Openpolis - Argomento: Repubblicahttps://www.openpolis.it/2014-04-10T00:00:00ZMaurizio SAIA: Repubblica appoggerà la candidatura di Maurizio Sala2014-04-10T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it718203Saia da parte sua ha ribadito: «Io manterrò la mia indipendenza, non voglio entrare nei vecchi schemi che mi hanno portato fuori dal parlamento. L'unico giudice saranno i padovani con i quali condividerò tutte le scelte. Del resto già oggi ricevo quotidianamente decine di suggerimenti dalla gente comune. Cercherò di aiutare soprattutto chi non grida, come gli anziani che per orgoglio restano soli nelle case, senza chiedere aiuto. Per il resto vorrei capire se chi a centrodestra ha scelto, è convinto che tra Rossi e Bitonci i padovani voteranno quest'ultimo. Io sono per un altro stile, spero che i padovani lo comprendano».
<br/>fonte: <a href="http://www.saiasindaco.it/rassegnastampa.html">www.saiasindaco.it</a>Dario FRANCESCHINI: Lavoro: confronto dovuto, no forzature 2012-02-06T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it624074Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/>"Il ministro Fornero ha ha detto che ci sara' un percorso
di concertazione con le parti sociali, sindacato in primo luogo. Non mi riferisco solo al confronto, che e' dovuto, ma al testo che giungera' in Parlamento e che dovra' avere il consenso delle parti sociali, indispensabile in un momento cosi' carico di tensioni nel Paese. Attenzione pero: nessuno faccia forzature su questo, ne' alle Camere ne' tanto meno nel Paese". E' quanto dichiarato in <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6864">un'intervista alla <i><b>Repubblica</b></i></a> dall'esponente del Pd <b>Dario Franceschini</b>, in merito al confronto sulla riforma del lavoro.
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Riguardo la riforma della legge elettorale, secondo <b>Franceschini</b> "serve un'intesa molto larga. Alla trattativa devono partecipare tutte le forze parlamentari, comprese Idv e Lega. Tanto che Anna Finocchiaro ed io abbiamo proposto le conferenze congiunte dei capigruppo di Camera e Senato e stiamo aspettando la risposta dei presidenti Fini e Schifani".
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"Se l'idea e' di un'intesa tra Pd e Pdl a scapito del Terzo Polo, la risposta e' no. Sia perche' la legge elettorale non si puo' fare imponendo la logica dei numeri, sia perche' si metterebbe a rischio il Governo stesso", conclude <b>Franceschini</b>.
<p><a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6864"><b>Intervista a Dario Franceschini - La Repubblica</b></a><br/>fonte: <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6864">Repubblica</a>Dario FRANCESCHINI: Doppia vittoria, unico sbocco è la crisi2011-10-12T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it609829Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
"Questa vittoria parlamentare è stata preparata, anche con qualche astuzia, e soprattutto col gruppo del Pd presente al 98 per cento". In una <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6326">intervista a Repubblica</a>, il capogruppo dei Democratici alla Camera <b>Dario Franceschini</b> rivendica i meriti dell'opposizione per il voto di ieri sul rendiconto dello Stato che ha visto la sconfitta della maggioranza.
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"La vittoria di oggi è doppia - sostiene <b>Franceschini</b> -: abbiamo battuto la maggioranza davanti a Berlusconi, entrato in aula sorridente e poi rimasto a guardare a bocca aperta il tabellone che registrava la sua sconfitta, e li abbiamo costretti a rinunciare alla legge sulle intercettazioni. Il Pdl ora dice: rinviamola. La lega: ritiriamola. Quando uno non ha il colpo del ko lavora ai fianchi. Li abbiamo indeboliti, li battiamo ogni settimana, questa volta è stato un ko tecnico. Perché oggi, ed è la prima volta, c'è un dato costituzionale. II voto sul rendiconto dello Stato è un atto dovuto. Cito un costituzionalista vicino alla maggioranza, Giovanni Pitruzzella, che nel suo manuale di diritto pubblico a pagina 304 dice: 'Se il Parlamento votasse contro il disegno di legge di approvazione del rendiconto consuntivo, la conseguenza politica non potrebbe che essere la crisi di governo'".
<p>"In questo momento la situazione è la seguente: il lavori dell'aula sono sospesi, il presidente della Commissione Bilancio ha dichiarato che bocciato l'articolo uno non si possono approvare nè il rendiconto nè l' assestamento di bilancio. Domani - continua <b>Franceschini</b> - la giunta del regolamento della Camera deve decidere cosa comporta questo voto. Per noi, stando alla Costituzione, le dimissioni del Governo sono un atto dovuto. La gente percepisce, in una situazione di sbandamento, che Napolitano è una garanzia per l'Italia, è un punto di equilibrio e di autorevolezza, e sono certo che anche in questo delicato passaggio istituzionale saprà esercitare il meglio del suo ruolo di garante delle leggi e della Costituzione", conclude <b>Franceschini</b>.
