazione, la SINISTRA era quella che abbiamo descritto fin qui. E certamente, al netto delle differenze e anche delle polemiche che erano soprattutto dovute al riflesso della guerra fredda e al giudizio sui fatti d’Ungheria, la concezione della SINISTRA del PCI di Togliatti non era certo una questione nominalistica. Era invece fortemente innervata di contenuti precisi, di lotte unitarie su obiettivi fondamentali condivisi e basata su un comune insediamento sociale.
Parliamo ora di tre altre parole: “PARTITO”, “POLITICA” e “SOCIALE”. E soprattutto della loro relazione.
Non credo si possa parlare del PARTITO NUOVO di Togliatti solo per la natura di massa (e non di quadri d’avanguardia). Quel partito costruiva in prima persona in ogni fabbrica, quartiere, città e paese le lotte ed ogni tipo di organizzazione sociale. La sua natura di massa non era data dal numero degli iscritti e basta. Era data dal fatto che gli iscritti e gli stessi dirigenti del partito erano parte attiva delle organizzazioni sindacali, sociali e culturali. Non sarebbe stato “di massa” se le sue strutture dirigenti a tutti i livelli si fossero solo dedicate ad elaborare analisi e linee politiche da trasmettere alla società, attraverso l’agitazione e la propaganda, e avessero pensato la POLITICA solo come l’azione nella sfera delle istituzioni e nelle relazioni con altri partiti. Non è il caso di scomodare, e del resto io non mi sento all’altezza per farlo seriamente, le nozioni di “nuovo principe”, di “società civile” e “società politica” in Gramsci. Ma credo di poter dire che il PARTITO era concepito come lo strumento della classe per modificare la realtà con l’azione pratica ed organizzata e per svolgere una funzione egemone nella società. Il partecipare alle elezioni e avere rappresentanti nelle istituzioni, come l’avere rapporti di unità o di scontro con altri partiti non era scindibile dalle due funzioni principali. La POLITICA non era concepita come astratta e separata dalla pratica sociale, né come banale linea di condotta nell’ambito istituzionale e di relazione fra forze politiche. Era il complesso di attività intellettuali e pratiche, di proposta e di lotta, che il partito era in grado di dispiegare. Organizzare uno sciopero, fondare una sezione della lega dei braccianti, costruire una casa del popolo o un comitato di genitori per intervenire sulla gestione di una scuola pubblica, una cooperativa di consumo o di lavoro, una manifestazione culturale o sportiva e così via non erano attività estranee alla discussione, all’attività e alla vita del partito. L’esistenza del sindacato, della Lega delle Cooperative o della Lega dei braccianti, dell’ARCI e così via non sollevava in nulla e per nulla il partito dal compito di fare e discutere e costruire tutte queste cose nella pratica quotidiana. Del resto i quadri migliori e gli stessi militanti di organizzazioni e lotte sociali, formalmente autonome dal partito, partecipavano agli organismi dirigenti del partito e alla formazione di tutte le decisioni, portando dentro il partito la ricchezza della loro pratica e della elaborazione delle loro organizzazioni e lotte. La realtà SOCIALE non era solo oggetto di analisi, ma era il terreno nel quale agire per modificarla continuamente. E l’azione per modificarla era POLITICA nel senso compiuto. Per questo, organizzativamente, oltre alla doppia militanza partitica e sociale, lo scambio di quadri politici fra ruoli di funzionariato nel partito e di funzionariato nel sindacato, nell’ARCI, nella Lega delle Cooperative, nelle associazioni di categoria di piccoli artigiani e commercianti e così via, era continuo.
E’ proprio infondata l’idea che circola oggi secondo la quale il partito comunista di massa di quei tempi dirigeva i movimenti e le organizzazioni sociali e culturali dall’alto.
L’autorevolezza del partito non derivava da una astratta “superiorità” della “politica” o dal semplice prestigio personale dei dirigenti, bensì proprio da una pratica e da una elaborazione costruita nel vivo delle lotte e nelle organizzazioni sociali e culturali. Senza le quali il partito non solo non sarebbe mai diventato di massa ma non sarebbe nemmeno mai stato un intellettuale collettivo.
Proprio per questa pratica SOCIALE e per la centralità che le lotte e le classi sociali avevano nella elaborazione del PCI il concetto di ALLEANZE aveva significati ben diversi da quelli odierni. Ho già detto che l’unità d’azione, ma possiamo ben dire ALLEANZA, fra il PCI e il PSI significava unità della classe operaia nella lotta e anche nelle prospettive politiche. Non alleanza fra due ceti politici, due partiti o due gruppi dirigenti di partiti per obiettivi propri e separati dalla realtà sociale. Tanto meno dal punto di vista semplicemente elettorale, come dimostra la scelta vincente di non fare una lista unica nel 53. Fu la DC a rompere l’unità sindacale della CGIL, e furono i socialisti di destra e i repubblicani a rompere l’unità sindacale dei lavoratori italiani, non il PCI. Che mai si sarebbe fatto guidare dall’idea SETTARIA che alla collocazione internazionale e politica interna dovesse corrispondere una divisione sindacale della classe. Perché il PCI era un partito della classe operaia e come tale aveva a cuore la costruzione della sua unità e di un sistema di ALLEANZE sociali e politiche, senza le quali la classe non avrebbe potuto in nessun modo lavorare alla formazione di un blocco sociale e storico capace di sconfiggere il capitale ed edificare una società socialista. Nel PCI e nel sindacato nell’immediato dopoguerra ci fu una discussione durissima sulla necessità o meno di considerare gli impiegati (che erano pochi e quasi sempre dalla parte dei padroni) ALLEATI o meno della classe operaia. La FIOM diventò per esito di questa discussione Federazione Impiegati e Operai Metalmeccanici. Per lasciare intatta la sigla esistente dall’inizio del secolo la parola Italiana venne sostituita da Impiegati, collocata però nel nome prima di Operai. Il PCI, è vero, fece della politica delle ALLEANZE un cardine della propria elaborazione. Ma erano ALLEANZE perché si facevano per obiettivi di classe e sociali fondamentali. Inoltre il PCI, come è noto, aveva teorizzato e realizzato l’ALLEANZA nella guerra con tutti i partiti antifascisti e anche con i monarchici di Badoglio, per cacciare i nazisti dal paese e per mettere fine alla dittatura fascista.
Ovviamente tornerò su questa ALLEANZA che va tanto di moda oggi nelle citazioni di chi la vorrebbe usare come esempio per cacciare Berlusconi.
Il PCI teorizzava un sistema di ALLEANZE intorno agli interessi e alla funzione generale della classe operaia. Con i contadini, con gli impiegati che nonostante fossero lavoratori subordinati erano e si sentivano “piccolo borghesi”, con i lavoratori artigiani autonomi, con i piccoli commercianti e anche con parti significative del mondo dei piccoli imprenditori. Ma tali ALLEANZE erano teorizzate e per quanto si poteva praticate contro i monopoli capitalistici, gli agrari e la rendita speculativa. Le ALLEANZE sociali avevano riflessi nei consensi elettorali diretti del PCI, che proprio in virtù della politica delle ALLEANZE sociali, pur essendo un partito operaio, prendeva voti anche da settori sociali non operai.
Tralascio qui la questione degli intellettuali e del loro ruolo nella formazione della coscienza e del consenso secondo le teorizzazioni gramsciane. Sono cosciente della importanza che ebbe questa questione sia sulla stesse concezioni di ALLEANZE ed EGEMONIA. Ma il discorso si farebbe troppo lungo e si perdonerà lo schematismo e l’incompletezza del ragionamento che deriva da questa omissione.
Nella sfera delle forze politiche e delle istituzioni al PCI era ben chiaro che parte degli ALLEATI potenziali della classe operaia votavano per partiti, a cominciare dalla DC, e che questo si rifletteva, anche se in modo mediato e spesso distorto, nella rappresentanza istituzionale dei loro interessi. Perciò il PCI nelle istituzioni non si limitava a testimoniare i propri principi e programmi in opposizione al governo, ma tentava continuamente di ALLEARSI, per conquistare obiettivi precisi o per difendere interessi sociali comuni, con altri partiti o con parti di essi. E ciò era possibile perché c’era una vera repubblica parlamentare. Perché nelle istituzioni contava la rappresentanza delle idee, dei progetti e dei programmi votati dai cittadini. Perché il governo, per quanto importante fosse, era pur sempre un esecutivo del parlamento e la dialettica nel parlamento non era imprigionata dalle sorti del governo. Così il PCI poteva ALLEARSI ai partiti borghesi ma laici per difendere la laicità dello stato. Poteva ALLEARSI con parti della DC vicine al mondo contadino o al mondo cooperativistico bianco. Non per far governi, o liste, o coalizioni elettorali, bensì per approvare leggi, riforme, che raccoglievano e istituzionalizzavano le richieste delle lotte e della società e che determinavano cambiamenti importanti positivi nella vita delle classi subalterne. Le mille mediazioni, intese e accordi funzionavano anche se alla fine PCI e PSI votavano contro una legge, perché le leggi si facevano in parlamento e non le dettava il governo. E per questo potevano contenere cose buone insieme a cose meno buone. Cose cattive ma temperate da emendamenti approvati trasversalmente.
Prima fase, parte seconda.
Negli anni 60 si corona con le nazionalizzazioni e diverse riforme (anche se alcune saranno realizzate pienamente negli anni 70 come quella sanitaria) in attuazione degli articoli più avanzati della costituzione, la fase keinesiana. Il movimento operaio avanza perché, come abbiamo già detto, la centralità della produzione nel sistema economico lo colloca al centro e nel cuore decisionale di tutta la società. Se tutto ruota intorno alla fabbrica è chiaro che chi ha il potere di bloccare la produzione ha anche il potere per ottenere migliori salari e il potere di esprimere in ogni fabbrica, e in generale, la propria visione e un proprio progetto alternativo di organizzazione e finalità stessa della produzione (il modello di sviluppo). Inoltre essendo il mercato interno il motore principale del circolo virtuoso più produzione – più salario – più consumo – più produzione … lo stato stabilisce un rapporto preciso con le imprese capitalistiche. Le sostiene per favorire e non interrompere il circolo virtuoso, sia direttamente sia indirettamente. Per esempio la nazionalizzazione dell’energia elettrica e del comparto del trasporto (ferrovie, autostrade ecc.) e delle comunicazioni, sacrificano molti interessi privati capitalistici, ma sono funzionali a controllare ed indirizzare con la mano pubblica lo sviluppo del paese, garantendo l’energia ad un prezzo politico e le infrastrutture indispensabili alle imprese private.
E’ chiaro che si potrebbe discutere a lungo, ed infatti il PCI lo fece nettamente, sul “modello” implementato. Gli squilibri territoriali e le “cattedrali nel deserto” al sud, il trasporto su gomma invece che per ferrovia e mare, quali comparti strategici e quale innovazione del prodotto, quale rapporto con la ricerca, quale rapporto con l’ambiente e così via. Come è chiaro che ogni avanzamento salariale e sociale fu il prodotto di lotte epiche, che però si conclusero con vittorie chiare e in alcuni casi solo parziali. Ma vittorie.
Anche il settore finanziario e bancario, fortemente regolato dallo stato, ruotava soprattutto intorno al centro produttivo. Le politiche monetarie, dentro gli accordi di Bretton Woods, avevano ristretti margini di manovra ma quelli che avevano erano indirizzati a sostenere in ogni paese fortemente industrializzato le proprie imprese nelle esportazioni. Ci fu, ma anche qui non posso dilungarmi, una alleanza competitiva al proprio interno ma solidale verso e contro altri paese fra USA e Germania e in parte Gran Bretagna. La qual cosa permetterà sempre, nella fase keniesiana e anche in quella neoliberista, alla Germania e soprattutto alla sua banca centrale di operare al limite e spesso al di fuori degli accordi internazionali. Gli USA dominavano sul mondo (tranne che su l’est socialista) e quindi anche sulla Germania, ma quest’ultima dominava in Europa. In particolare perché l’apparato produttivo tedesco era tale che il rapporto mercato interno – esportazioni era molto sbilanciato verso le esportazioni. Questa cosa sarà foriera di diverse contraddizioni e problemi nella costruzione europea degli anni 90.
Prima di parlare di fatti eminentemente politici, come la rottura dell’alleanza fra Pci e PSI e l’ingresso dei socialisti nel governo, è indispensabile approfondire, anche se sommariamente, un tema fondamentale.
Tutto il “circolo virtuoso” di cui abbiamo tanto parlato portava con se una contraddizione enorme.
Essendo caratterizzato da sempre più alti salari, da una crescente accumulazione nel capitale fisso e da una politica dei prezzi delle merci compatibile con l’espansione del consumo e per giunta controllata e indirizzata dalla politica, produceva una progressiva riduzione del tasso di profitto.
Questo “circolo virtuoso” dal punto di vista strettamente capitalistico diventava sempre più un “circolo vizioso”.
In altre parole la natura del capitalismo che non può che ricercare sempre il maggior tasso di profitto era incompatibile con la prosecuzione del “circolo virtuoso”. Il “circolo virtuoso” per continuare a svilupparsi avrebbe dovuto, per dirla semplicisticamente, mettere in discussione il valore di scambio delle merci in favore del valore d’uso, ottenere maggior equilibrio e armonia nei rapporti economici internazionali, aumentare ancora di più il controllo politico e la programmazione pubblica della produzione e del mercato. Cioè superare il capitalismo. E ciò non avrebbe potuto che avvenire per salti e nel mezzo di scontri durissimi con il sistema capitalistico e con i suoi rappresentanti politici.
In altre parole ancora, il “circolo virtuoso” era una parentesi, prodotta da determinate condizioni storico politiche, nel processo di accumulazione capitalistico e non, come in molti credevano e credono, una evoluzione “democratica” e sempre più armoniosa del capitalismo.
Se è vero tutto ciò, anche per sommi capi, non può essere ignorato o considerato ininfluente nella lettura dei fatti politici.
La divisione fra PCI e PSI e l’ingresso di quest’ultimo al governo con la DC, era dovuta proprio all’analisi del capitale e alle due idee contrapposte che ne derivavano. O accumulare forze e rovesciare il sistema attraverso “riforme di struttura” inverando la nozione di “democrazia progressiva” che il PCI aveva del sistema politico scaturito dalla costituente o governare il sistema, facendolo evolvere verso il capitalismo dal volto umano con l’implementazione sempre maggiore del “circolo virtuoso”.
Mi sbaglierò, ma le letture correnti, che comunque contengono sempre punti di verità, come l’esclusione aprioristica del PCI dal governo di centrosinistra dovuta esclusivamente alla guerra fredda o il semplice tradimento dei socialisti, non possono spiegare tutto.
Non possono spiegare, per esempio, le riforme che il centrosinistra e poi negli anni 70 diversi governi, compreso quello di “unità nazionale” fecero. Anche se erano contemporanei alla fine del keinesismo e perfino all’inizio del neoliberismo. Furono il frutto della forza del movimento operaio e della dialettica, che continuava ad essere interna alla SINISTRA anche se da collocazioni politiche diverse, fra PCI e PSI.
Ciò che ho detto più sopra, invece, spiega benissimo due cose.
Man mano che la contraddizione fra capitalismo reale e keinesismo si acuiva, nel movimento operaio cresceva la coscienza anticapitalistica. Il 68, altro tema sul quale non posso dilungarmi, specialmente in Italia non fu un fuoco di paglia, ma acquisì alla classe operaia nuovi ALLEATI, come una intera generazione di studenti che sentivano come necessario il superamento del sistema e non coltivavano illusioni riformistiche dello stesso. Il movimento operaio cominciò ad organizzarsi diversamente e più democraticamente (i consigli) vincendo ogni resistenza del PCI e della direzione della CGIL. Cominciò a porre rivendicazioni generali (valga per tutti l’esempio della riforma sanitaria) e a mettere in discussione il modo di produzione capitalistico. Sul rapporto vita – lavoro (salute in fabbrica e 150 ore per esempio) e con la forza che aveva impose perfino l’eguaglianza salariale tendenziale fra lavoro manuale ed intellettuale nella stipula dei contratti di lavoro. Una delle più grandi conquiste fu la scala mobile. Che era un’arma difensiva contro la prima grande contromossa capitalistica sul “circolo virtuoso” (l’aumento dei prezzi delle merci e l’inflazione) ma anche offensiva (salario come variabile indipendente dal profitto). Una vera bestemmia per i capitalisti, che infatti la subirono totalmente meditando vendetta.