<p> <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6326"><b>Intervista a Dario Franceschini - Repubblica</b></a><br />
<br/>fonte: <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=6326">Repubblica</a>Dario FRANCESCHINI: Intervista a Dario Franceschini - "Il berlusconismo non è finito prepariamoci ai colpi di coda"2011-06-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it582024Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><b>Repubblica di mercoledì 1 giugno 2011, pagina 12 </b><p>
<b><a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=5047">Intervista a Dario Franceschini - "Il berlusconismo non è finito prepariamoci ai colpi di coda" di Casadio Giovanna</a></b><p>
<b>Onorevole Franceschini, il Pd insiste, ma evidentemente il premier e la maggioranza non ci sentono da quest'orecchio. </b> «Maroni ha detto che il risultato elettorale è stato una sberla, che potrebbe essere salutare. Invece è stato un pugno da ko per Berlusconi, il Pdl e la Lega. Ne traggano le conseguenze e gettino la spugna. La Lega è a sua volta travolta dal crollo del berlusconismo: ha immaginato cinicamente di trarre vantaggio dal calo dei voti del Pdl. Non è stato così. Dal Nord - e io come cittadino nato e vissuto nella pianura padana ci tengo a sottolinearlo - viene un segnale politico. La pianura padana (che esiste a differenza della Padania) e tutto il Nord si stanno svegliando dall'ubriacatura del berlusconismo. I leghisti dovrebbero ascoltare la melodia di quest'elenco: Aosta, Torino, Genova, Milano, Trento, Bolzano, Bologna, Venezia Trieste... tutti capoluogo di regione amministrati dal centrosinistra. E potrei continuare con Novara, Arcore, Mantova, Padova, Pavia... Il Nord ha girato le spalle alla Lega che fa la voce grossa al Nord e poi vota tutte le schifezze che Berlusconi impone di votare». <p>
<b>Questa è la diagnosi, ma la vostra cura? </b> «Il centrodestra non governa più da mesi. In Parlamento vengono solo per le leggi che devono salvare Berlusconi dai processi o i voti di fiducia al governo. Per il resto è paralisi. Quando i vincoli europei imporranno una manovra di 46 miliardi ogni anno per ridurre il debito pubblico, come possono pensare di affrontare la crisi, la crescita, le emergenze sociali? In un paese normale la stessa maggioranza dovrebbe chiedere al premier di farsi da parte per salvare il governo. Ma qui è tutto rovesciato. In tre anni Berlusconi ha disfatto la maggioranza mai vista che aveva, il suo partito. Al governo non è stato capace di alcuna riforma strutturale. Sono stati puniti dagli elettori perché hanno fallito nel loro programma di riduzione delle tasse, di sicurezza, di aiuti alle imprese, per non parlare del discredito internazionale e neppure cito le vicende personali di Berlusconi. La logica e la politica portano all'esito delle dimissioni e alla verifica in aula». <p> <b>Ma se questo non accade, presenterete una nuova mozione di sfiducia? </b>«Valuteremo. Non cerchi la maggioranza di prendere tempo e spostare in là la verifica parlamentare. E centrosinistra, intellettuali, opinione pubblica, tutti noi togliamoci dalla testa che il berlusconismo sia finito: l'ultimo miglio sarà pieno di colpi di coda e serve una grande vigilanza democratica e una unità massima delle opposizioni. Se si cumulano i voti del centrosinistra e del Terzo Polo all'attuale maggioranza resta solo un terzo del paese. Dobbiamo prepararci a due cose: a vincere le prossime elezioni cercando di arrivarci con una legge elettorale diversa; e a ricostruire il paese dalle macerie legislative, economiche, finanziarie rilanciando le regole e i valori condivisi - il senso dello Stato, la legalità, l'unità nazionale. Questo lavoro spetta a una maggioranza più larga possibile, a un'alleanza costituzionale tra le forze che sono oggi all'opposizione».<p> <b>Ma siete in grado di essere un'alternativa credibile, e siete pronti a governare? </b>«Già queste amministrative hanno dimostrato la nostra alternativa su ogni tema, dall'energia nucleare all'acqua, alla giustizia, all'economia». <p>
<b>Però vincete con De Magistris a Napoli, Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, tutti non-Pd. </b> «E Merola, Fassino, vado avanti? Non mettiamola così, si è capito che per il ruolo di sindaco le primarie funzionano, anche se non vanno bene per tutto. Dove ci sono state divisioni come a Napoli, il centrosinistra poi si è ricomposto. Hannovinto sindaci del Pd e candidati del centrosinistra sostenuti dal Pd». <p>
<b>Il candidato premier sarà Bersani? «Lo dice lo statuto, e dai risultati elettorali Pier Luigi esce ancora più rafforzato». </b> Queste elezioni insegnano che il cambio generazionale nel Pd è necessario? «Le elezioni dei sindaci mostrano che dove ci sono giovani bravi vincono. E che le persone meno giovani ma credibili - cito Fassino e Pisapia - vincono lo stesso».