Questa prima cosa dimostra quale fosse il grado di percezione diffusa della necessità concreta (e non solo astratta e teorica) del superamento del capitalismo.
La seconda riguarda il PCI e la sua discussione interna.
Mentre il PSI, andando al governo, subì una scissione non piccola a sinistra (il PSIUP, che riprese il nome dei socialisti subito dopo la Liberazione) che continuerà nella politica di ALLEANZA con PCI, in quest’ultimo si sviluppò una dura discussione. Amendola propose prima al dibattito il tema del partito unico della sinistra. E nell’11° congresso si scontrerà (nelle forme in cui si faceva allora) con Ingrao. Chiunque può attingere ad una vastissima letteratura in merito. Io mi limito a dire che la discussione, interessantissima, ebbe il grave limite di non concludersi in modo univoco dal punto di vista politico. Vinse cioè un “centro” che si orientò nella direzione del superamento del capitalismo come prospettiva ma che, anche questo detto con estreme semplificazioni, assegnò un ruolo predominante alla politica istituzionale e di relazioni fra le forze politiche sulle dinamiche sociali. La separazione fra le dinamiche politiche e quelle sociali e il primato della POLITICA, cioè il POLITICISMO, fu declinata anche da sinistra. Soprattutto dalle tendenze operaiste dentro e fuori dal PCI e dallo stesso PSI. Analogamente si svilupparono, anche se con minor importanza teorie e pratiche ispirate alla primazia all’autonomia del SOCIALE.
Non sono incline, soprattutto con il senno del poi, a ignorare le condizioni internazionali ed interne italiane che spinsero il PCI a considerare immatura la possibilità di tentativi concreti di superamento del capitalismo e che lo indussero, anche in contraddizione con le proprie elaborazioni teoriche, a propendere più, nei fatti, verso la pratica del “governo del sistema”. E’ perfino inutile che mi diffonda sulle condizioni internazionali dell’epoca. L’invasione della Cecoslovacchia nel 68 da parte dell’URSS fu un colpo mortale per il PCI. Per quanto si fosse dissociato ne pagò un prezzo altissimo. Il dominio USA in Italia non avrebbe mai permesso che il paese si incamminasse sulla strada del superamento del capitalismo. E a nulla valsero le rassicurazioni sulla non uscita dalla NATO del PCI, perché il problema per gli USA non era certo solo geopolitico. Pesò poi, anche se molti se lo dimenticano, la svolta a destra della DC dei primi anni 70, la “strategia della tensione” e perfino i tentativi, per quanto improbabili, di colpo di stato. In Europa c’erano tre nazioni con regimi fascisti, Spagna Grecia e Portogallo. Tutte e tre fedelissime alleate degli USA. Sono tutte cose che si possono rintracciare tra le righe ed anche esplicitamente (come l’esperienza cilena) nei saggi di Berlinguer su Rinascita che inaugurarono la politica del compromesso storico.
Ma resta evidente che si aprì uno iato tra la domanda di cambiamento oggettivamente cresciuta nelle lotte e coerente con la soluzione delle contraddizioni prodotte dentro il “circolo virtuoso” in senso anticapitalistico, e la POLITICA del PCI. Non solo ma anche per questo il PCI, che in una prima fase dialogò seppur mantenendo chiare distanze, col movimento del 68 se ne separò nettamente in seguito. Non solo ma soprattutto per questo ci fu la nascita di quella che allora si chiamava “sinistra rivoluzionaria”, composta da diverse organizzazioni e anche dal gruppo del Manifesto, radiato dal PCI.
L’unità della “SINISTRA” e la politica delle “ALLEANZE” del PCI degli anni del centrosinistra e degli anni 70 sono ben diverse da quelle degli anni della fase precedente.
L’ultima parte della fase keinesiana in Italia è veramente molto complessa dal punto di vista strettamente politico. Nel PSI, ma ne riparleremo più diffusamente nella fase neoliberista, crebbero le tendenze più di destra non dentro ma dopo la esperienza organica del centrosinistra. E “L’UNITA’ DELLA SINISTRA” si coniugò con la collocazione alternante dentro-fuori del governo (anche nelle stesse legislature) del PSI. Non mancarono contenuti chiari unitari nel movimento di lotta ed anche obiettivi comuni in parlamento. Ma nessuno parlava più di ALLEANZA. Ed infatti non poteva esserci, giacché il PSI, pur conservando un forte insediamento operaio, scelse poi, come vedremo, di sposare gli interessi della nascente nuova borghesia della finanza e della speculazione. Nemica mortale della SINISTRA. Anche allora la domanda di UNITA’ era fortissima. Il PSI era un partito di governo ma era ancora un partito di sinistra che diceva, e spesso lo faceva, di lavorare al miglioramento delle condizioni di vita del proletariato e dei ceti popolari. Il PSI dialogava più volentieri con le forze alla sinistra del PCI, sia per dare fastidio al PCI sia per estrarne in senso riformista le rivendicazioni più compatibili con il sistema, che il PCI faceva fatica a metabolizzare ed inserire nel programma di alleanze e blocco sociale che aveva in mente. Valga per tutti l’esempio del divorzio, che passò in parlamento con i voti del PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI. Ma che venne spinta da socialisti, radicali e sinistra estrema (che erano fuori dal parlamento) vincendo le ritrosie del PCI che temeva, sbagliandosi totalmente, che avrebbe potuto provocare gravi divisioni nella classe operaia e nel popolo fra cattolici e non cattolici e che palesò una grave arretratezza culturale circa il problema del patriarcato e del femminismo.
Nella DC c’era praticamente di tutto. C’era una destra reazionaria che coltivava anche disegni autoritari e che non aveva imbarazzi a strizzare l’occhio al MSI, c’era una sinistra convintamente keinesiana che non esitava a schierarsi apertamente con le rivendicazioni operaie e che influiva moltissimo su una CISL unita alla CGIL. E in mezzo c’era il centro, più orientato verso la sinistra interna ma pronto a qualsiasi svolta necessaria dal punto di vista internazionale e di difesa degli interessi del capitale.
La politica delle ALLEANZE del PCI cambiò. Diventò soprattutto la versione politico-parlamentare del “compromesso storico”. Fu innervata di scelte di contenuto che venivano dalla analisi del quadro politico-economico della crisi del keinesismo e dell’uscita da destra dallo stesso, e che perciò erano nettamente in contraddizione con le domande sociali della classe operaia e di tutti i suoi alleati.
Su questo è necessario soffermarsi.
Siamo a cavallo della fine del keinesismo, i cui istituti principali (come le grandi imprese pubbliche ecc) continueranno ad esistere a lungo, e l’inizio della fase neoliberista, che ha le sue premesse, come vedremo in seguito, embrionali nella fine di Bretton Woods, nella politica dei prezzi alti per le merci, nella ricerca del massimo profitto sui mercati internazionali invece che su quelli interni. Ma ci torneremo per forza.
Se ci sono condizioni economico sociali oggettive per “andare oltre” (come è di moda dire oggi) il capitalismo sviluppando fino alle sue estreme conseguenze il “circolo virtuoso” non è detto che ci siano quelle politiche. Il PCI pensa che non ci siano. A torto o a ragione. Pensa che il tentativo di “andare oltre” non si può fare con il 51 % dei voti. Pensa, ancora una volta a torto o a ragione, che seguire questa strada possa rivelarsi una avventura e che bisogna evitare assolutamente di spingere gli avversari ad una svolta reazionaria che porterebbe ad una sconfitta storica e che potrebbe produrre bagni di sangue. Se ci sono condizioni sociali e non ci sono condizioni politiche va da se che il lavoro principale da fare è costruire condizioni politiche. Ecco il “compromesso storico”. Ma intanto i rapporti di forza nella società non restano immutati in attesa delle “condizioni politiche”. Intanto finisce Bretton Wodds, gli alti prezzi producono inflazione, la lira deve essere svalutata per permettere alle imprese le esportazioni senza le quali prezzi i prezzi alti producono una riduzione del mercato interno e una classica crisi di sovraproduzione. La politica delle ALLEANZE del PCI si piega sempre più al moderatismo e al “senso di responsabilità” perché gli effetti del non superamento del capitalismo producendo una risposta normale per il capitale, e cioè la ricerca del massimo profitto fuggendo e possibilmente distruggendo le compatibilità imposte dal funzionamento del “circolo virtuoso”, producono nel campo avverso, quello della classe operaia, perdita di forza e arretramenti.
Credo che non ci sia nessun saggio che possa sintetizzare e descrivere quanto ho appena detto meglio dello slogan che fu allora adottato dal PCI e dalla CGIL. La “politica dei sacrifici” della classe operaia per “salvare il paese”. Il “senso di responsabilità” del PCI.
Per quante ragioni avesse il PCI di considerare avventuroso o impossibile il mantenere in vita il “circolo virtuoso” fino al superamento del capitalismo i sacrifici e il senso di responsabilità, indipendentemente dalle intenzioni, non salvarono il paese. Bensì il capitalismo e spianarono la strada alla sua vittoria completa e senza appelli negli anni 80 e 90.
Con ciò non voglio dire che il PCI tradì, che si vendette, o altre amenità di questo tipo.
Capita, nella storia, che si venga sconfitti per motivi oggettivi, che sfuggono alla propria responsabilità diretta e che non dipendono prevalentemente dai propri errori soggettivi.
Il PCI seguì quella strada. Resta da dimostrare che seguire l’altra avrebbe prodotto avanzamenti e vittorie e non avventure e catastrofi ancor più grandi di quelle che il movimento operaio ha subito. E molto depone a favore della linea di condotta cui si sentì obbligato il PCI. Senza dimenticare, però, di dire che la compattezza del PCI e l’autorevolezza del suo gruppo dirigente, come di quello della CGIL, non impedì che dei termini di UNITA’ DELLA SINISTRA, ALLEANZE, e perfino di PARTITO E COMUNISMO E SOCIALISMO dentro il PCI iniziarono ad esserci diverse versioni.
Per non parlare del concetto di CULTURA DI GOVERNO che si affermò allora intriso di “realismo”, di moderatismo e di politicismo e praticamente contrapposto all’idea della possibilità di trascendere i rapporti di forza dati. Come se lo spingere in avanti il “circolo virtuoso” non fosse collegato a provvedimenti di governo e quindi ad una CULTURA DI GOVERNO. Un’altra, però.
Soprattutto i “miglioristi” si incaricarono di interpretare la linea ufficiale del PCI declinando tutte queste parole in senso diverso, sempre invocando una continuità di impostazione politica che invece non c’era per niente. Perché essi, in realtà, già negli anni 70 sposarono la prospettiva socialdemocratica europea e socialista italiana di “governo del sistema”.
Comunque, per “assolvere” il PCI dagli “errori” che fece nella stretta che dovette fronteggiare per tutti gli anni 70, bisognerebbe indagare meglio i disastri prodotti dall’invasione della Cecoslovacchia (che nel mondo significò che l’unico modello di socialismo possibile era quello dell’URSS, autoritario al punto che c’era un ministro che decideva che musica si poteva ascoltare, totalmente imitativo del modello fordista anche nell’organizzazione del lavoro e fortemente vocato al militare), dalla assenza di un luogo di discussione e soprattutto coordinamento reale del movimento operaio e dei partiti antagonisti (le divisioni fra URSS e Cina e la concezione del partito stato e dello stato guida lo impedirono), dalla assenza di una politica comune europea delle forze antagoniste sociali e politiche (e qui però ci furono errori soggettivi del PCI sia sul mercato comune, che pur conteneva regole e politiche chiaramente da “circolo virtuoso” e sul serpente monetario europeo (SME)). Ma questo è un altro discorso.
In realtà ho scritto finora tutto questo solo per tentare di dimostrare che usare parole come SINISTRA, ALLEANZE, POLITICA, PARTITO ecc. decontestualizzandole e facendo finta che abbiano lo stesso significato indipendentemente dalle fasi economiche e dalle condizioni politiche, come si usa diffusamente fare oggi, è un gravissimo errore tossico e foriero solo di disastri.
Lo vedremo meglio ancora parlando della fase neoliberista.
Continua
ramon mantovaniCara Liberazione, andiamo oltre Sansonetti2008-10-18T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it375774<p>L'articolo del Direttore di Liberazione , Piero Sansonetti, pubblicato ieri in prima pagina è sintomatico. A mio parere evidenzia due problemi. Uno è enorme e riguarda una cultura politica vecchia, stantia e foriera di scelte politiche di destra, che si ammanta di nuovismo per descrivere comunisti e antagonisti come falliti e fallimentari. L'altro, più piccolo, anzi microscopico, è banalmente ben rappresentato nello scritto di Sansonetti: un "giornale comunista", il "Quotidiano del Partito della Rifondazione Comunista" (così è scritto ogni giorno nella testata di Liberazione ) ha un Direttore che non è comunista (ma questo è il meno) e che pensa a, anzi propone di, anzi si batte per "andare oltre" un partito considerato inutile e dannoso. Sansonetti sa bene che il Prc ha deciso di continuare ad esistere e che la proposta di "andare oltre" è stata bocciata democraticamente. E sa che lo sarebbe stata ancor di più se fosse stata proposta esplicitamente, visto che, magicamente, nel tempo del congresso del partito la proposta di "andare oltre" è stata scientemente occultata. E aggiungo che la direzione di Liberazione , nell'occasione, non ha brillato per autonomia giacché si è adeguata pedissequamente alla tattica congressuale della mozione Vendola.
Io capisco che chi si è battuto per più di un anno per fare un nuovo partito conservi la propria opinione e la difenda. Capisco pure che insista. Ma che tenti di imporla è francamente intollerabile.
<p>Nel merito vorrei solo far notare che è una proposta che non sta in piedi, che non ha gambe sulle quali camminare e che oltre che sconfitta è tanto inconsistente quanto vecchia.
Mi spiace doverlo dire così, ma Sansonetti, che non per caso se la prende anche con Bertinotti sulla questione del lavoro, ripropone pari pari il progetto di sinistra di Achille Occhetto. Sbrigative abiure, giudizi sommari del novecento e uso dell'aggettivo nuovo per qualificare il nulla o la riproposizione di cose molto vecchie.
Credo che Sansonetti, e lo credo sinceramente, non si sia accorto che il progetto della rifondazione comunista già da parecchi anni è andato oltre la classica gerarchia delle contraddizioni, oltre il politicismo (che è un aspetto non secondario della critica del potere), oltre la rivendicazione acritica del passato. Non basta dire, come fa Sansonetti, che tutte le contraddizioni sono sullo stesso piano. Bisogna analizzare le connessioni che le legano e capire quali sono i punti critici sui quali agire per rovesciare il sistema, non spogliarsi del proprio antagonismo (e la parola comunista è qualificante nonostante tutto) per diventare la sinistra del sistema che si illude di costruire una propria alternativa facendo la sinistra di governo. Non basta parlare della società, bisogna dire dove sta il motore delle trasformazioni possibili ed "impossibili". In altre parole per criticare il potere bisogna dire se si sta nella società "in basso a sinistra" (come dicono gli zapatisti) o se si sceglie il cielo separato della politica per costruire dall'alto un presunto progetto alternativo di società. Inoltre, per avere un futuro bisogna avere un passato. E il passato, per quanto complesso e pesante, non si liquida ripartendo sempre "da zero". Per esempio, per stare agli esempi di Sansonetti, lo inviterei a considerare lo scritto di Engels L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato e la riforma del diritto di famiglia varato subito dopo la rivoluzione d'ottobre insieme al suffragio universale, per "andare oltre" il pregiudizio secondo il quale marxisti e comunisti sarebbero sempre stati incapaci di vedere al di là della contraddizione capitale-lavoro.
Insomma, mi pare davvero che il Prc si sia incamminato bene per andare oltre il "comunismo di destra" e la sinistra di potere.
E' l'andare oltre di Sansonetti che mi sembra un trapassato remoto.
Per questo penso si debba andare oltre Sansonetti.Le FARC, la Colombia, le veline dei servizi e il giornalismo provinciale italiano.2008-09-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it375776Ci risiamo! Per l’ennesima volta la piccola politica provinciale del piccolo giornalismo italiano si scatena in una piccola operazione di disiniformazione.
Non è questa la sede per proporre una lunga e articolata analisi della situazione colombiana e di quella della regione, visto che USA e Uribe tengono, con ogni evidenza, aperta la guerra in Colombia per destabilizzare l’aera geopolitica nella quale sono cresciute le esperienze dei governi ostili alla globalizzazione e agli USA.
Mi limito a chiarire alcune cose e a formulare considerazioni su come questa vicenda è stata trattata in Italia.
Che il PRC abbia da moltissimo tempo rapporti politici con le FARC lo sanno anche i sassi. Non ci torno.
Che noi fossimo, come siamo anche oggi, fermamente convinti che in Colombia sia necessario un processo di pace lo sanno anche i sassi.
Che noi siamo stati, e siamo, contrari alla immissione delle FARC (e del PKK, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e dei Mujahedin del popolo iraniani) nella lista delle organizzazioni terroristiche lo sanno anche i sassi, visto che abbiamo presentato numerosi atti parlamentari e che l’abbiamo detto in innumerevoli articoli, interviste e trasmissioni televisive.
Che noi, dopo la chiusura del processo di pace e dopo l’immissione delle FARC sulla lista dei terroristi dell’Unione Europea, abbiamo mantenuto contatti con loro lo sapevano i sottosegretari agli esteri del governo Berlusconi e del governo Prodi oltre che i Presidenti della Camera dei Deputati, come Pierferdinando Casini ha recentemente e correttamente testimoniato.
Che noi consideriamo disumana la pratica dei sequestri e che la inquadriamo, però, in una guerra altrettanto disumana alla quale bisognerebbe mettere fine con una trattativa di pace invece che con un’acutizzazione del conflitto lo sanno anche i sassi.
Eppure basta un “dossier del governo colombiano” pubblicato su Repubblica in due puntate per scatenare la solita tempesta nel bicchier d’acqua: “scandalo! esponenti di rifondazione hanno mantenuto contatti con le FARC”. E via con richieste di interviste e dichiarazioni(tutte concesse tranne quella mai richiesta e che, secondo Omero Ciai, avrei rifiutato). E avanti con dichiarazioni di questo o quell’altro esponente della maggioranza di governo. E avanti con considerazioni pensose di commentatori politici televisivi o della carta stampata.
Ma di quale dossier stiamo parlando? E’ un dossier governativo? Governativo in che senso?
A leggere la stampa italiana sembra si tratti di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Io non so di cosa si tratta di preciso, visto che non l’ho letto, che non l’ho mai visto e che nessuno l’ha pubblicato.
Credo, però, di poter dire che si tratta banalmente di una velina dei servizi colombiani e degli organismi governativi che gestiscono i contenuti dei computer di Raul Reyes.
C’è un atto ufficiale del governo colombiano? Non so, non credo. Lo dico perchè all’inizio di agosto, alla prima puntata di questa ridicola vicenda, dopo aver “svelato” in una conferenza stampa che i due supporter italiani delle FARC che agivano con i fantasiosi nomi di battaglia di Ramon e Consolo eravamo io e Marco Consolo, fummo, Marco ed io, intervistati in diretta telefonica da una TV colombiana. E nel corso dell’intervista, a seguito della mia dichiarazione che in Colombia molti esponenti istituzionali e di governo, a cominciare dall’attuale ministro degli interni colombiano, sapevano dei nostri rapporti con le FARC, il conduttore chiamò in diretta Valencia Cossio (il ministro degli interni e di giustizia del governo Uribe) il quale mi salutò cordialmente, confermò tutti i nostri incontri all’epoca del processo di pace, quando lui era Presidente del Senato e membro della delegazione governativa al tavolo del negoziato con le FARC e all’epoca, successiva alla fine del processo di pace, quando lui era Ambasciatore colombiano in Italia. Il conduttore della trasmissione gli chiese allora come mai non avesse detto nulla a proposito del famoso dossier governativo e lui rispose che non aveva visto e non sapeva nulla di questo dossier.
Ma guarda! Il Ministro degli interni del governo Uribe non sa nulla del dossier e conferma di conoscerci benissimo, ma questa notizia in Italia non la pubblica nessuno.
Così ho pensato che tutto si era risolto in una bolla di sapone, nella solita bolla di sapone.
E invece no! Ecco che nel giorno dell’arrivo in Italia di Ingrid Betancourt escono, sempre a firma di Omero Ciai, anticipazioni dal famoso dossier.
Vista la brutta figura delle prime anticipazioni l’articolo di Ciai sembra una risposta alla nostra precisa e puntuale confutazione della prima puntata. In questo seconda puntata si dice che Marco e io a un certo punto, dopo l’immissione nella lista dei terroristi delle FARC, avremmo cominciato ad usare i nomi di “Max” e “il poeta”. Questa circostanza oltre ad essere totalmente falsa è anche chiaramente illogica visto che quel Ramon e quel Consolo erano usati da Raul Reyes molto tempo dopo la lista dei terroristi dell’Unione Europea.
Poi, visto che i nostri rapporti politici con le FARC si sono dimostrati pubblici e conosciuti dalle autorità italiane, ecco che saltano fuori “prove” di una collaborazione che andava ben al di là dei rapporti politici. Avremmo aiutato il “rappresentante delle FARC in Europa” e raccolto fondi per finanziare le FARC (1400 euro).
Chiunque abbia seguito la vicenda del conflitto colombiano sa benissimo che le FARC, che avevano rappresentanze all’estero fino alla fine del processo di pace, da quel momento richiamarono alla lotta armata tutti i loro rappresentanti e chiarirono che con le FARC si poteva parlare solo in Colombia e che non c’era più nessun loro rappresentante in altri paesi.
E’ vero che noi abbiamo aiutato, pagando le cure mediche per una grave malattia, un compagno da noi ben conosciuto come rifugiato politico colombiano. Vorrei far notare che nel mondo ci sono centinaia se non migliaia di rifugiati politici colombiani visto che nella “Colombia democratica” i sindacalisti e gli oppositori di sinistra (non gerriglieri), parlamentari compresi, sono stati decimati negli ultimi venti anni. Parliamo di più di diecimila morti ammazzati o fatti sparire nel nulla.
Inoltre avremmo finanziato con 1400 euro un’organizzazione che ha fra i 15000 e i 20000 combattenti bene armati e che, secondo gli USA e Uribe, con il narcotraffico e i sequestri estorsivi incamera ogni anno centinaia di milioni di dollari.
Posso dire con cognizione di causa che il PRC non ha mai raccolto fondi per le FARC e che i famosi 1400 euro non esistono.
Ma vorrei anche dire che se le FARC avessero indicato un interlocutore in un qualsiasi paese del mondo e avessero chiesto aiuti vari avremmo accolto queste richieste come parte indispensabile del mantenimento di un rapporto politico.
Tutte queste cose dovrebbero essere state trattate da giornalisti che capiscono qualcosa di Colombia o che abbiano la serietà professionale di documentarsi, di informarsi. Invece, tranne qualche lodevole eccezione come quella di Guido Piccoli sul Manifesto, giornali e telegiornali trattano una vicenda come questa affidandola, guarda caso, a giornalisti di politica interna che a stento sanno dove si trova la Colombia o che immaginano che la Colombia sia un paese normale, un paese democratico dove opera un gruppo di terroristi narcotrafficanti del tutto estraneo a quella realtà. Non sanno che il conflitto colombiano dura da più di 40 anni. Non sanno che ci sono stati diversi processi di pace che dopo la firma si sono risolti con l’uccisione sistematica di tutti quelli che avevano deposto le armi. Non sanno che gli oppositori politici e i sindacalisti sono stati sterminati e continuano ad essere sterminati. Non sanno che Uribe è stato il sindaco di Medellin al tempo del cartello di Escobar e che in seguito ha continuato la sua brillante carriera come responsabile dell’aviazione civile e che in tale veste ha autorizzato ufficialmente decine di piste di atterraggio in tutti i territori dove si produceva la foglia di coca. Non sanno che attualmente ci sono decine di parlamentari o arrestati o incriminati per le loro connessioni con il narcotraffico. Non sanno che Uribe ha solo qualche giorno fa inusitatamente dichiarato che sarà molto difficile che riescano a trascinarlo davanti al tribunale internazionale dell’Aja. Non sanno che il Presidente Pastrana aveva dichiarato ufficialmente le FARC formazione politico militare e le AUC (i paramilitari) narcotrafficanti e criminali. Che con le FARC aveva intavolato una trattativa di pace e che con le AUC si era rifiutato di farlo. Non sanno che Uribe ha fatto semplicemente l’esatto contrario. Sapranno tutto delle beghe interne di questo o quel partito italiano o delle ultimissime dichiarazioni di questo o quel politico italiano ma di cosa siano le FARC o la Colombia non sanno nulla di nulla. E ciò nonostante tentano, purtroppo riuscendoci quasi sempre, di far entrare la Colombia o altre vicende come questa nel frullatore della politichetta provinciale italiana facendola passare dall’imbuto della visione ristretta del mondo dei loro direttori.
Pazienza.
Noi continueremo, come sempre abbiamo fatto, ad essere attivi per i processi di pace e a non usare due pesi e due misure quando si tratta di diritti umani. E soprattutto cercheremo di continuare ad essere persone serie e a non diventare mai come loro.Il congresso è finito. Viva il congresso!2008-07-31T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it375775Ci sono stati due congressi.
Il primo provocato da una grave divisione del gruppo dirigente del partito sui tentativi di “superare” rifondazione comunista in una nuova forza politica, che si è concentrato in una discussione politica vera confrontando diverse proposte politiche. Il secondo giocato sulla raccolta di voti con qualsiasi mezzo, sulla personalizzazione della contesa, sulla descrizione faziosa dei maggiori mass media.
Ha vinto il primo, nonostante tutto.
Perché, alla fine, ha comandato la politica e il congresso si è concluso con una votazione su due linee contrapposte.
La totalità dei mass media ha volutamente ignorato il documento politico approvato per poter descrivere un congresso diverso da quello reale. Da tempo in politica, soprattutto in Italia, non si giudicano testi e contenuti, bensì contese fra leader, scontri di potere, dietrologie, processi alle intenzioni, pettegolezzi di ogni tipo. Così si può dire ciò che si vuole senza nemmeno dover far apparire le proprie opinioni in qualche modo collegate alla realtà. Come ha fatto, un esempio per tutti, Ida Dominijanni sul Manifesto.
Invito tutte e tutti a leggere il documento.
home.rifondazione.it/xisttest/content/view/2881/314/
Questo documento rappresenta una linea politica chiara e praticabile. Non c’è traccia di conservatorismi o di mediazioni al ribasso per tenere unite le quattro mozioni che l’hanno votato. Naturalmente si può non condividerlo, ma mi sembra davvero strumentale descriverlo come un pateracchio o come un testo ortodosso.
Ci siamo presentati tutti a Chianciano con la consapevolezza che nessuna mozione aveva avuto la maggioranza dei voti. Nella mozione 1 c’era un’esplicita diversità di opinioni circa l’esito del congresso nazionale. Da una parte c’era la volontà di lavorare ad un esito chiaro politicamente, che sancisse la sconfitta della proposta della costituente di sinistra, dall’altra la preoccupazione che non fosse possibile raggiungere un’unità su una linea chiara fra le quattro mozioni che esplicitamente avevano rifiutato la costituente. Da una parte il privilegiare l’esigenza della chiarezza politica e dall’altra il privilegiare la necessità di unire il più possibile il partito. Le mie posizioni in questa discussione credo siano note. Ma voglio qui ribadire che entrambe le posizioni erano legittime e contenevano una verità interna indiscutibile.
Non importa se i giornali e gli stessi esponenti della mozione 2 in molte dichiarazioni avevano descritto una discussione politica limpida come un complotto di palazzo. A sentir loro la componente di Essere Comunisti avrebbe abbandonato la mozione 1 e avrebbe dato a Vendola una vittoria non ottenuta nel voto della base in cambio di posti di rilievo nella direzione del partito. Questo modo di leggere le posizioni politiche lo considero davvero il massimo della regressione o, se si preferisce, della omologazione alla politica corrente.
Davvero, per la prima volta, siamo entrati in un congresso senza sapere come ne saremmo usciti.
In commissione politica Gennaro Migliore ha proposto che il testo dell’intervento di Vendola fosse assunto come base per la redazione del documento politico finale del congresso. Il sottoscritto ha rifiutato questa proposta ed ha indicato alcuni punti (bilancio dell’esperienza di governo, costituente e unità della sinistra, rapporto con il PD, lavoro sociale, elezioni europee e riforma del partito) sui quali aprire un confronto a tutto campo. Analogamente hanno fatto gli esponenti delle mozioni 3 4 e 5. Alla successiva riunione della commissione politica la mozione 2 non si è presentata. Evidentemente, ma è una mia interpretazione dei fatti, il fatto che nessuna mozione o componente avesse accettato il discorso di Vendola come base per la redazione del documento, aveva convinto le compagne e i compagni della mozione 2 che il loro tentativo di spaccare la mozione 1 era fallito. Nel corso del prosieguo dei lavori della commissione (che sarebbe troppo lungo raccontare minuto per minuto) è apparso sempre più chiaro che c’era un’effettiva convergenza delle 4 mozioni alternative alla costituente su una possibile linea politica.
Ovviamente se ciò non fosse stato possibile o se il documento non avesse retto alla prova e si fossero registrate divergenze insanabili tra le quattro mozioni la mozione 2, alla fine, avrebbe vinto e stravinto il congresso.
La verità è che il documento è una linea politica chiara e condivisa sia dal punto di vista politico che culturale. Basta leggerlo per rendersene conto. Naturalmente tiene conto delle diversità che c’erano fra le quattro mozioni. Lo stesso sarebbe accaduto su un testo della mozione 2 più altre aree. Non per caso il discorso di Vendola aveva totalmente eluso il tema della costituente.
Insomma, essendoci stata una reale convergenza su una proposta politica il documento ha retto l’urto degli insulti e degli strali strumentali ed ha passato il vaglio del voto congressuale.
Nel pieno rispetto della democrazia, in un congresso a mozioni contrapposte, alla fine si sono confrontate due proposte politiche alternative ed una ha avuto la maggioranza.
E’ assolutamente falso che ci sia stata un’operazione per eleggere un segretario, e che sia stata cercata una convergenza politica qualsiasi per raggiungere questo scopo. E’ invece vero il contrario. La stessa convergenza fra le quattro mozioni è stata cercata sulla politica a prescindere dall’elezione o meno di un segretario, anche perchè una mozione (la 5) aveva proposto di eleggere due portavoce e nella stessa mozione 1 esistevano pareri diversi su questo punto.
Quanto al dibattito, lo dico per i veri appassionati, si può verificare come gli interventi della mozione 2 fino ad un certo punto siano stati improntati all’unità e alle sottolineature delle “aperture” contenute nella relazione di Vendola, per poi piegare decisamente verso lo scontro frontale e verso lo stile da comizio urlato. Semplicemente era arrivata la notizia che il tentativo di allargare la mozione 2 con i voti di una parte della mozione 1 era fallito.
Due ultime cose.
La linea di condotta decisa dalla mozione 2 per cui si costituisce una corrente interna-esterna al partito e si alimenta ancora una polemica usando insulti e scomuniche, con l’ausilio della grande maggioranza dei mass media, è una linea pericolosa. Il non riconoscere la legittimità della linea approvata dal congresso e la descrizione della maggioranza che l’ha espressa come un’accozzaglia di estremisti, settari, dogmatici e complottardi non fa onore a chi sostiene queste cose e rischia di dislocare la dialettica dentro e fuori il partito su un terreno di scontro infinito. L’idea, veramente disdicevole a mio parere, per cui con la sconfitta di una proposta politica morirebbe rifondazione e per cui il patrimonio di lotte e di innovazione politico-culturale sarebbero solo di una parte rivela solamente che c’è stata una concezione proprietaria del partito. Una concezione che ha contribuito non poco e determinare la sconfitta della mozione 2.