<p><a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=5047"><b>Il berlusconismo non è finito. Prepariamoci ai colpi di coda. – testo completo dell’intervista a Dario Franceschini di Repubblica </b></a> <br/>fonte: <a href="http://www.dariofranceschini.it/adon.pl?act=doc&doc=5047">Repubblica</a>GIUSEPPE TASSONE: 2 Giugno2011. Una vera festa per la nostra Repubblica2011-05-22T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it572702Alla data della dichiarazione: Pres. Consiglio Comunale Cuneo (CN) (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
La Festa della Repubblica, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, coincide quest’anno con le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità Nazionale.
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I valori della nostra Carta Costituzionale si “sposano”, in quest’occasione in modo particolare, con quelli dell’unicità ed indissolubilità del Paese da sempre elementi fondanti e non suscettibili di discussione.
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Questo 2 giugno giunge in un momento di particolari difficoltà, non solo economiche, che testimoniano un calo di credibilità delle istituzioni e di quanti le rappresentano.
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Una dura campagna elettorale, condotta senza esclusione di colpi, ha rischiato di mettere a repentaglio quel baluardo di credibilità rappresentato dai comuni, da sempre i più vicini alle esigenze ed alle necessità dei cittadini.
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Così facendo si dà un ulteriore colpo alla credibilità del nostro Paese e non lo si aiuta a riprendersi e ad uscire dalle attuali difficoltà.
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Prima fra tutte quella dell’inserimento lavorativo dei giovani da attuarsi con l’adozione d’atti e provvedimenti che consentano, concretamente, di dare una speranza alle nuove generazioni, avviando anche quel volano virtuoso senza il quale non si formano nuove famiglie e non si dà respiro alle speranze concrete nel futuro.
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Immaginare la festa della Repubblica senza concrete azioni che diano speranze alle nuove generazioni ed avviino riforme in grado di consentire al nostro Paese di mettersi in linea con le altre realtà europee, vuol dire svuotare i valori di una data ed anche quelli su cui si fonda la solidarietà nazionale.
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Un 2 giugno, invece, che deve partire dalla base, dai comuni, dalla loro capacità di farsi interpreti delle esigenze dei cittadini e dalla forza di mediazione e dalla capacità di trovare soluzioni condivise che da sempre gli enti locali assicurano.
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Sempre tenendo conto dei valori fondanti della nostra Carta Costituzionale che merita di essere citata, anche nell’articolo 54, che testualmente recita: “ I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
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Una Costituzione approvata il 22 dicembre del 1947 che mantiene, anche in questo, inalterata la propria attualità. <br />
<br/>fonte: <a href="http://www.beppetassone.it">beppetassone.it</a>Ramon MANTOVANI: Perchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (1)2010-09-01T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558148Fin dalla sua nascita Rifondazione Comunista ha ricevuto, alternativamente, le accuse di essere settaria, estremista, identitaria, oppure, quando ha scelto di proporre percorsi unitari e/o produrre alleanze elettorali o di governo locali o nazionali, di essere traditrice dei propri principi, governista, integrata nel sistema separato della politica-spettacolo.
Questa due accuse sono state formulate da soggetti diversi e spesso entrambe, come se nulla fosse, dagli stessi soggetti e persone.
Torna, come un tormentone, man mano che si avvicina la prossima scadenza elettorale nazionale, anticipata o meno, la logica di uno scontro prima allusivo e velato e poi, speriamo di no, dirompente, che ci dovrebbe dividere fra settari e governisti. Fra stupidi incapaci di coniugare la propria identità con la politica delle “alleanze” e liquidatori di principi e valori per una convenienza particolare (si potrebbe dire perfino privata giacché sono in gioco i posti nelle istituzioni) del ceto politico dirigente.
La dialettica fra questi due poli del contendere ha una sua logica, una sua base oggettiva e strutturale. Si alimenta, cioè, non solo della volontà polemica degli estremisti dei due campi contrapposti, bensì della spinta oggettiva e potente della realtà sociale prodotta dalla ristrutturazione capitalistica, dalla “riforma” delle istituzioni sfociata nella “seconda repubblica”, dalla cultura egemone ispirata dal pensiero unico e dai mass media che la implementano a sviluppano incessantemente.
Come si può ben capire da queste mie parole penso che sia distruttiva dell’autonomia di classe e di pensiero di una forza comunista. Che è sempre il bene più prezioso ed indispensabile per elaborare analisi, strategie e tattiche volte a cambiare la realtà e non semplicemente a descriverla o ad adeguarsi ad essa nella speranza di ricavarne qualche vantaggio volatile.
Ma prima di arrivare al punto, e cioè alla forma in cui si manifesta oggi questa nefasta contrapposizione, vorrei insistere, per capirci bene, sulle cause che la riproducono continuamente.
E per farlo partirò da lontano e userò delle parole chiave, il cui significato e senso è stato stravolto dalla ristrutturazione capitalistica e spesso trasformato nell’esatto contrario. Senza chiarire cosa si intende per sinistra, alleanze, politica, sociale, governo, partito, sindacato, movimento, lotta, elezioni, istituzioni e così via il dialogo è fra sordi. Invece che produrre confronto e ricerca di sintesi e unità partorisce scontri, contrapposizioni e anatemi.