La gestione unitaria del partito è la chiave per impedire lo scontro infinito che paralizzerebbe il partito e che lo ridurrebbe all’impotenza. Gestione unitaria significa che, oltre a prevedere organismi esecutivi con la presenza di tutti, su ogni scelta importante ci sia un percorso nel quale tutti possano partecipare alla formazione delle decisioni. Non ci sarà una maggioranza che deciderà per poi permettere alla minoranza di dissentire. Si discuterà liberamente, anche ascoltando i circoli e le federazioni, e poi si deciderà. Esattamente il contrario di quanto avvenuto negli ultimi anni.
Sono convinto che la linea che abbiamo scelto darà presto i suoi frutti politici.
Nessuno si spaventi per il fatto che ci si descrive più o meno come fummo descritti dopo la rottura con il governo Prodi nel 98. E’ solo la prova che siamo tornati ad essere una spina nel fianco del sistema politico italiano.
Buon lavoro a tutte e a tutti.Gli esiti del congresso nazionale devono corrispondere alla effettiva volontà delle iscritte e degli iscritti.2008-07-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it357788<p>
I congressi di circolo volgono al termine. La mozione 2 non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei voti. Nonostante i suoi conteggi (sempre indietro, guarda caso, di un centinaio di circoli), nonostante il tifo di D’Alema, Veltroni e perfino di Cofferati, dei giornali e delle trasmissioni tv filo PD, nonostante l’occultamento della proposta di superamento di rifondazione, la candidatura alla segreteria del nuovo leader amato dal popolo e, soprattutto, nonostante il tentativo di trasformare il congresso in elezioni primarie con migliaia di nuovi iscritti comparsi dal nulla.
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Checché ne dica Gennaro Migliore oggi su Liberazione la proposta della costituente è stata bocciata e non può essere in nessun modo la linea del Partito della Rifondazione Comunista.
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Del resto, non sembra aver riscosso molto consenso nemmeno fuori del nostro partito. A meno di considerare le decisioni congressuali di Sinistra Democratica come in sintonia con la costituente proposta dalla mozione 2. Perché delle due l’una: o va bene la proposta di Fava che dice, senza tanti giri di parole e senza tanta demagogica poesia, che la costituente serve a costruire un nuovo partito della sinistra di governo collocato nell’area socialista europea, oppure, altrimenti, si deve dire quale altra costituente si vuole.
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Né Vendola, né Migliore né nessun altro esponente della mozione 2 hanno chiarito a Claudio Fava che Rifondazione non può essere disponibile a costituire, ma sarebbe meglio dire ricostituire, il PDS in piccolo nel 2008.
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Intanto, però, sono incominciate le grandi manovre sotto il tavolo e alle spalle delle compagne e compagni che hanno votato nei congressi.
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Così l’offensiva aperta da Vendola con il suo articolo su Liberazione si accompagna con le “voci” fatte girare ad arte su una presunta spaccatura della mozione 1 nella quale ci sarebbero Ferrero e il sottoscritto intransigenti e l’area di Essere Comunisti in procinto di raggiungere un accordo separato con Vendola.
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Anche questo modo di far politica la dice lunga su quale concezione del partito e della sinistra alberghi nel gruppo dirigente della mozione 2. Una verità, condita da belle parole, per i militanti e un’altra per i dirigenti.
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Che la mozione 2 cerchi di allargare la base dei delegati al congresso nazionale per eleggere un proprio segretario e per portare avanti comunque la costituente lo trovo scontato. Sta nelle cose. Che pensi che noi si collabori a un simile progetto lo trovo francamente risibile.
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Io, per quel che mi riguarda, non sarò disponibile a nessuna altra soluzione che non preveda in modo inequivocabile il rilancio della Rifondazione Comunista come partito e come progetto strategico.Rifondazione Comunista fra vita morte e miracoli.2008-07-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it357394
<p>So bene che le dispute sui voti congressuali non possono appassionare nessuno. I militanti meno ancora dei giornalisti pettegoli che hanno come funzione quella di ridurre tutto a scontro personale fra leader. Gli iscritti (quelli veri) meno ancora della cosiddetta sinistra diffusa, perché hanno sempre pensato di iscriversi a un partito diverso dagli altri.
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Ma la realtà, la dura realtà, è che oggi, per la prima volta nella storia di Rifondazione Comunista, bisogna discutere anche di questa miseria.
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Oramai c’è purtroppo un’ampia letteratura su congressi dove al momento del voto compaiono decine e a volte centinaia di persone sconosciute, in gran parte nuovi iscritti, dove il voto non avviene sulla base dell’appello, dove persone evidentemente inconsapevoli vengono accompagnate da qualcuno che suggerisce loro come votare, dove nonostante centinaia di iscritti non c’è alcun dibattito, e così via. Basta leggere quanto è stato pubblicato nei vari blog e su Liberazione.
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Come siamo arrivati a questo punto?
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Io voglio cercare di ragionare. Le denunce di irregolarità e i conti dei voti non sono competenza di questo blog. Sarà la commissione congressuale competente a stabilire cosa è dentro e cose è fuori dalle regole. E io accetterò in silenzio ogni decisione.
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Eppure bisogna, secondo me, ragionare su quella che a me sembra una degenerazione del partito.
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Io penso vi siano due diverse cause che oggi, sommandosi, rischiano di uccidere definitivamente il partito, o più semplicemente di trasformarlo in un partito come gli altri, che per me è la stessa cosa.
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La prima: Rifondazione è dalla nascita un partito molto democratico, con uno statuto ultragarantista, e con una piena sovranità delle sue organizzazioni locali su tutte le scelte elettorali e politiche. Per intenderci, e lo dico per le tante e i tanti che non lo sanno, la decisione di fare alleanze e di entrare in giunte comunali provinciali o regionali, è di esclusiva pertinenza rispettivamente dei circoli, dei comitati federali e dei comitati regionali. Fin qui tutto normale. Ma da tempo si è visto in alcune realtà che il potere di prendere decisioni circa le elezioni può essere “scalato”. Come? E da chi? Facciamo un esempio di scuola. In un comune di 20000 abitanti c’è un circolo di 50 iscritti. Normalmente partecipano alla vita attiva del circolo una quindicina di compagne/i. Capita che al momento di prendere decisioni importanti, come le elezioni, l’assemblea del circolo veda una partecipazione di 30 o 40 persone. A un certo punto una persona del circolo, l’anno prima delle elezioni, comincia a tesserare parenti ed amici, magari un’intera cooperativa o un intero circolo arci, o una parte di tesserati dello spi cgil. In un anno miracolosamente il circolo diventa di 150 iscritti, anche se quelli che tirano la carretta restano sempre gli stessi quindici. Anzi, capita che una parte dei 15 smetta l’attività per protesta o delusione. I cento nuovi iscritti compariranno all’assemblea e decideranno loro, votando come un sol uomo, chi farà il segretario del circolo, chi condurrà le trattative per gli assessorati e così via. Tutto nel pieno rispetto dello statuto del partito. Tutto per una piccola questione di potere locale. Ma in quel circolo il partito non è più lo stesso. Non sarà il consigliere o l’assessore lo strumento del partito nelle istituzioni bensì il contrario. Alla fine è il circolo ad essere lo strumento di una persona.
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Analogamente a livello provinciale un assessore può costituire circoli in paesi dove non c’è rifondazione e scalare circoli esistenti di pochi iscritti e conquistare così il potere nel comitato federale. Oltre a decidere assessorati provinciali il comitato federale elegge i membri del comitato regionale. Basta che, in una regione, due o tre personaggi che controllano le organizzazioni di partito si mettano d’accordo fra loro ed ecco che avremo assessorati e consiglieri regionali. Se invece capita che non si mettano d’accordo allora capita che si assista ad una guerra delle tessere per preparare lo scontro decisivo. Ovviamente se una federazione di quella regione è esente dallo scontro di potere risulterà ininfluente perché dotata di pochi iscritti e di poco peso negli organismi decisionali. Quando viene il congresso nazionale i vari personaggi si schierano indipendentemente dal contenuto delle mozioni e scelgono la mozione che a livello locale loro possono controllare per perpetuare il loro potere. Capita così che da un congresso all’altro si passi da una mozione all’altra con la massima disinvoltura.
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Dopo qualche anno di questa cura il partito in quella regione non c’entra nulla con l’originale.
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E’ solo un caso di scuola? No, perchè è il caso della Calabria, dove il partito è ridotto esattamente così da parecchio tempo. Sono state commissariate federazioni ed anche il regionale. C’è un numero esorbitante di iscritti e di circoli che fanno una scarsissima attività politica se togliamo le campagne elettorali per le preferenze, le guerre fra diversi personaggi hanno avuto gli onori della cronaca sui quotidiani locali, e ci sono stati perfino casi di inquisiti e condannati per gravi reati seguiti dall’autosospensione dal partito delle persone interessate, vi sono state denunce, all’autorità giudiziaria, per minacce di vario tipo e perfino l’intervento delle forze dell’ordine per sedare risse durante riunioni del partito.
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Oggi, e lo dico senza tema di smentita, in Calabria i vari personaggi di cui sopra hanno scelto la mozione vendola. Per convinzione? Direi di no visto che allo scorso congresso hanno scelto la mozione dell’allora Ernesto che non per caso vinse il congresso calabrese. E come mai? Presto detto: dopo essere usciti dalla maggioranza tre mesi fa visto che in regione ci sono decine di inquisiti la settimana scorsa il comitato regionale ha deliberato che in consiglio si votasse il bilancio ed è alle porte la trattativa per rientrare in giunta. Ed importanti esponenti nazionali della mozione vendola hanno benedetto l’operazione. A me è capitato di presentare la mozione 1 in un circolo dove l’importante esponente nazionale della 2 rispondendo alle mie critiche sul ritorno in giunta ha bollato come verticistica la mia posizione dicendo: “sono i compagni calabresi che devono decidere democraticamente sulla questione ed è sbagliato che dall’alto gli si dica cosa devono fare”.
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Appunto.
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Ora ai congressi in calabria avremo una grande partecipazione democratica di centinaia di nuovi iscritti che si aggiungono agli oltre novemila del 2007. Vincerà la mozione vendola, senza dubbio. Ovviamente per la bontà della proposta politica e in coerenza con l’assunto che il fine non giustifica i mezzi.
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Per quanto riguarda noi della mozione 1 sono ben lieto di poter dire che già all’indomani del famoso CPN abbiamo fatto sapere che non eravamo in cerca di certi voti dicendolo esplicitamente anche nelle assemblee di presentazione della mozione a Reggio Calabria e a Cosenza, quando ancora certi personaggi erano ufficialmente astensionisti sulle mozioni, per il semplice motivo che erano alla ricerca del miglior offerente.
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Per fortuna, però, il caso della calabria è isolato. Non c’è nulla di paragonabile in nessuna altra regione. E sono all’esame della commissione congressuale ricorsi sulla regolarità di congressi dove ne sono successe di tutti i colori.
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Ma veniamo al resto.
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La seconda: Il nostro partito, con tutti i difetti e limiti, è però sempre stato un partito di militanti ed iscritti. E’ normale, come era nel PCI, che in un circolo un gruppo di pochi attivisti gestisca l’attività e che la gran parte degli iscritti partecipi alla festa, anche lavorando duramente, ma che non partecipi, invece, assiduamente a tutte le iniziative e discussioni. Quando c’è il congresso il direttivo manda a casa la lettera e magari gli esponenti delle mozioni del circolo telefonano e parlano con gli iscritti per convincerli della loro posizione. Normalmente vanno a votare tra il 30 e il 60 % degli iscritti. Normalmente l’anno che precede il congresso c’è un piccolo incremento delle tessere, in gran parte dovuto al numero di delegati che spetteranno al circolo per il congresso di federazione. Ma si tratta, normalmente, di un semplice maggiore impegno a fare il tesseramento con più cura. Normalmente un congresso e il suo dibattito convince alcuni compagne o compagni a rifare la tessera o a iscriversi al partito per partecipare.
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Normalmente.
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E’ normale che un circolo con 100 tesserati nel 2007 ne abbia altrettanti di nuovi nel 2008?
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E’ normale che la percentuale dei votanti in gran parte dei circoli sia quella tradizionale e che in altri sia dell’80, del 90 e anche del 100%?
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Il nostro regolamento congressuale prevede che ci si possa iscrivere per la prima volta, ottenendo il diritto di voto, dieci giorni prima del congresso di circolo, pagando una quota minima (minima e non fissa) di 10 euro.
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Cosa sta succedendo se ci sono circoli che raddoppiano o addirittura triplicano gli iscritti? Se tutti i nuovi iscritti, a volte decine e centinaia, pagano tutti 10 euro e non un centesimo di più? Se ci sono perfino dirigenti di Sinistra Democratica eletti in cariche in quel partito nel loro congresso che una settimana dopo vanno a votare nel congresso del circolo di Rifondazione? Se una parte del paese, nella quale la maggioranza dei gruppi dirigenti ha scelto la mozione 2, celebra i congressi nelle ultime due settimane utili, ottenendo così più tempo di tutti gli altri per fare nuovi tesserati?
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Secondo me sta succedendo una cosa chiara. Si sta trasformando il congresso del partito in una spuria elezione primaria.
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Capisco l’ansia di vittoria della mozione 2 e capisco che si sia candidato Vendola per sfruttare la sua popolarità ed ottenere voti che sulla proposta della costituente non si sarebbero ottenuti. Ma sono sinceramente sorpreso dalla disinvoltura con la quale si portano al voto centinaia di persone che sono state iscritte solo per il voto. Questo fenomeno non ha nulla a che vedere con la partecipazione. O meglio, ha a che vedere con una idea di partecipazione molto, troppo, simile a quella del partito democratico.
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I compagni della mozione 5 oggi hanno pubblicato su Liberazione una lettera aperta nella quale propongono di cambiare il regolamento per fermare uno stravolgimento della dialettica democratica nel nostro partito. Sostanzialmente ammettendo al conteggio dei voti solo i nuovi iscritti prima di una data precisa e certa, sia eliminando la disparità di possibilità dei circoli di reclutare nuovi iscritti a seconda della data del congresso, sia soprattutto eliminando l’applicazione distorta del regolamento. Io credo che abbiano ragione. Che di fronte ad un tesseramento palesemente gonfiato la loro proposta sia giusta e saggia. Ma credo che l’ultima parola circa questa proposta spetti alla mozione 2, visto che, pur potendola imporre con un voto di maggioranza, non credo si possa procedere nel cambiamento del regolamento se non all’unanimità. E temo che la mozione 2 non accetterà mai di ricondurre il congresso nella normalità. Tutto il loro comportamento è ispirato dalla precisa volontà di usare qualsiasi mezzo, per quanto nocivo per il partito, per vincere il congresso.
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Nonostante questi due fattori che per me sono assolutamente inquinanti io non credo affatto che la mozione 2 possa vincere il congresso.
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Certo per chi propone un processo costituente alla fine del quale, come sostiene esplicitamente Sinistra Democratica che non ha imbarazzo a dirlo, ci sarà un nuovo partito di sinistra affiliato alla famiglia socialista europea, lo stato reale del PRC non ha molta importanza.
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Ci sono, però, tutte le condizioni per sanare le situazioni degenerate del partito in alcune circoscritte realtà. Come esiste la possibilità di rimettere al centro dell’attività politica la società invece che le istituzioni.
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E per questo mi batterò fino all’ultimo congresso di circolo per impedire la morte di Rifondazione Comunista.sassata n° 42008-06-28T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it357393
<p>oggi la lettura dei giornali provoca stati di agitazione.
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Ho letto (fonte Liberazione) che si sono riuniti, chiamati dal crs, un folto numero di esponenti della sinistra. Ecco un elenco parziale: Alfonso Gianni, Roberto Musacchio, Patrizia Sentinelli, Elettra Deiana, Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Goffredo Bettini, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Gianni Cuperlo, Fabio Mussi, Pietro Folena, Famiano Crucianelli, Carla Ravaioli, Sandro Curzi, Miriam Mafai, Beppe Vacca, Alfredo Reichlin, Aldo Bonomi, Mauro Calise.
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Insomma il nuovo che avanza!
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Il relatore Mario Tronti ha detto: “la sinistra deve tornare ad essere una forza che conti” (questo il titolo dell’articolo di Anubi D’Avossa Lussurgiu). E dopo aver sostenuto che bisogna “chiudere il dopo 89, superare la diaspora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti” ha concluso che il dubbio è se “fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra”.
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C’è bisogno di commentare?
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Claudio Fava (nuovo LEADER di Sinistra Democratica secondo la didascalia della foto pubblicata da Liberazione) lancia la Costituente della Sinistra e critica il PD per l’idea di autosufficienza.
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Che vorrà dire?
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Veltroni ascoltava in prima fila, seduto fra Vendola e Occhetto.
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L’articolo non specificava chi era seduto alla sinistra di chi.
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Ma Veltroni era al centro.
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Sul Corriere della Sera ed altri quotidiani pagine e pagine sulla svolta (?) a destra di Barack Obama.
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Dopo aver minacciato la guerra contro l’Iran ed aver proposto Gerusalemme capitale d’Israele adesso insiste per la pena di morte.
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Su Liberazione neanche una riga.
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Siamo ancora fermi al tifo che faceva Sansonetti per Obama?Identità comunista e innovazione.2008-06-20T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it357119
<p>Mentre scrivo non so come finirà il congresso di rifondazione comunista. Spero in una netta affermazione della prima mozione, senza la quale, temo, i problemi di cui mi accingo a parlare in questo scritto rimarrebbero insoluti.
<p>Se la costituente della sinistra fosse stata avviata nei tempi previsti dai suoi ideatori, senza una discussione democratica nel PRC, oggi avremmo già assistito ad una dissoluzione rapida del partito, che solo in parte avrebbe preso le forme di una scissione per alimentare l’altra costituente appositamente approntata dal Pdci, quella comunista. Più o meno lo stesso accadrebbe nel caso di una affermazione maggioritaria della mozione di Vendola al prossimo congresso. C’è chi dice che anche nel caso di una vittoria della mozione Acerbo non si potrebbero evitare una o due scissioni, sul versante delle due costituenti. Non credo a quest’ultima eventualità, essendo fondate entrambe le costituenti sul presupposto della morte di Rifondazione e della divisione delle sue spoglie. L’esistenza in vita del PRC sarebbe garanzia per evitare altre scissioni e nuove nascite di formazioni minori.
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Il punto del quale voglio parlare, però, non è la auspicata funzione antisciossionistica della mozione Acerbo. Mi interessa, piuttosto, mettere in evidenza un paradosso che forse, nel corso degli anni ed anche oggi, è passato inosservato, o quasi. Si tratta della natura delle scissioni che il PRC ha subito e di quelle che rischia di subire oggi. La logica e l’esperienza storica (così infatti è stato per molti altri partiti comunisti nel mondo) vorrebbero che un partito si possa scindere solo sul tema dell’identità e del progetto strategico, non certo su una scelta tattica, quale è, e rimane in ogni caso, l’appartenenza o meno ad un governo.
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Il problema è che Rifondazione Comunista, nel corso della sua breve vita, ha subito 6 (sei!!!) scissioni sul tema del governo. Due verso destra, Movimento dei Comunisti Unitari nel 95 e PdCI nel 98. Quattro verso sinistra, Confederazione dei Comunisti nel 97, Partito di Alternativa Comunista e Partito Comunista del Lavoratori nel 2006, Sinistra Critica nel 2007. Nessuna scissione, invece, c’è stata sull’identità e sul progetto strategico del partito.
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Si potrebbe obiettare che, in realtà, le scissioni di cui sopra, sebbene precipitate su scelte attinenti la collocazione di governo, nascondevano o evidenziavano forti divisioni identitarie. In particolare è vero che all’atto delle scissioni si è invocata una coerenza con la migliore tradizione dell’identità comunista e si è sempre accusato il PRC di averla tradita o abbandonata. Si ricorderà l’impareggiabile Cossutta che tuonava: “io dico solo rifondazione perché non sono comunisti”. Come è vero che in alcuni casi c’era un’identità preesistente che nel PRC non si era mai sciolta né politicamente né organizzativamente. Tutto vero.
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Ma rimane il fatto che tutte sei le scissioni hanno avuto origine da una rottura con un governo o dalla presenza del PRC in un governo.
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Oggi una questione di identità esiste, visto che una parte non marginale del partito ha esplicitamente parlato di obsolescenza dell’identità e della stessa cultura comunista, oltre che di nuovo soggetto dotato di nuova identità. Eppure nessuno parla di scissioni, almeno apertamente, e per il sottoscritto tutto questo sembra davvero un paradosso.
Ovviamente non lo dico né per auspicare né per prevedere l’ineluttabilità di altre scissioni. E’ solo che non mi sembra corretto che passi inosservato un simile paradosso.
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Se le cose stanno così bisogna pur chiedersi cosa abbia originato una situazione come questa.
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Forse la forza, pregnanza ed importanza politica immediata della questione del governo e la relativa genericità, e quindi debolezza, dell’identità comunista. O forse una tale separatezza del governo dalla società che l’identità non sembra bastare né resistere alla prova del governo stesso. O forse la forma partito, questa forma partito specifica nella quale vive l’identità, e che segna l’identità, è intrinsecamente vocata al governo e al potere più che alla realizzazione di processi rivoluzionari. O forse, probabilmente, un poco di tutte queste cose.
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Come si vede non ho le idee chiarissime. Non così tanto confuse, però, da non vedere il problema su cui siamo seduti. Sono certo che non lo risolveremo facilmente e tanto meno velocemente. Non basterà certamente il congresso a sciogliere questo nodo. Tuttavia dobbiamo cominciare a parlarne.
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Io credo che il pensiero comunista sia tanto più debole quanto più fisso, monolitico e dogmatico. Diciamo pure che i tre aggettivi dovrebbero essere incompatibili con un pensiero rivoluzionario. Chiunque, però, può constatare come siano esistiti ed esistano partiti che hanno ridotto la teoria a dottrina e sostituito la ricerca con il dogma. Parlo di pensiero comunista perché penso sia fondamentale nella formazione ed evoluzione dell’identità, che è cosa ben più complessa e vasta, dagli innumerevoli risvolti culturali, politici, sociali e perfino psicologici, che non provo nemmeno a descrivere.
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Si può dire di rifondazione che abbia avuto un pensiero debole, al punto tale da essere sovrastato dalle scelte politiche immediate, per quanto importanti, come l’ingresso o l’uscita da un governo? Credo proprio di no. In fin dei conti, a parte il primo convulso periodo, rifondazione ha rafforzato la propria identità, innovando profondamente il pensiero comunista. Non c’è stato solo il riconoscimento della pluralità dei diversi filoni del comunismo novecentesco. Ci sono state chiare innovazioni, ora appoggiate ora contrastate da questa o quella tendenza presente nel partito. Forse si può dire che alcune innovazioni sono state più annunciate, spesso dall’alto, che discusse previamente nel gruppo dirigente, perchè fossero in partenza un patrimonio veramente condiviso. Ma lo sono divenute nel corso del tempo quando hanno guidato la pratica e le scelte quotidiane e quando, per questo, sono state discusse dal corpo del partito. Parlo, per esempio, della individuazione dei limiti nazionali del partito nell’epoca della globalizzazione e del superamento della funzione di direzione del partito verso ogni conflitto e movimento. Cioè della messa in discussione della presunta superiorità del politico sul sociale, del partito sugli organismi di massa. Parlo della proclamata appartenenza ed internità, alla pari con gli altri soggetti, nel movimento mondiale contro la globalizzazione. Parlo della teorizzazione delle due sinistre e di altro ancora. Altre innovazioni sono state semplicemente annunciate e sono sembrate chiudere, più che aprire, una discussione che le facesse penetrare nella consapevolezza del corpo del partito. Mi riferisco, per esempio, alla svolta antistalinista e a quella nonviolenta. L’una rapidamente divenuta un’arma nelle mani del gruppo dirigente ristretto per “giudicare” e “sentenziare” sulla natura di questo o quel dissenso, in totale incoerenza con l’ispirazione proclamata. L’altra usata come leva per produrre una distinzione ed una divisione, i cui esiti si sono visti ancor meglio in tempi differiti, nel movimento. Non è un caso che entrambe queste ultime citate innovazioni abbiano incontrato i maliziosi ed interessati favori dei salotti buoni, di diversi editorialisti dei maggiori quotidiani e di esponenti di rilievo dei DS. Io, per quel che vale la mia opinione, condivido sia l’antistalinismo sia la nonviolenza, ma sono fermamente convinto della necessità di discuterli a fondo e soprattutto di coniugarli con l’ispirazione conflittuale e rivoluzionaria del pensiero comunista, evitando di ridurli a perbenismo di maniera, giacché in questa forma procurano danni e funzionano come zeppe. Vi è poi una innovazione che è stata solo annunciata, declamata, salvo essere letteralmente contraddetta dai comportamenti e dalle scelte politiche del gruppo dirigente ristretto: la critica del potere. Credo non ci sia neppure bisogno di elencare incongruenze di scelte politiche e perfino di vita interna di partito per dimostrare come la critica del potere sia rimasta solo sulla carta, anzi nell’etere visto che non è stato organizzato neppure uno straccio di seminario per discuterne seriamente e collettivamente. Io credo sia centrale, in modo riassuntivo anche per tutte le altre innovazioni, ripartire dalla critica del potere per coniugare in senso antagonista e realmente rivoluzionario il pensiero comunista contemporaneo ed ogni innovazione che l’abbia attraversato. Credo, in altre parole, che la nostra identità non sia così debole da poter facilmente essere cancellata o contraddetta da una pratica incoerente, ma nemmeno così forte, senza sciogliere il nodo del potere, da poter funzionare da deterrente verso nuove irrimediabili scissioni. In buona sostanza sostengo che il paradosso di non avere mai avuto scissioni esplicitamente identitarie potrebbe essere risolto in negativo oggi e nel futuro subendo la prima separazione in nome del superamento dell’identità comunista o di un ritorno alla stessa nella versione ortodossa. Ma anche, ed è per questo che bisogna battersi nel congresso e dopo, in positivo. E cioè rimuovendo, con la discussione e non con i colpi di scena, le incrostazioni del politicismo e del primato del lavoro nelle istituzioni dal nostro pensiero e dall’agire collettivo. Il che ci continua a rimandare al nodo del potere.
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Il tema del potere è troppo grande per essere affrontato da me ed in questa sede. Ma basta un’osservazione empirica del nostro stato organizzativo per rendersi conto di come la presenza nelle istituzioni sia ridiventato il vero ed unico tema di dibattito politico nel partito a tutti i livelli, con buona pace del “fare società”. Accanto alla promozione nel futuro immediato di un approfondito dibattito, per me irrinviabile, sul tema del potere, bisogna pure sottoporre ad una critica serrata i comportamenti politici figli dell’idea che il potere è tutto, che la società chiede ma che ogni trasformazione necessita del possesso delle leve del potere per realizzarsi. Per non parlare della stessa forma verticistica del partito, disegnata ad immagine e somiglianza delle istituzioni che si vorrebbero democratizzare e che finiscono invece con lo spingere i gruppi dirigenti ad usare il partito per finalità perfino inconfessabili. Se ci saranno queste due cose, un dibattito serio e teorico e l’aggressione delle conseguenze del primato del potere nella nostra vita quotidiana, forse si potranno mettere a valore anche altre innovazioni nella effettiva rifondazione del pensiero e dell’identità comunista. Dandogli la forza per resistere alle intemperie degli andamenti elettorali e delle suggestioni illusorie fondate sul nuovismo. Impedendo nel futuro altre disastrose scissioni.Una risposta abusiva alla lettera aperta di Nichi Vendola indirizzata a Grassi e Ferrero.2008-06-02T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it356475
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Caro Nichi,
non so se sono autorizzato a rispondere alla tua lettera aperta.
Del resto tu l’hai indirizzata a Paolo Ferrero e a Claudio Grassi, non a me.
Forse perché mi consideri un peon non alla tua altezza o forse perché mi consideri irrecuperabile alla civiltà politica, essendo io notoriamente violento, aggressivo, settario ed intollerante.
Mi sa che rimarrò con questo dubbio.
Comunque le lettere aperte suscitano risposte anche inaspettate.
<p>Io ti rispondo perché mi riconosco nelle peggiori cose che scrivi. Sono io che ho parlato di imbroglio riferendomi alla tua candidatura a segretario del partito. Sono ancora io che penso che tu vuoi “sciogliere” il partito (l’ho messo tra virgolette e spiegherò il perché). Sono sempre io che critico il tuo leaderismo. Sono per l’ennesima volta io che ho ironizzato sul tuo “filo diretto” con Padre Pio. Della mummia di Lenin e della TAV non so nulla, e mi dispiace non saperne nulla.
<p>Prima di rendere piena confessione per i miei peccati, bassezze, violenze, per le mie livide fantasie, voglio dirti delle cose, caro Nichi.
<p>Che non ce l’ho con te! Che ti ho sempre stimato e voluto bene. Che conosco i tuoi timori, incertezze, paure. Le tue esitazioni e ritrosie di fronte a scontri politici violenti. So quante volte hai sostenuto posizioni difficili da difendere (spesso giustissime ma ugualmente difficili) anche se ne avresti volentieri fatto a meno perché non ti trovi a tuo agio nel maneggiare dure polemiche.
<p>Anche in questa occasione, nonostante tutto, riconosco il Nichi che ho sempre apprezzato, e credo di capire il tuo stato d’animo.
Tuttavia, caro Nichi, la tua lettera è fuori posto in questa discussione.
<p>Non cerco giustificazioni. Potrei dirti che essere definito “furbo” è molto offensivo per uno come me che ha fatto della linea di condotta del parlar chiaro quasi una ragione di vita (politica). Potrei dirti che sentirsi accusare di coltivare la “cultura del sospetto” per chi l’ha sempre combattuta è disarmante. Potrei parlarti di chi ti toglie il saluto per una critica. Di chi per mesi, ovviamente nei corridoi, ti dice “hai ragione hai ragione” e poi sale alla tribuna e ti attacca perchè ora noi sei più il “pazzo” che dice la verità in solitudine, ma il rappresentante di una posizione che potrebbe risultare di maggioranza. Potrei condividere con te la sensazione di isolamento che ho vissuto, anche per lunghi periodi, dopo aver osato criticare il leader. E non parlo di lui, Bertinotti, che come tutti i veri leader è superiore a certe cose ed ascolta con maggior interesse le critiche che non le lusinghe. Parlo di tanti che hanno lucrato sul mio isolamento. Dei troppi che ho sentito dire cose irripetibili nei corridoi su Bertinotti ed incensare il “capo” nelle riunioni.
<p>Ma non voglio continuare, tanto non serve.
Il problema, caro Nichi, è che la discussione è viziata, e per questo resa aspra oltre ogni limite, dal fatto che si è proposto, detto, annunciato qualcosa che ora si nega.
Non si è detto che bisognava superare il partito? Che bisognava produrre una nuova identità politica in un soggetto nel quale il comunismo, al pari di altre culture, avrebbe albergato come tendenza? Non si è usata la metafora del parto (doloroso e gioioso al tempo stesso) e della nuova nascita? Non si sono distribuite tessere? Non si è detto che la sinistra arcobaleno era irreversibile e che si sarebbe fatta “con chi ci sta”?
<p>Essendomi pronunciato, su Linerazione, in senso contrario al nuovo partito (ho scritto proprio così allora: nuovo partito) proposto da Bertinotti nel giugno del 2007, ho avuto modo per molti mesi di discutere con tante compagne e tanti compagni su quel mio no. Molti, davvero molti, rivendicavano l’idea della nascita di un nuovo grande partito (almeno del 15%). Nessuno, nemmeno Bertinotti, mi ha accusato di avere la cultura del sospetto per aver detto ciò che era chiaro a chiunque non volesse arrampicarsi sugli specchi di formule ambigue come quella del “soggetto unitario e plurale”.
<p>Perché oggi negano tutti? Perché oggi mi si accusa di avere la cultura del sospetto solo per aver preso sul serio le parole pronunciate allora, in campagna elettorale e perfino dopo il voto?
<p>Si, sono arrabbiato. Ma non solo perché sono contrario al partito unico. Soprattutto perché mi sono sentito e mi sento imbrogliato, usato. Perché sono stufo delle doppie verità, anche se declamate in prosa o in poesia.