Così dicendo ho certamente dichiarato una intenzione certamente troppo ambiziosa. Tuttavia mi cimento con questa impresa chiedendo preventivamente scusa per schematismi e sommarietà del ragionamento.
Ragionamento che seguirà un filo temporale ripercorrendo due fasi intrecciate fra modello capitalistico-sociale e dinamiche politico-istituzioinali.
La prima, divisa in due parti, dall’avvento del centrosinistra nel 64, è quella del modello fordista keinesiano.
La seconda è quella neo liberista, divisa anch’essa in due parti dall’avvento della cosiddetta seconda repubblica.
Prima fase, parte prima.
Nel dopoguerra si sono date condizioni speciali, in Europa e in Italia, che sono state alla base di enormi trasformazioni e che hanno permesso alle forze comuniste ed anticapitaliste di avanzare e conquistare potere nella società e nelle istituzioni.
Da una parte l’esistenza del campo socialista e la necessità delle borghesie europee di concedere (ma è meglio dire cedere perché nulla è arrivato senza lotte anche sanguinose e durissime) parte del loro potere e dei loro profitti per evitare di essere travolte dall’avanzata della classe operaia e più in generale delle masse popolari. Dall’altra la fase fordista del capitalismo, fondato soprattutto sulla produzione di merci e beni materiali e sulla necessità di crescita dei mercati interni nazionali, ha consegnato al movimento operaio organizzato la forza contrattuale per far valere le proprie rivendicazioni nei luoghi della produzione e nello stato.
E’ su queste due basi che si fonda l’intervento dello stato in economia (una bestemmia per il pensiero liberale classico) e la capacità del movimento operaio di agire contemporaneamente sul versante della lotta in fabbrica e su quello della politica.
Ovviamente nulla è mai lineare ed univoco. Ma non si può negare in nessun modo che questa sia stata la tendenza di fondo dal 45 all’inizio degli anni 70. Altrettanto ovviamente in ogni paese dell’europa occidentale ci sono state condizioni diverse ed anche progetti diversi, sia di strutture economiche e produttive sia istituzionali e politiche. Ma, con l’eccezione della Spagna dove il fascismo ha partorito uno stato tanto debole ed estraneo all’economia, lasciata totalmente nelle mani dei padroni, quanto forte negli apparati repressivi, in tutti i paesi abbiamo avuto forti movimenti operai organizzati, forti partiti di sinistra, imprese pubbliche nei settori strategici, un welfare diffuso, forte e crescente.
Tralascio volutamente di parlare delle differenze tra l’esperienza italiana, fortemente condizionata dal partito comunista e dal sindacato di classe, ma anche più subalterna agli USA e al Vaticano, e le altre.
Va ricordato, però, che il keinesismo imperante in quell’epoca aveva limiti precisi, anche rispetto alla propria impostazione teorica. Un esempio valga per tutti: Keynes aveva teorizzato la necessità di mettere sotto controllo i cambi valutari, sia allo scopo di evitare le crisi prodotte dalle speculazioni sia a quello di creare maggior stabilità e multilateralità nel sistema mondiale. L’impostazione era quella secondo la quale finanza e commercio dovevano servire l’economia reale e non autonomizzarsi, per evitare e scongiurare l’intrinseca tendenza del capitale a separare i valori di scambio (moneta) con i valori d’uso (merci per il consumo). Non essendo possibile fondare la base del sistema valutario unicamente sull’oro, che sarebbe stato un ostacolo alla crescita, l’idea era quella di fondare, a Bretton Woods, un sistema basato su una moneta non statale (Bancor) e su un accordo multilaterale di tutte le nazioni del pianeta. Questa impostazione era certamente condivisa dall’URSS e sembrava trovare i favori anche dell’amministrazione Roosvelt negli USA, ma alla fine gli USA imposero il dollaro come moneta generale degli scambi, fissandone la parità con l’oro a 35 dollari per oncia, e soprattutto ottennero che il nuovo organismo internazionale (FMI) fosse fondato non sul principio di un voto per ogni stato membro (come all’ONU) bensì sulla base delle quote di dollari versate nelle casse del Fondo. E si assicurarono, unici al mondo, il potere di veto. Così, la stabilità che venne garantita dal FMI per lungo tempo, produsse una asimmetrica crescita. Dominata del potere dell’economia reale, politica e finanziaria degli USA. Che consolidarono il loro potere classicamente imperialistico e produssero una forma bastarda del keinesismo che negli USA dura tuttora, fondata sul militare. Quando nel 1971 cominciò la grande offensiva neoliberista gli USA poterono cancellare in una notte il sistema volto a garantire l’equilibrio negli scambi valutari e commerciali, dichiarando l’inconvertibilità del dollaro in oro.
Ma torniamo al modello fordista e a quello keinesiano di stato fortemente regolatore dell’economia capitalistica.
Nel corso di quasi tre decenni imperò un compromesso sociale ben preciso e definito. L’industria privata doveva sottostare alla programmazione economica dello stato, che del resto la finanziava e sosteneva sui mercati internazionali. E che in seguitò possederà in proprio imprese nei settori strategici come energia, trasporti e banche. La crescita dei salari diretti e di quelli indiretti (welfare) garantiva la crescita del mercato interno e, conseguentemente, lo sviluppo produttivo. Le Piccole e Medie Imprese (PIM) crescevano sia per effetto dello sviluppo generale sia grazie al sostegno indiretto dello stato attraverso la rete di infrastrutture e il credito garantito dalle banche locali e dello stato.
In questo contesto il movimento operaio poteva far valere le proprie rivendicazioni salariali. Poteva conquistare maggior potere nei luoghi produttivi giacché, grazie al sindacato a al partito di classe, faceva valere i propri interessi come interessi generali dicendo la propria, anche attraverso l’allora efficacissima arma del conflitto e dello sciopero, sugli indirizzi strategici della produzione e dell’organizzazione del lavoro. Poteva, grazie al sistema parlamentare su cui era fondata la democrazia politica nella repubblica, usare la propria rappresentanza per conquistare leggi e riforme coerenti con i propri interessi.
E’ chiaro che sto parlando del meglio del sistema. Non mancavano contraddizioni e problemi di ogni tipo. Ma corruzione, clientelismo, favoritismi, malversazioni, usi impropri del potere pubblico in economia e chi più ne ha più ne metta, per un lungo periodo non sono stati elementi sufficienti per cancellare il “circolo virtuoso” di cui sopra. Tralascio per brevità gli squilibri territoriali nord sud e soprattutto la politica attiva degli USA in Italia, nel contesto della ben esistente guerra fredda. Ma, ripeto, il “circolo virtuoso” reggeva. Ed ha prodotto, per dirla in soldoni, il paradigma secondo il quale la crescita era diseguale, squilibrata e classista, ma si traduceva in un avanzamento nelle condizioni di vita per tutti. La forbice fra ricchi e poveri si accorciava nei fatti. Ed ogni generazione aveva la certezza di vivere meglio della precedente. In tutti i sensi.
Ed ora cominciamo a “giocare” con certe parole che si usano oggi come allora ma che hanno completamente cambiato di significato. Il paragone fra i due significati, quello di allora e quello di oggi, lo farò alla fine dell’articolo. Ma chiunque potrà fare già subito, da se, un confronto con ciò che si sente dire ripetutamente oggi.
SINISTRA. A meno di parlare di sinistra liberale o liberaldemocratica, di sinistra cattolica ecc. (il termine sinistra è pur sempre un termine relativo e si può essere la sinistra di qualsiasi cosa) è fuor di dubbio che in quei decenni la parola SINISTRA indentificava il complesso di forze politiche e sociali che si proponevano il superamento del capitalismo e la costruzione di una società socialista. Che erano indiscutibilmente per una società fondata sul lavoro. Che erano ostili alla rendita fondiaria e finanziaria. Che consideravano il miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari come un obiettivo basilare e fondante qualsiasi tipo di proposta politica. Che erano per un nuovo ordine internazionale, contro la guerra fredda, a favore di tutti i movimenti di liberazione nazionale contro il colonialismo. Che consideravano i diritti sociali e di cittadinanza previsti dalla costituzione come architravi della democrazia politica, dichiarando una concezione della democrazia stessa ben al di la delle concezioni liberali o borghesi. Che pensavano e producevano istituzioni di democrazia diretta e dal basso come i consigli di fabbrica ecc. E si potrebbe continuare a lungo a descrivere gli elementi e i contenuti senza i quali era perfino inimmaginabile, allora, considerare di sinistra una organizzazione, un partito o anche una semplice persona.
C’erano differenze nel campo della sinistra? Si, molte. C’è un’ampia letteratura sulle differenze e sulle divisioni nella sinistra a quei tempi. L’area socialista, per esempio, fu scossa da numerose scissioni, ricomposizioni e nuove scissioni. Ed erano tutte motivate ideologicamente e/o dal grado di vicinanza allo schieramento dell’Italia con gli USA.
Ma il PCI e il PSI erano due partiti operai chiaramente anticapitalisti e, nonostante le differenze di impostazione ideologica e di tattica politica, avevano una fortissima unità d’azione e, soprattutto un insediamento sociale sostanzialmente comune. Nel sindacato (furono le correnti socialdemocratiche e riformiste già scisse dal PSI nel dopoguerra a rifondare la UIL dopo la scissione democristiana della CGIL). Nelle case del popolo e in mille organizzazioni sociali e culturali, a cominciare dall’ARCI. Nel movimento cooperativo. Nelle leghe dei braccianti e nel movimento contadino non cattolico. In diversi movimenti, da quello della pace a quello delle donne, da quello dell’occupazione delle terre a quello della solidarietà internazionale.