<p>C’ero anch’io, caro Nichi, in quella sala, alla fine dell’ultimo congresso del PCI. E’ passato molto tempo ma credo di ricordare che tu dicesti che non eri “duro e puro”, identitario e settario. Non avevamo detto per un anno e mezzo che Occhetto voleva sciogliere il PCI? E lui non diceva che no, che la sua proposta era quella del cambio del nome per aprirsi alla sinistra diffusa e che non si sarebbe sciolto nulla?
<p>Lo ricordi?
<p>Non lo dico per fare paragoni, anche se la parola “nuovo” è usata troppo, oggi come allora. Lo dico perché è ingiusto far finta di non capire il senso delle parole. Lo so che nessuno vuole sciogliere il nostro amato partito. Nel senso letterale del termine nessuno lo ha mai proposto e nemmeno detto. Nessuno, cioè, pensa di fare un congresso per dire “è finita, ognuno vada per la sua strada” come fece Lotta Continua. Ma si è ampiamente detto che lo si vuole superare, che si deve andare oltre, che la nostra identità vivrebbe come tendenza culturale nel nuovo partito, soggetto unico, forza politica.
<p>Perché ti adombri se io dico e ripeto che la tua proposta di costituente la interpreto come scioglimento del partito? Perché ciò che dicevamo insieme contro Occhetto era “dire la verità” mentre ciò che io dico a te è una mostruosità, una regressione culturale?
<p>Perché se ho un’idea diversa dalla tua sull’unità della sinistra devo per forza diventare a mia volta un “duro e puro”, un identitario, un nostalgico, un conservatore? Perché?
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E poi, caro Nichi, posso dirti che non avrei mai immaginato che, in Rifondazione, ci sarebbe stato qualcuno che si sarebbe candidato segretario in una conferenza stampa?
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Non lo dico per una banale questione di metodo, che pure esiste. Lo dico per il carico di sostanza, di concezione della politica, di idea del partito che sottende una simile operazione. A me sembra un’iperbole del leaderismo. Ma non solo.
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Posso dire che non mi sembra plausibile che tu possa fare il Presidente di una giunta regionale (per favore spiega ai compagni del sito della tua mozione che la parola governatore non va bene) e contemporaneamente il segretario di un partito da ricostruire? E non solo per il tempo, anche se tu hai proclamato di avere energie infinite. Parlo del fatto che sono due ruoli politicamente incompatibili. Non si può essere il Presidente di tutti e allo stesso tempo magari avere scontri e dure polemiche con il Partito Democratico. O mi sbaglio? Posso dire che la tua candidatura all’inizio del congresso e che le tue dichiarazioni sulla dialettica innovatori-conservatori nel dibattito congressuale, compreso l’aver definito “furbizia” la proposta delle tesi, servono a raccogliere dei voti in più di quelli che si otterrebbero sul nudo punto politico, e cioè sulla costituente? Posso cioè dire sinteticamente che mi sembra tutto un imbroglio?
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Lo so, spesso eccedo verbalmente. Mi conosci da una vita e sai che sono propenso, per amor di chiarezza, ad esprimermi così. E’ certamente un difetto. Perché, però, quando i bersagli delle mie polemiche erano altri ed usavo parole di fuoco contro di loro, ricevevo pacche sulle spalle e perfino complimenti da compagne e compagni che oggi mi danno del violento e dell’intollerante? Perché due pesi e due misure?
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Caro Nichi, anche la politica purtroppo ha le sue durezze. Mi sono sempre sentito tuo amico, anche se non è la prima volta che litighiamo. Continuerò a contestare la tua scelta e a protestare per i danni che provoca senza diminuire di un grammo il rispetto e la stima per te. Cercherò perfino di moderare il linguaggio. Più che altro per non concederti il lusso di fare la vittima.
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Comunque sai che sono un compagno e un amico leale. Che non accoltello alla schiena. Che dico in faccia ciò che penso.
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Da me non hai nulla da temere.
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Guardati piuttosto da alcuni fra i tanti che ti hanno convinto a candidarti.
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Ciao Nichi, buona fortuna a tutti noi.Basta con le mistificazioni! Rifondazione merita di essere rispettata!2008-05-26T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it356180
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Questo è il tempo delle decisioni, non delle recriminazioni o delle mistificazioni. E’ giusto e normale che il dibattito congressuale di un partito si dispieghi in modo che ognuno sostenga le proprie posizioni, cerchi di confutare le altre e cerchi di conquistare voti. Ma non è giusto e normale, o non dovrebbe esserlo, che il dibattito sia inquinato da mistificazioni, da doppie verità, da giravolte di ogni tipo.
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Allora, anche a costo di essere ripetitivo e noioso, visto che si tenta di occultare il vero oggetto del contendere, torno a dire cosa è successo, come nasce e come deve svolgersi, secondo me, questo dibattito congressuale.
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1) Di fronte al risultato elettorale non si può dire altro che tutto (TUTTO) il gruppo dirigente del partito è responsabile di una sconfitta e di un fallimento senza precedenti. Lo dico io per primo che pure avevo espresso, per tempo, numerose divergenze sia sulla nostra permanenza al governo sia sulla sinistra arcobaleno come assemblaggio di ceto politico con tre partiti dichiaratamente governisti. Ciò che è successo all’indomani delle elezioni nel partito è il frutto del tentativo, annunciato ampiamente, di avviare una costituente su base individuale (stampate e distribuite le tessere della sinistra arcobaleno) e delle dichiarazioni sull’accelerazione e sulla irreversibilità di tale operazione. E’ inutile tentare di occultare questo dato parlando di golpe, di resa dei conti e di personalismi vari. Semplicemente chi non era d’accordo con quella costituente (e io sono stato in prima fila), mai discussa in quei termini da nessuna parte nel partito e discussa invece con Mussi e diverse “personalità” che avrebbero lanciato l’operazione con un appello pubblico a farla subito, ha impedito che si facesse. Lo ha impedito in modo limpido, dichiarandolo esplicitamente, e permettendo così un dibattito ed una decisione democratica. Diversamente avremmo avuto una costituente sulla base del principio una testa un voto, alla quale avrebbero partecipato anche militanti di rifondazione, e il congresso del PRC sarebbe stato luogo di ratifica e valutazione di quanto già fatto. Il PRC si sarebbe diviso fra la costituente della sinistra e quella comunista (lanciata parallelamente dal Pdci) dissolvendosi definitivamente. Qui non ci sono processi alle intenzioni, bensì valutazioni politiche su intendimenti proclamati su tutti gli organi di stampa e su tutte le televisioni da Bertinotti, Giordano, Vendola, Migliore e diversi altri. Non credo di aver avuto le allucinazioni quando ad un TG ho visto Giordano il giorno dopo le elezioni dichiarare che “la Sinistra Arcobaleno è un processo irreversibile” e che “la faremo comunque con chi ci sta”. Capisco bene che il fatto che nel CPN sia stata impedita questa operazione abbia mandato su tutte le furie chi il CPN avrebbe voluto farlo due o tre settimane dopo il voto, a fatti compiuti. Ma non è accettabile, mi spiace, la mistificazione secondo la quale si sarebbero indicati capri espiatori allo scopo di sostituire il segretario con un altro o, peggio ancora, che si sarebbe promossa una resa dei conti. Quindi bisognerebbe smetterla di inquinare il dibattito con le teorie del complotto assumendosi la responsabilità dei propri atti e delle proprie proposte politiche.
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2) Non ha senso presentare gli schieramenti usciti da quel CPN come innovatori e conservatori, come eredi delle innovazioni culturali e detrattori delle stesse, come il tradimento della maggioranza del congresso di Venezia. O meglio, ha un senso per chi vuole spostare la discussione dal punto politico del futuro del partito a quello della presunta coerenza con la migliore storia di rifondazione, ben sapendo che l’idea del superamento del partito non è popolare fra gli iscritti e che conviene chiamarli a schierarsi su altro. E’ bene che tutti sappiano che dall’ultimo congresso la mozione di maggioranza si è divisa e milita in ben quattro dei cinque documenti congressuali (tranne falce e martello), che la mozione 2 di Venezia si è divisa e milita in tre documenti (compresa la mozione Vendola), che due delle tre mozioni di Venezia sono uscite dal partito e si sono presentate alle elezioni. Come si fa, dopo un simile terremoto, a proclamare che da una parte ci sarebbero gli innovatori eredi del meglio di Venezia e dall’altra gli identitari, settari, chiusi e via insultando? Anche per questa ragione ho insistito per un congresso con un unico documento a tesi. Avremmo potuto dividerci e votare su diverse tesi alternative sul punto del futuro del partito e su quale unità della sinistra e discutere liberamente del resto, riconoscendo e valorizzando l’unità che pure c’è fra noi su tantissime cose. Non si è voluto solo per dimostrare che siamo divisi sulla cultura politica invece che sul superamento del partito. E siamo arrivati al punto che si accusa, a mezzo comunicato stampa, la mozione Acerbo di aver “copiato” da quella Vendola i temi dell’antimafia, della questione meridionale e non so cos’altro. Come se dovessimo avere posizioni diverse e contrapposte sull’antimafia!
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3) Ha senso, invece, la autocandidatura di Nichi Vendola alla segreteria del partito. Ha senso perchè già da mesi si parlava di Vendola come leader del nuovo partito della sinistra. Ha senso perché Vendola aveva ricevuto una semi-investitura, come scritto da tutti i quotidiani imboccati dalla pletora di addetti stampa di Bertinotti e Migliore, all’assemblea degli “stati generali” dove l’applausometro l’aveva messo sul trono. Ha senso per superare i malumori dei tanti dirigenti della mozione Vendola per la candidatura di Bertinotti a premier in campagna elettorale. Ha senso per cavalcare la tigre del leaderismo e per ridurre militanti ed iscritti a tifosi passivi e plaudenti. Ha senso perché la dice lunga sulla natura del partito, o soggetto che dir si voglia, della sinistra che si vuole costituire. Una formazione ultrapoliticista, dominata da “personalità” in accordo e concorrenza fra loro, con un leader dalle mani libere per decidere le mosse da comunicare dalla televisione. Ha senso perché Vendola può raccogliere voti sulla sua persona che non andrebbero mai alla proposta della costituente che prevede il superamento di rifondazione comunista. Ha senso perché perpetua l’idea che il partito deve essere governato da una maggioranza identificata con un leader.
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Ma non dovrebbe avere senso perché é una scorrettezza enorme anteporre le persone alle idee. Almeno in un partito antagonista che si prefigge di cambiare le cose e non di imitare il peggio della cultura politica maggioritaria oggi in Italia. Perché Vendola non può contemporaneamente fare il segretario del nostro partito e il presidente di una regione dove governa col Partito Democratico. A meno di non avere un inconfessabile accordo con il PD sul dopo congresso. Perché, per essere eletto segretario, dovrebbe avere il 51% dei voti e rifiutare ogni logica di gestione unitaria del partito.
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La verità, secondo me, è che Vendola non pensa nemmeno lontanamente di fare il segretario del partito. Semplicemente ha messo a disposizione la sua popolarità per conquistare più voti per la mozione che propone la costituente di sinistra, e cioè il superamento di rifondazione comunista e la spaccatura della sinistra fra comunisti e neosocialisti.
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4) Tutti vogliamo l’unità della sinistra. Ma quale unità? Per fare cosa? Non sono domande superflue. Se nel PRC vincesse la mozione Vendola si procederebbe, come ben scritto, ad una costituente della sinistra, ben sapendo che Verdi e Pdci non ne farebbero parte. In altre parole si realizzerebbe il progetto di Sinistra Democratica e si alimenterebbe l’altro progetto del Pdci. Rifondazione, come gran parte dei soggetti politico-sociali di movimento, sarebbero divisi e dilaniati dai due processi costituenti. Entrambe le costituenti sarebbero subalterne al Partito Democratico sia per vocazione, visto che sia Fava sia il Pdci vogliono un’alleanza strategica con il PD, sia per la debolezza intrinseca prodotta dalla divisione. Ma se Rifondazione continuasse ad esistere entrambe le costituenti sarebbero sterili e non potrebbero realizzarsi, giacché sono unite su un solo punto: che rifondazione debba sparire e che il suo patrimonio politico e non solo, possa essere diviso.
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Detto questo, che comunque non è poco, resta da capire come e per cosa vale la pena di costruirla l’unità della sinistra.
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Non basta dire che bisogna ricostruirla dal basso. Lo dicono tutti e senza alcune precisazioni può non voler dire niente.
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E’ necessario ricostruire conflitto sociale, vertenze, esperienze di mutualità e di solidarietà attiva. E’ necessario coordinare forze politiche e sociali per essere efficaci nell’opposizione al governo Berlusconi. Questa è la strada per unire ciò che di sinistra rimane nel paese. Rifondazione c’è nei quartieri degradati, come ci sono centinaia di associazioni, gruppi, centri sociali, comitati di lotta. Non si tratta di tornare ai territori o di tornare a parlare alla “gente” per strada. Si tratta di dimostrare una coerenza fra ciò che si predica e si dice e ciò che si fa nelle istituzioni, visto che al governo non abbiamo ottenuto nulla. Si tratta di smetterla, in quei quartieri degradati, di fare tavole rotonde sull’unità della sinistra e di promuovere, invece, vertenze e lotte insieme ai gruppi e comitati. Si tratta, cioè, di unire la sinistra reale rispettando le identità di tutti e le culture di tutti. Ma è solo l’impegno sociale e la lotta ad essere il terreno per un confronto fertile ed anche per una effettiva contaminazione reciproca. Le tavole rotonde con chi dice che il comunismo deve sparire, magari per tornare a Riccardo Lombardi coma fa Ginsburg, come i dibattiti “per costruire un nuovo centrosinistra” come fa Fava insieme ad esponenti di Rifondazione, non costruiscono unità, bensì ulteriori divisioni e separatezza del ceto politico dalla società. Promuoviamo per un anno l’unità di chi vuole contestare il G8 del 2009, e facciamolo come facemmo con il Genoa Social Forum, ed avremo l’unità della sinistra in questo paese.
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5) Non basta salvare rifondazione. Tutti dicono che non è autosufficiente ma una cosa è riconoscerne i limiti e individuarne i difetti da correggere, e un’altra e considerarla un ferrovecchio di cui liberarsi rapidamente per liberare finalmente le forze della sinistra diffusa. Insisto nel dire che una parte importante del gruppo dirigente di rifondazione è come se avesse detto: abbiamo ambizioni e progettualità così grandi e così alte che rifondazione non basta, ci vuole un partito (o soggetto che dir si voglia) alla nostra altezza. Ieri mi è ricapitato fra le mani il testo di una mia lettera di solidarietà ai compagni di Firenze promotori dell’appello di novembre ai quali un anonimo dirigente della federazione aveva detto sul Corriere della Sera: “non bisogna avere paura di qualche centinaia di contrari, se si ha intenzione di parlare a milioni di possibili elettori”. Quanta boria, quanta presunzione, in queste parole! E’ proprio l’esempio lampante di quanto dicevo più sopra. Chi vuole parlare a milioni di elettori considera tanti compagni del partito, che oggi guarda caso sono in stragrande maggioranza a Firenze, dei poveri deficienti non all’altezza degli splendidi disegni di un gruppo dirigente illuminato. Salvo svegliarsi il 14 aprile senza i milioni di elettori e senza la fiducia e il rispetto dei compagni che il partito l’hanno costruito e fatto vivere per tanti anni.
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Ma non basta salvare rifondazione. Perchè é stata snaturata troppo dal leaderismo e dal conformismo conseguente. Dall’istituzionalismo che ha determinato una situazione insostenibile: non sono più i rappresentanti nelle istituzioni a servire ai circoli e al partito per essere più incisivi ed efficaci bensì il contrario. Circoli e gruppi di iscritti al servizio dei consiglieri, degli assessori e dei parlamentari. E sarebbe ancor peggio se si affermasse l’idea che solo un nuovo leader può salvare il partito. Avremmo un partito al servizio di una persona e delle sue decisioni.
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Ma non basta salvare rifondazione. Bisogna sapere che il partito deve riformarsi, deve ritrovare il senso di un’appartenenza, di una collegialità e di una democrazia che sono, evidentemente, entrate in crisi. Per fare questo non basterà il congresso, sarà necessario un lungo cammino, paziente e determinato.
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Molti lamentano una presunta chiusura del dibattito di rifondazione. E’ ingiusto ed ingeneroso. Perché sottovalutare la necessità di un partito di discutere democraticamente del proprio futuro? Perché, dopo mesi di assurde assemblee e discussioni sulle forme di un contenitore senza contenuti, si vuole che novantamila iscritti a rifondazione non discutano anche di se stessi? Perché un qualsiasi gruppo può riunirsi e decidere quale proposta fare agli altri e se la stessa cosa la fa un partito diventa una perdita di tempo? Forse si preferisce che a decidere siano quattro leader oligarchi? O si pretende che un’associazione di trenta persone, che merita tutto il rispetto del mondo, decida e che gli altri debbano applicare? Non sarà che qualcuno pensa che chi è iscritto ad un partito non abbia il diritto di partecipare e decidere perché per lui c’è un leader che ci pensa? Non sarà che c’è chi pensa che non avere una tessera di partito renda migliori?
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Quindi, se si pensa che il dibattito di un partito sia poco interessante non c’è nessun obbligo a seguirlo. Se si pensa che rifondazione non debba decidere di se stessa, per le ripercussioni che questo avrebbe su altri magnifici progetti, ci si chieda che progetti sono visto che non possono realizzarsi se non sulle spoglie di rifondazione. Se si crede che un partito sia obsoleto, inutile, vecchio e tendenzialmente stupido si sappia che non c’è nessun obbligo a farne parte.
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Il Partito della Rifondazione Comunista è sempre stato aperto, ha eletto centinaia e centinaia di persone senza tessera pur essendo un partito piccolo, ha sempre tentato di dialogare alla pari con tutti. E’ stato un partito molto generoso ed unitario.
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E’ ora che venga ripagato con la stessa moneta.sassata n° 32008-05-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it355522
<p>Dopo il Comitato Politico Nazionale il quotidiano Liberazione che fa? Intervista Nichi Vendola (tutta la seconda e parte della terza pagina, richiamo in prima e due foto) facendogli domande del tipo: Ferrero dice Ferrero propone, in modo che possa rispondere, travisare, mentire.
<p>Sabato si era discusso di politica, ma Vendola non ha sentito il bisogno di dire la sua.
<p>Però si è “candidato” alla segreteria del partito in una conferenza stampa.
<p>E Liberazione lo intervista per questo.
<p>Così i lettori, questo è il giochetto sporco, hanno l’impressione che ci sia un candidato del partito e che gli altri siano dissidenti. Così hanno l’impressione che ci siano già due candidati, uno osannato dal popolo e l’altro frutto di un complotto. Così che non si discuta di cosa è successo negli ultimi due anni e di cosa bisogna fare, bensì di presunte identità statiche e di meravigliose capacità suggestive, innovative e comunicative.
<p>E’ la prima volta, lo dico per i lettori che non lo sanno, che nel Partito della Rifondazione Comunista, qualcuno annuncia che si candida alla segreteria del partito. Ben sapendo che non sarà il congresso ad eleggerlo bensì il nuovo comitato politico nazionale eletto democraticamente sulla base dei consensi dei diversi documenti.
<p>In un partito democratico bisogna prima decidere una linea politica e poi un segretario, non scegliere una persona che poi detterà in modo monarchico la linea che vuole lui.
<p>Ciò che ha fatto Vendola è un’altra ferita inferta ad un partito che è stato troppo malato di leaderismo e che così rischia di scivolare nel Veltronismo più bieco.
<p>Non a caso Vendola gode già, da diverse settimane, dell’appoggio esplicito del Partito Democratico e di tutto il suo sistema informativo.
<p>Vendola, nella conferenza stampa, ha parlato moltissimo di se stesso ed ha detto che salverà il partito, la Puglia e la sinistra in generale.
<p>Va bene che ha un filo diretto con Padre Pio e con Dio ma mi sembra un tantino esagerato. O no?
<p>Io confido nell’intelligenza delle compagne e dei compagni, nella loro voglia di ragionare, capire, decidere.
<p>Evidentemente Vendola confida nella paura del futuro, nell’istinto ad essere rassicurati da un leader o da un falso profeta.
<p>SANSONETIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII…..
<p>Ti comunico che nella mozione che ho firmato, come tutti in ordine alfabetico, siamo tutte e tutti candidati alla segreteria del partito ed abbiamo diritto allo stesso spazio di Vendola. E non chiediamo un giornalista inginocchiato, coma Anubi D’Avossa Lussurgiu, per essere intervistati.
<p>Non ne abbiamo bisogno.Secondo Giordano sono un golpista, dalla cultura antica e nefasta, e lui è una vittima innocente. Mah!!!2008-05-09T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it355262
<p>I compagni Franco Giordano e Roberto Musacchio hanno risposto alla mia intervista pubblicata su <a href="http://www.liberazione.it">Liberazione</a> del 3 maggio. Potete leggere su Liberazione di domenica 4 maggio a pagina 6.
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A parte il tono vagamente insultante, che comunque mi lascia indifferente, vediamo gli scarsi argomenti usati contro di me.
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Giordano dice che non ha mai proposto di sciogliere rifondazione comunista. Ha ragione. Nessuno l’ha proposto. Infatti non mi risulta che qualcuno abbia l’idea di fare ciò che fecero prima il PSIUP e poi Lotta Continua. Cioè sciogliersi e lasciare che ogni militante andasse per la propria strada. Ma avrei dovuto vivere in Australia, non leggere la stampa italiana e non guardare la televisione per non sapere che da un anno è in discussione il “superamento” di Rifondazione Comunista. Ci sono decine, dico decine, di articoli e dichiarazioni, oltre che di interventi pubblici, di Bertinotti e tanti altri dirigenti di Rifondazione, oltre che del direttore di Liberazione, che lo propongono. Che Giordano abbia usato cautela non proponendo mai il partito unico bensì la formula del “soggetto unitario e plurale”, frutto di un compromesso (da me non condiviso) per tenere insieme una maggioranza nella quale c’era chi voleva la federazione e chi il partito unico, è vero. Anche se ogni tanto ha parlato di soggetto unico o si è dichiarato d’accordo con chi ha proposto il partito unico.
<p>Ricordo un’intervista di Giovanni Berlinguer che lo proponeva esplicitamente e un commento di Giordano che si dichiarava completamente d’accordo. Non mi risulta che abbia mai nemmeno tentato di confutare ciò che diceva esplicitamente Bertinotti. L’ho sempre visto scagliarsi, secondo me giustamente, verso Diliberto e verso le proposte del Pdci, ma mai verso Mussi e tanti altri esponenti di Sinistra Democratica, che hanno sempre, e lo stanno facendo anche in questi giorni, detto che per loro l’unità della sinistra si fa facendo un partito unico e di ispirazione socialista. Insomma, a sentire Giordano, e Musacchio, che qualcuno volesse “superare” rifondazione è un’invenzione mia e di altri visionari prodotta allo scopo di dividere la maggioranza del partito. Per fortuna non tutti sono in malafede. Ed ecco che nella riunione della commissione politica del congresso di settimana scorsa, il compagno Peppe De Cristofaro ha detto che se ci fosse stato un buon risultato per la Sinistra Arcobaleno lui avrebbe proposto lo scioglimento (ha usato la parola scioglimento) di rifondazione comunista. Del resto era di pubblico dominio che decine di dirigenti e candidati di rifondazione avevano questa proposta da avanzare all’indomani delle elezioni. E milioni di telespettatori ricordano le affermazioni di Bertinotti sul partito unico e sul comunismo “corrente culturale” nel nuovo partito. Per giunta la costituente avrebbe dovuto partire subito, anche organizzativamente, e agli iscritti di rifondazione sarebbe spettato il diritto di decidere se ratificare o meno quanto già fatto. E vorrei ricordare che Giordano il giorno dopo le elezioni, sempre in televisione, quando Diliberto aveva già detto che lanciava la costituente comunista, ha ancora insistito dicendo che la Sinistra Arcobaleno “è un processo irreversibile”.
Tutto questo, e non un torbido complotto, ha prodotto la rottura della maggioranza del partito e gli esiti dell’ultimo Comitato Politico Nazionale. Sarebbe bene, anche per lui, che Giordano se ne facesse una ragione.
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Ma io sarei anche colpevole di avere una cultura del sospetto, di tentare di demolire gli avversari con calunnie.
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Francamente non saprei cosa rispondere a simili accuse. Tutta la mia vita testimonia il contrario. Mi sembra solo frutto della coda di paglia di Giordano. Dovrei pensare che sia un cretino se non si è accorto, dalla posizione privilegiata di segretario del partito, di cosa è accaduto nell’ultimo anno e durante la campagna elettorale. Ma non lo penso. Penso, invece, che Giordano avrebbe dovuto risparmiarsi nelle conclusioni al CPN le allusioni secondo le quali ci sarebbero stati veti al ritiro della delegazione di governo. Nelle riunioni alle quali ho partecipato non ho sentito nulla del genere e posso, al contrario, testimoniare una cosa. Nella riunione del gruppo alla camera, che fu la prima sede nella quale si discusse del voto di fiducia sul welfare, io proposi il voto contrario e fu Pegolo (della corrente dell’Ernesto) a proporre di votare la fiducia ritirando al contempo la delegazione del PRC dal governo. Giordano sedeva alla presidenza e una ventina di minuti dopo l’intervento di Pegolo fece un discorso conclusivo nel quale si disse contrario alle due proposte. Non so chi telepaticamente abbia potuto porre veti visto che non ricevette né fece telefonate. Mi permetto di avanzare un dubbio. Non credo che rifondazione potesse ritirare la delegazione di governo. Ma non per problemi interni. Bensì per il veto che sarebbe venuto da Mussi Pecoraro Scanio e Diliberto. Ma forse anche questo dubbio mi è stato suggerito dalla cultura del sospetto che si è improvvisamente impadronita della mia mente!
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Quanto alle critiche sulla proposta di svolgere un congresso a tesi posso rispondere senza problemi.
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Pensavo e penso che la cultura politica innovativa di rifondazione non si possa né si debba usare strumentalmente per metterla al servizio di una proposta politica, qualsiasi essa sia. Non capisco perché chi è d’accordo sulla nonviolenza dovrebbe essere per forza d’accordo sulla costituente di sinistra e viceversa. Del resto fra i più convinti sostenitori del superamento di rifondazione ci sono compagni che al congresso di Venezia votarono la mozione dell’Ernesto e contro la nonviolenza. Cosa farà Giordano al prossimo congresso? Espellerà Valentini dalla mozione, visto che teorizza che ci deve essere coerenza fra cultura politica e proposta? Mah!
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In realtà, e mi spiace dirlo, Vendola e Giordano, invece che sugli errori degli ultimi due anni, vorrebbero che il congresso discutesse sulla cultura politica dividendosi fra innovatori e conservatori. Vendola lo ha detto esplicitamente più volte. Perciò, e solo perciò, hanno respinto una proposta di buon senso. E cioè di dividersi su una questione controversa come la costituente di sinistra e di discutere liberamente sull’analisi del voto, sulle modificazioni sociali, sulle lotte da fare e anche sulla cultura politica. Questo si sarebbe potuto fare con tesi emendabili, che inoltre avrebbero dato, ma forse sarebbe meglio dire ridato, la parola agli iscritti.
<p>Invece andremo a un congresso a mozioni contrapposte. Ma in molti ci batteremo affiché siano emendabili.Intervista su Liberazione del 3 maggio 20082008-05-03T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it355115
<p>“Due anni fa Rifondazione ha smarrito la strada. Ora deve ripartire da dove si è persa”.
<p>di Frida Nacinovich da Liberazione
<p>Sul tuo blog hai scritto: “La scorciatoia politica dell’unità dall’alto non mi convince. Da lettrice del blog di Ramon Mantovani, da elettrice di sinistra, ti chiedo: si poteva evitare questo disastro elettorale?
<p>Certo che sì. Lo penso e lo dico da più di un anno. Unire dall’alto quattro partiti di governo è una scelta completamente sbagliata. Si poteva e si doveva aprire un confronto sul welfare, sulla precarietà, sulle pensioni. Arrivare - se necessario - ad una rottura con il governo Prodi. Tutto questo è stato impedito proprio dall’unità dei quattro partiti.
<p>Quando parli dei quattro partiti di governo ti riferisci a Rifondazione comunista, Verdi, Sinistra democratica e Comunisti italiani, tutti presenti nell’unione prodiana perchè avevano scelto due anni fa di far parte della coalizione che vinse per un pelo le elezioni?
<p>Esattamente. Ma Rifondazione comunista aveva in testa la sinistra europea, guardava a soggetti politici e culturali alternativi, contrari alla globalizzazione. Poi siamo passati all’unione con tre partiti “governisti”, interessante osservare che ognuno di questi ha un diverso partito europeo di riferimento. Un cambiamento di linea politica a trecentosessanta gradi, messo in campo senza alcuna discussione, calato dall’alto.
<p>Criticare ora è fin troppo facile, un po’ come sparare sulla croce rossa. Dal parlamentare di lungo corso Ramon Mantovani vorrei sapere cosa si è perso in questi ultimi due anni. Sicuramente i voti. Ma c’è dell’altro. Cosa?
<p>Avremmo dovuto aprire un circuito virtuoso, partire dalle buone cose fatte dal governo per portare avanti ulteriori richieste, mettere in campo altre mobilitazioni. In caso di fallimento avremmo dovuto essere in grado di tirare le conseguenze e lasciare il governo Prodi. Uscire dal governo perchè qualcosa non aveva funzionato. Nel luglio dello scorso anno la trattativa con i sindacati sul welfare aveva imboccato la strada sbagliata, era diventata un vicolo cieco. Bisognava essere in grado di mettere in campo una grande mobilitazione senza esitazione alcuna. O si rispetta il programma di governo o si esce dal governo.
<p>Se proprio vogliamo parlare di programma, sembra che sia stato rispettato poco o nulla.
<p>Il programma dell’Unione è stato totalmente tradito. Penso che avremmo dovuto essere più determinati su punti centrali come il welfare per poi presentare il conto su tutto.
<p>Sempre sul tuo blog si legge “il patrimonio di Rifondazione non deve essere disperso”. Che cosa difendi? Rifondazione comunista? La falce e il martello? Il sogno di un altro mondo possibile? L’idea di un’alternativa di società?
<p>Difendo il progetto politico di Rifondazione comunista. L’idea di un partito comunista capace di grandi innovazioni. Di mettersi in discussione a partire dal suo ruolo nelle istituzioni e nel governo.
<p>E penso che fino a due anni fa Rifondazione abbia camminato sullo stesso percorso scelto dal ‘98, poi è andata al governo ed è cambiato tutto. La non rottura con Prodi è stata lo smarrimento di una strada.
<p>Io chiedo di tornare a due anni fa. Di ripartire da lì.
<p>Come il polline di primavera, anche qui, nel quartier generale di Rifondazione comunista a viale del Policlinico, c’è qualcosa che gira nell’aria. Su gran parte dei media si parla di resa dei conti, di un congresso incandescente, di mozioni contrapposte. Di leader pronti allo scontro. Come la vedi? Qual è il tuo giudizio su quanto sta accadendo.
<p>Durante la campagna elettorale Giordano, Vendola, Migliore e con loro altri dirigenti hanno proposto il superamento di Rifondazione. Ecco quello che è successo.
<p>Hai detto: il superamento di Rifondazione.
<p>L’hanno proposto esplicitamente e senza aprire alcuna discussione nel partito. E si apprestavano a compiere altri atti irreversibili, così come loro stessi avevano annunciato. Io ho pensato che fosse necessario impedire che si arrivasse alla dissoluzione di Rifondazione comunista. E il voto nel comitato politico nazionale ha voluto proprio cambiare questa traiettoria, permettere di arrivare ad un congresso dove la parola tornasse alle iscritte e agli iscritti.
<p>Un congresso a tesi o a mozioni?