L’unità d’azione, dopo la sconfitta dell’unità elettorale del 48, fra PCI e PSI non era una banale forma di azione congiunta su obiettivi limitati. Era una strategia che nei fatti rappresentava l’unità della classe operaia. Va detto che non votò mai tutta e nemmeno maggioritariamente per la sinistra giacché era molto forte in diverse parti del paese il richiamo cattolico e la sudditanza nei confronti dei padroni nelle piccole e medie imprese. Ma senza dubbio la classe operaia delle grandi fabbriche, che lottavano e trascinavano con se il movimento operaio, era fortemente orientata in senso socialista e comunista.
E’ vero che esistevano forze dette di sinistra, a cominciare dal Partito socialista dei lavoratori italiani e dal Partito socialista unitario, che poi si fonderanno nel PSDI. Ma erano considerate, ed erano nei fatti, forze centriste alleate della DC e schierate con gli USA. Il loro insediamento sociale ed elettorale non aveva quasi nulla a che vedere con quello del PCI e del PSI.
La prova sta nel loro sostegno, non senza che gli facesse perdere qualche pezzo, alla Legge Truffa nel 53. Il PCI e il PSI fecero una durissima opposizione e seppero conquistare il sostegno di una parte minoritaria dei liberali e dei socialdemocratici, mentre loro si apparentarono con la DC per tentare di superare il 50 % dei voti, che gli avrebbe valso il 65 % dei seggi. Se la DC e i suoi alleati (tra gli altri il Partito sardo d’azione, il PLI, il PSDI, il PRI avessero superato il 50 % dei voti, invece che fermarsi al 49,8 %, la legge truffa non sarebbe poi stata abrogata e la storia italiana sarebbe cambiata.
E’ chiaro che la guerra fredda e il timore che la SINISTRA potesse prevalere spinsero la DC e gli USA a tentare di superare il sistema politico scaturito dalla vittoria contro il fascismo, dalla costituzione e dalla vittoria contro la monarchia nel referendum. Che l’obiettivo fosse superare la repubblica parlamentare con legge proporzionale per normalizzare e “occidentalizzare” l’Italia, mettendo in un angolo le forze anticapitaliste e il conflitto, fu ben capito dal PCI e dal PSI, che non rifecero l’errore del 48 di presentare una sola lista e che sollecitarono gli scissionisti socialdemocratici e liberali a presentarne di proprie. Anche se solo per un soffio la DC, i suoi alleati e gli USA furono sconfitti.
A dimostrazione che la SINISTRA ha sempre pensato che la forma dello stato e le leggi elettorali non sono indifferenti al fine di implementare o meno la democrazia e soprattutto al fine di cambiare la realtà socioeconomica del paese. E che essere di SINISTRA era inequivocabilmente essere proporzionalisti dal punto di vista elettorale. Non solo in Italia. Lo erano anche i socialisti francesi e i laburisti inglesi.
Insomma, almeno per un ventennio dopo la Liberazione, la SINISTRA era quella che abbiamo descritto fin qui. E certamente, al netto delle differenze e anche delle polemiche che erano soprattutto dovute al riflesso della guerra fredda e al giudizio sui fatti d’Ungheria, la concezione della SINISTRA del PCI di Togliatti non era certo una questione nominalistica. Era invece fortemente innervata di contenuti precisi, di lotte unitarie su obiettivi fondamentali condivisi e basata su un comune insediamento sociale.
Parliamo ora di tre altre parole: “PARTITO”, “POLITICA” e “SOCIALE”. E soprattutto della loro relazione.
Non credo si possa parlare del PARTITO NUOVO di Togliatti solo per la natura di massa (e non di quadri d’avanguardia). Quel partito costruiva in prima persona in ogni fabbrica, quartiere, città e paese le lotte ed ogni tipo di organizzazione sociale. La sua natura di massa non era data dal numero degli iscritti e basta. Era data dal fatto che gli iscritti e gli stessi dirigenti del partito erano parte attiva delle organizzazioni sindacali, sociali e culturali. Non sarebbe stato “di massa” se le sue strutture dirigenti a tutti i livelli si fossero solo dedicate ad elaborare analisi e linee politiche da trasmettere alla società, attraverso l’agitazione e la propaganda, e avessero pensato la POLITICA solo come l’azione nella sfera delle istituzioni e nelle relazioni con altri partiti. Non è il caso di scomodare, e del resto io non mi sento all’altezza per farlo seriamente, le nozioni di “nuovo principe”, di “società civile” e “società politica” in Gramsci. Ma credo di poter dire che il PARTITO era concepito come lo strumento della classe per modificare la realtà con l’azione pratica ed organizzata e per svolgere una funzione egemone nella società. Il partecipare alle elezioni e avere rappresentanti nelle istituzioni, come l’avere rapporti di unità o di scontro con altri partiti non era scindibile dalle due funzioni principali. La POLITICA non era concepita come astratta e separata dalla pratica sociale, né come banale linea di condotta nell’ambito istituzionale e di relazione fra forze politiche. Era il complesso di attività intellettuali e pratiche, di proposta e di lotta, che il partito era in grado di dispiegare. Organizzare uno sciopero, fondare una sezione della lega dei braccianti, costruire una casa del popolo o un comitato di genitori per intervenire sulla gestione di una scuola pubblica, una cooperativa di consumo o di lavoro, una manifestazione culturale o sportiva e così via non erano attività estranee alla discussione, all’attività e alla vita del partito. L’esistenza del sindacato, della Lega delle Cooperative o della Lega dei braccianti, dell’ARCI e così via non sollevava in nulla e per nulla il partito dal compito di fare e discutere e costruire tutte queste cose nella pratica quotidiana. Del resto i quadri migliori e gli stessi militanti di organizzazioni e lotte sociali, formalmente autonome dal partito, partecipavano agli organismi dirigenti del partito e alla formazione di tutte le decisioni, portando dentro il partito la ricchezza della loro pratica e della elaborazione delle loro organizzazioni e lotte. La realtà SOCIALE non era solo oggetto di analisi, ma era il terreno nel quale agire per modificarla continuamente. E l’azione per modificarla era POLITICA nel senso compiuto. Per questo, organizzativamente, oltre alla doppia militanza partitica e sociale, lo scambio di quadri politici fra ruoli di funzionariato nel partito e di funzionariato nel sindacato, nell’ARCI, nella Lega delle Cooperative, nelle associazioni di categoria di piccoli artigiani e commercianti e così via, era continuo.
E’ proprio infondata l’idea che circola oggi secondo la quale il partito comunista di massa di quei tempi dirigeva i movimenti e le organizzazioni sociali e culturali dall’alto.
L’autorevolezza del partito non derivava da una astratta “superiorità” della “politica” o dal semplice prestigio personale dei dirigenti, bensì proprio da una pratica e da una elaborazione costruita nel vivo delle lotte e nelle organizzazioni sociali e culturali. Senza le quali il partito non solo non sarebbe mai diventato di massa ma non sarebbe nemmeno mai stato un intellettuale collettivo.
Proprio per questa pratica SOCIALE e per la centralità che le lotte e le classi sociali avevano nella elaborazione del PCI il concetto di ALLEANZE aveva significati ben diversi da quelli odierni. Ho già detto che l’unità d’azione, ma possiamo ben dire ALLEANZA, fra il PCI e il PSI significava unità della classe operaia nella lotta e anche nelle prospettive politiche. Non alleanza fra due ceti politici, due partiti o due gruppi dirigenti di partiti per obiettivi propri e separati dalla realtà sociale. Tanto meno dal punto di vista semplicemente elettorale, come dimostra la scelta vincente di non fare una lista unica nel 53. Fu la DC a rompere l’unità sindacale della CGIL, e furono i socialisti di destra e i repubblicani a rompere l’unità sindacale dei lavoratori italiani, non il PCI. Che mai si sarebbe fatto guidare dall’idea SETTARIA che alla collocazione internazionale e politica interna dovesse corrispondere una divisione sindacale della classe. Perché il PCI era un partito della classe operaia e come tale aveva a cuore la costruzione della sua unità e di un sistema di ALLEANZE sociali e politiche, senza le quali la classe non avrebbe potuto in nessun modo lavorare alla formazione di un blocco sociale e storico capace di sconfiggere il capitale ed edificare una società socialista. Nel PCI e nel sindacato nell’immediato dopoguerra ci fu una discussione durissima sulla necessità o meno di considerare gli impiegati (che erano pochi e quasi sempre dalla parte dei padroni) ALLEATI o meno della classe operaia. La FIOM diventò per esito di questa discussione Federazione Impiegati e Operai Metalmeccanici. Per lasciare intatta la sigla esistente dall’inizio del secolo la parola Italiana venne sostituita da Impiegati, collocata però nel nome prima di Operai. Il PCI, è vero, fece della politica delle ALLEANZE un cardine della propria elaborazione. Ma erano ALLEANZE perché si facevano per obiettivi di classe e sociali fondamentali. Inoltre il PCI, come è noto, aveva teorizzato e realizzato l’ALLEANZA nella guerra con tutti i partiti antifascisti e anche con i monarchici di Badoglio, per cacciare i nazisti dal paese e per mettere fine alla dittatura fascista.
Ovviamente tornerò su questa ALLEANZA che va tanto di moda oggi nelle citazioni di chi la vorrebbe usare come esempio per cacciare Berlusconi.
Il PCI teorizzava un sistema di ALLEANZE intorno agli interessi e alla funzione generale della classe operaia. Con i contadini, con gli impiegati che nonostante fossero lavoratori subordinati erano e si sentivano “piccolo borghesi”, con i lavoratori artigiani autonomi, con i piccoli commercianti e anche con parti significative del mondo dei piccoli imprenditori. Ma tali ALLEANZE erano teorizzate e per quanto si poteva praticate contro i monopoli capitalistici, gli agrari e la rendita speculativa. Le ALLEANZE sociali avevano riflessi nei consensi elettorali diretti del PCI, che proprio in virtù della politica delle ALLEANZE sociali, pur essendo un partito operaio, prendeva voti anche da settori sociali non operai.