<p>Penso sia giusto fare un congresso a tesi. E per quanto riguarda la vita del partito e l’unità della sinistra sarebbe opportuno esplicitare opzioni diverse così che gli iscritti e le iscritte possano scegliere, non scoprire il loro destino guardando “Porta a porta”. Sul resto credo ci debba essere la massima libertà da parte di circoli e federazioni di emendare queste tesi, di mescolare idee diverse sul partito. Penso anche che Franco Giordano e Nichi Vendola vogliano invece un congresso di scontro, permeato sulla scelta di un futuro leader. Lo considero altamente pericoloso, perchè questo scontro potrebbe rivelarsi distruttivo per il partito.
<p>Scindere un partito ridotto ai minimi termini sarebbe in sintonia con il destino della galassia della sinistra italiana…
<p>Non vedo all’ordine del giorno nessuna scissione. Il congresso dirà se il partito esiste oggi, se esisterà domani. Certamente, se si affermasse la proposta di Giordano sulla costituente della sinistra così come è stata delineata, allora il partito finirebbe con l’essere dilaniato. In campo resterebbe l’ipotesi della costituente comunista di Oliviero Diliberto, molti compagni andrebbero a casa, un altro gruppo darebbe vita a un nuovo partito di sinistra socialista. Sarebbe la fine di Rifondazione comunista.
<p>Torniamo alla Sinistra arcobaleno e a quella parte di sinistra italiana che non è entrata nell’arcobaleno. E’ davvero una missione impossibile quella di unificare, cercare minimi comuni denominatori a questo frastagliato microcosmo?
Quale frastagliato microcosmo?
<p>La Sinistra critica, il Partito comunista dei lavoratori, solo per fare i nomi di due partiti che si sono presentati alle ultime elezioni, entrambi sotto il simbolo della falce e martello.
<p>Penso che sia sbagliato ragionare in termini di sigle. A mio avviso l’importante è costruire una sinistra che affronti problemi concreti, che nasca dal basso. L’unità che mi interessa è quella delle diverse esperienze. Faccio un esempio per essere più chiaro: sarebbe importante mettere insieme tutto quel che si muoverà intorno al G8 della Maddalena. Questa è l’unità che piace a me. Accorpare intellettuali e ceto politico come continuano a proporre è deleterio. Non solo, alla fine del percorso crea nuove divisioni.
<p>Stai ripetendo che il progetto della Sinistra l’Arcobaleno era e resta sbagliato?
<p>Esattamente.In risposta all’intervista di Nichi Vendola sul Manifesto2008-04-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it332078
<p><a href="http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/25-Aprile-2008/art56.html">L’intervista di Nichi Vendola</a> di venerdì è l’ennesima operazione mimetica che nasconde i veri problemi per spostare la discussione su un terreno ideologico, in un’auspicata contesa innovatori contro conservatori. Proprio non ci siamo. Insistere nel dire che ci sarebbe stata un resa dei conti, addirittura violenta, che la proposta del congresso a tesi sarebbe una furbizia, non è un bel modo per discutere. Perché intorpidire le acque in questo modo? Chi non era d’accordo con la realizzazione degli annunci di Bertinotti, di Giordano e dello stesso Vendola, mai discussi da nessuna parte nel partito, che avrebbero reso irreversibile il processo di dissoluzione di Rifondazione, lo ha impedito con un voto e con una posizione limpida. Lo abbiamo fatto per restituire, prima che fosse troppo tardi, la parola agli iscritti e a quanti, nella sinistra, sono interessati ad una discussione di prospettiva. Sarebbe interessante discutere della prospettiva piuttosto che di golpe o di contraddizioni tra i golpisti. Come Nichi sa io mi sono opposto, fin dall’anno scorso, alla scorciatoia politicista dell’unità dall’alto. Mi sembrava e mi sembra un fuggire dal problema del governo in compagnia di forze che hanno sempre fatto, della collocazione di governo, il loro orizzonte strategico. Su questo punto Nichi non dice nulla di nulla ed insiste, invece, a proporre di “ricostruire il campo della sinistra” con l’idea, molto curiosa, che si sa dove si comincia e non si deve sapere dove si finisce, anche nella relazione con il PD. Io non sono appassionato alle formulette organizzative. Mi interessa riprendere il cammino del “fare società” e dello stare “nei” movimenti, da dove è stato interrotto a causa dell’esperienza di governo. E su queste basi trovare l’unità possibile ed efficace della sinistra. In altre parole vorrei che l’idea dell’unità alla base della Sinistra Arcobaleno fosse completamente rovesciata. Non il “mettiamoci insieme”, sorvolando su questioni strategiche come il governo, per poi vedere cosa viene fuori, bensì il ripartiamo dalle lotte, dal nostro insediamento sociale, che c’è ancora, da contenuti chiari, e su queste basi costruiamo l’unità. Per questo il patrimonio di Rifondazione non deve essere disperso. In particolare l’innovazione che ci ha contraddistinti in questi anni non va perduta perché é indispensabile per affrontare il nostro tempo.
<p>E’ l’averla ridotta a litania ripetuta, ma non praticata, a fiore all’occhiello da esibire per guadagnare l’apprezzamento di alcuni salotti buoni, che l’ha messa a rischio. Il congresso su tesi emendabili dall’alto e dal basso, con la chiarezza del voto su opzioni politiche riguardanti il partito e la sinistra, e con una discussione libera su molte altre cose, comprese le culture politiche che sono un campo di ricerca e non uno strumento al servizio di questa o quella scelta immediata, è una proposta unitaria, non una furbizia. Sostenere che chi è per la non violenza deve per forza essere per la costituente e che chi vuole mantenere in vita il partito lo vuol fare cancellando la nonviolenza, questo sì è una furbizia. Possiamo davvero fare un congresso utile a noi stessi e a tutta la sinistra proprio se, dopo una catastrofe di queste dimensioni, siamo capaci di rimetterci in discussione anche parlando, dolorosamente, degli errori commessi e di che cosa ci divide e di che cosa ci unisce, piuttosto che cercare una finta unità del gruppo dirigente, alla ricerca di un’autoassoluzione.
<p>Bisogna bandire le doppie verità, quelle per il gruppo dirigente e quelle per i militanti, quelle per la tv e quelle per i congressi, quelle per gli amici e quelle per i nemici. E bisogna parlare di politica e non di leader. So bene quanto l’idea del leader salvifico, capace di comunicare in TV e di parlare suscitando emozioni, sia penetrata in un corpo politico confuso e reso impotente, proprio perché largamente espropriato del diritto di decidere del proprio destino. Ma una discussione inquinata da questo elemento, personalizzata fino al parossismo, produrrebbe solo divisioni insanabili e un esodo di proporzioni ancor più grandi di quelle che abbiamo conosciuto nella nostra vita politica. Non si tratta di lapidare nessuno, caro Nichi, e comunque sono i mujaheddin del popolo ad essere lapidati ed impiccati dai seguaci dell’ayatollah che incarna l’unità indissolubile della cultura religiosa e della politica di stato.
<p>pubblicato su Il Manifesto il 27 aprile 2008Rifondazione non deve litigare e dividersi, bensì ragionare e pensare al futuro. Ma senza imbrogliare.2008-04-21T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it331949
<p>Due anni di governo hanno cambiato tutto e gli elettori hanno dato un giudizio definitivo su una linea di unità della sinistra che si è rivelata fallimentare e completamente separata dal paese reale.
<p>Presentare il dibattito interno a Rifondazione come una resa dei conti o, peggio ancora, come un golpe per eleggere un segretario invece che un altro è una caricatura vergognosa. Che lo presenti così il Corriere della Sera (che però fa già il tifo per Vendola) o la Repubblica è del tutto normale. Che lo faccia una parte di Rifondazione è irresponsabile e disarmante. Ed è questo che inquina il dibattito, erige steccati e provoca divisioni che rischiano di distruggere tutto e di disperdere un patrimonio collettivo.
<p>Questo è il momento di parlar chiaro. Dovrebbe esserlo sempre, ma questo lo è ancor di più.
<p>Sui motivi che ci hanno portato a questa sconfitta terribile ho già scritto.
<p>Voglio, ora, dire cosa è successo negli ultimi giorni di campagna elettorale e dopo, perchè è fondamentale per capire cosa è successo, dopo, nel Comitato Politico Nazionale del partito.
<p>Il gruppo dirigente del PRC negli ultimi mesi si è retto su un preciso accordo: parlare di “soggetto unitario e plurale della sinistra” e non entrare nel merito di “partito unico” o “soggetto unico”, di “federazione” o altro, per evitare di dividersi, perché la divisione c’è sempre stata, anche se male occultata. Io mi sono chiamato fuori da questo accordo perché lo consideravo un minimo comun denominatore totalmente inadeguato ed anche perché ero e sono convinto che il problema fosse il governo, il come ci eravamo stati e come ci aveva cambiati, e non la suggestione di un’unità a sinistra impossibile perché senza fondamenta. Ma questo non conta, è un’altra storia. Addirittura Giordano aveva proposto di applicare una moratoria, in campagna elettorale, su questo tema.
<p>Guardate un po’ qui: “Quella comunista in futuro sara’ soltanto ‘una tendenza culturale’ all’interno della Sinistra arcobaleno. Lo ribadisce il presidente della Camera Fausto Bertinotti spiegando di immaginare ‘un soggetto unico, democratico e partecipato, fondato come un’organizzazione politica unitaria con le sue regole, una sua democrazia, un suo gruppo dirigente”. E ancora: “Mentana prova quindi a chiedere se la Sinistra arcobaleno diventerà un vero e proprio partito. Bertinotti spiega: “E’ un processo irreversibile. Se fosse solo un cartello elettorale sarebbe un’esperienza abortita”.
<p>Si tratta di dichiarazioni fatte in televisione ampiamente riprese il giorno seguente da tutti gli organi di stampa. Nel contempo si prepara un appello, di insigni personalità, che il giorno dopo delle elezioni avrebbe chiesto ai partiti di rimettersi alle decisioni di una “costituente” da convocare immediatamente. In altre parole si punta a costituire subito un contenitore unico e a lasciare ai partiti la scelta di dichiararsi superati in questa nuova sinistra o quella di mettersi contro la volontà del “popolo”. E’ così, che sempre negli stessi giorni, il PdCI prepara l’appello per l’unità dei comunisti, che ha visto la luce dopo le elezioni. E’ negli stessi giorni che la parola “irreversibile” riecheggia continuamente nelle dichiarazioni, nei comizi e negli interventi televisivi di Bertinotti come di altri numerosi candidati. Perfino il giorno dei risultati elettorali Bertinotti dichiara: “Sconfitta la Sinistra Arcobaleno, deve rinascere la Sinistra Arcobaleno”. Il percorso passa per “una Costituente partecipata e democratica”.
<p>Scusate la puntigliosità, ma è bene mettere i puntini sulle i, visto che ora si nega che si sia proposto il superamento di Rifondazione Comunista.
<p>Giordano ne ha fatto un punto d’onore. Anche se c’è questa notizia del 14 aprile: “Dopo questo voto la Sinistra Arcobaleno dove andra’? Verso il partito unico o sara’ solo un cartello elettorale? A questa domanda del Tg3 Franco Giordano, segretario del Prc, ha negato l’ipotesi del cartello elettorale. ‘Certamente - ha detto - cartello elettorale no. Il futuro e’ quello del soggetto politico unico”. Che Giordano sia stato più prudente di Bertinotti, Migliore, Vendola e Gianni nelle dichiarazioni è vero. Ma il combinato disposto delle dichiarazioni di tutti dicono una cosa sola e chiara.
<p>Insomma, di fronte a tutto ciò era evidente che l’unità fragile del gruppo dirigente si sarebbe dissolta come neve al sole.
<p>Se Giordano si fosse dimesso subito, non avesse parlato di rimessa in discussione del gruppo dirigente al congresso, non avesse proposto il Comitato Politico Nazionale quindici giorni dopo il voto, ma sarebbe meglio dire una settimana dopo l’assemblea indetta da Ginsborg a Firenze, forse si sarebbe partiti con il piede giusto per fare una discussione più serena, nonostante la catastrofe elettorale.
<p>Ma non è stato così.
<p>Le richieste di dimissioni vere, di garanzie che non si facessero, fuori dal partito, altri atti irreversibili, sono state presentate da Giordano e da altri come un “golpe”, come la ricerca di capri espiatori, e il CPN come la notte dei lunghi coltelli, con grande gioia dei mass media, i cui rappresentanti per malizia o ignoranza non sanno che parlare di leader, di scontri personali e di manovre di palazzo.
<p>Al CPN Giordano ha fatto ciò che i numeri lo avrebbero costretto comunque a fare: a presentare le dimissioni della Segreteria e a passare la mano ad un organismo di gestione unitaria del partito. Ed è stato lui a volere che quell’organismo venisse eletto sulla base dei voti presi da documenti politici contrapposti.
<p>Sulla politica Giordano come gli altri, tranne Alfonso Gianni che ha coerentemente riproposto il superamento di Rifondazione, firmatari del documento che ha poi raccolto 70 voti, hanno tentato di dare ad intendere che si era voluta una resa dei conti ingiustificata visto che nessuno voleva sciogliere il partito, che la proposta del documento dei 98 voti (che io ho contribuito a scrivere) proponeva un ritorno alla rifondazione del 91 e che era un cartello confuso che avrebbe cancellato la migliore storia di Rifondazione.
<p>In particolare Vendola, Giordano ed altri hanno molto insistito su questo presunto ritorno al passato. Evidentemente si vorrebbe che al congresso si discutesse dividendoci fra innovatori e conservatori. E, peggio ancora, fra eredi del PCI o di DP o di chissà che altro. O fra tifosi di Vendola o di Ferrero.
<p>Li capisco. Le responsabilità della linea che ci ha fatto rimanere al governo a tutti i costi, di aver puntato tutto sul progetto fallimentare della Sinistra Arcobaleno passerebbero in secondo piano.
<p>Ma, per quel che potrò, farò di tutto per impedire che si svolga un congresso in questo modo.
<p>Anche perché penso che gli errori di questi ultimi due anni hanno veramente compromesso la partecipazione di Rifondazione al movimento contro la globalizzazione e alle lotte nel nostro paese. Perché penso che la nonviolenza (sulla quale ho scritto a suo tempo come è testimoniato dal blog) è stata ridotta ad una litania moderata. Perché penso che non si possa dire di “criticare il potere” per poi puntare tutto sulla presenza nel governo.
<p>Se serve, io non ho nessun imbarazzo a dire che voglio ripartire dalla Rifondazione che seppe rompere con Prodi nel 98 e che stette alla pari, e rispettata, di comitati ed associazioni nel movimento a Praga come a Genova e in ogni social forum di tutti quegli anni.
<p>Proprio in ragione di quelle scelte di movimento, che modestamente ho contribuito davvero a determinare, mi sono opposto ad un’idea politicista dell’unità della sinistra o dei comunisti.
<p>Proprio per coerenza con le innovazioni che ho condiviso non credo che l’assemblea di Firenze, che rispetto e guardo con interesse, sia il punto da cui ripartire. Un’assemblea dove Ginsborg, che ne è il promotore, ha detto: “La sinistra puo’ rinascere ripartendo e recuperando quel patrimonio ideale politico e umano che ha contraddistinto Riccardo Lombardi e Vittorio Foa”. E dove Tortorella, intervistato, ha aggiunto: “E’ vero ricominciamo da tre - dice Tortorella - e ricominciamo dall’idea socialista su cui si fece il congresso fondativo del partito socialista del 1892″.
Insomma superare la scissione di Livorno del 1921?
“Esattamente”, conclude Tortorella per il quale la linea tracciata e’ il “socialismo del 21° secolo di Fausto Bertinotti”.
<p>Sarebbe questa, ahimè, l’ulteriore innovazione!
<p>Un’assemblea dove la partecipazione è ridotta all’applausometro per i presunti futuri leader.
<p>Ricostruiamola sì la sinistra, valorizzando le esperienze e le culture di lotta e di movimento invece che le adunate di ex che gridano unità e che negli anni 90, come Luciana Castellina o il Manifesto sempre pronti a dare lezioni, hanno promosso scissioni per votare (insieme a Vendola) il governo Dini.
<p>E per farlo bene rimettiamo in sesto il nostro partito, e discutiamo di cosa è successo in questi due anni invece che di leader.