Tralascio qui la questione degli intellettuali e del loro ruolo nella formazione della coscienza e del consenso secondo le teorizzazioni gramsciane. Sono cosciente della importanza che ebbe questa questione sia sulla stesse concezioni di ALLEANZE ed EGEMONIA. Ma il discorso si farebbe troppo lungo e si perdonerà lo schematismo e l’incompletezza del ragionamento che deriva da questa omissione.
Nella sfera delle forze politiche e delle istituzioni al PCI era ben chiaro che parte degli ALLEATI potenziali della classe operaia votavano per partiti, a cominciare dalla DC, e che questo si rifletteva, anche se in modo mediato e spesso distorto, nella rappresentanza istituzionale dei loro interessi. Perciò il PCI nelle istituzioni non si limitava a testimoniare i propri principi e programmi in opposizione al governo, ma tentava continuamente di ALLEARSI, per conquistare obiettivi precisi o per difendere interessi sociali comuni, con altri partiti o con parti di essi. E ciò era possibile perché c’era una vera repubblica parlamentare. Perché nelle istituzioni contava la rappresentanza delle idee, dei progetti e dei programmi votati dai cittadini. Perché il governo, per quanto importante fosse, era pur sempre un esecutivo del parlamento e la dialettica nel parlamento non era imprigionata dalle sorti del governo. Così il PCI poteva ALLEARSI ai partiti borghesi ma laici per difendere la laicità dello stato. Poteva ALLEARSI con parti della DC vicine al mondo contadino o al mondo cooperativistico bianco. Non per far governi, o liste, o coalizioni elettorali, bensì per approvare leggi, riforme, che raccoglievano e istituzionalizzavano le richieste delle lotte e della società e che determinavano cambiamenti importanti positivi nella vita delle classi subalterne. Le mille mediazioni, intese e accordi funzionavano anche se alla fine PCI e PSI votavano contro una legge, perché le leggi si facevano in parlamento e non le dettava il governo. E per questo potevano contenere cose buone insieme a cose meno buone. Cose cattive ma temperate da emendamenti approvati trasversalmente.
Prima fase, parte seconda.
Negli anni 60 si corona con le nazionalizzazioni e diverse riforme (anche se alcune saranno realizzate pienamente negli anni 70 come quella sanitaria) in attuazione degli articoli più avanzati della costituzione, la fase keinesiana. Il movimento operaio avanza perché, come abbiamo già detto, la centralità della produzione nel sistema economico lo colloca al centro e nel cuore decisionale di tutta la società. Se tutto ruota intorno alla fabbrica è chiaro che chi ha il potere di bloccare la produzione ha anche il potere per ottenere migliori salari e il potere di esprimere in ogni fabbrica, e in generale, la propria visione e un proprio progetto alternativo di organizzazione e finalità stessa della produzione (il modello di sviluppo). Inoltre essendo il mercato interno il motore principale del circolo virtuoso più produzione – più salario – più consumo – più produzione … lo stato stabilisce un rapporto preciso con le imprese capitalistiche. Le sostiene per favorire e non interrompere il circolo virtuoso, sia direttamente sia indirettamente. Per esempio la nazionalizzazione dell’energia elettrica e del comparto del trasporto (ferrovie, autostrade ecc.) e delle comunicazioni, sacrificano molti interessi privati capitalistici, ma sono funzionali a controllare ed indirizzare con la mano pubblica lo sviluppo del paese, garantendo l’energia ad un prezzo politico e le infrastrutture indispensabili alle imprese private.
E’ chiaro che si potrebbe discutere a lungo, ed infatti il PCI lo fece nettamente, sul “modello” implementato. Gli squilibri territoriali e le “cattedrali nel deserto” al sud, il trasporto su gomma invece che per ferrovia e mare, quali comparti strategici e quale innovazione del prodotto, quale rapporto con la ricerca, quale rapporto con l’ambiente e così via. Come è chiaro che ogni avanzamento salariale e sociale fu il prodotto di lotte epiche, che però si conclusero con vittorie chiare e in alcuni casi solo parziali. Ma vittorie.
Anche il settore finanziario e bancario, fortemente regolato dallo stato, ruotava soprattutto intorno al centro produttivo. Le politiche monetarie, dentro gli accordi di Bretton Woods, avevano ristretti margini di manovra ma quelli che avevano erano indirizzati a sostenere in ogni paese fortemente industrializzato le proprie imprese nelle esportazioni. Ci fu, ma anche qui non posso dilungarmi, una alleanza competitiva al proprio interno ma solidale verso e contro altri paese fra USA e Germania e in parte Gran Bretagna. La qual cosa permetterà sempre, nella fase keniesiana e anche in quella neoliberista, alla Germania e soprattutto alla sua banca centrale di operare al limite e spesso al di fuori degli accordi internazionali. Gli USA dominavano sul mondo (tranne che su l’est socialista) e quindi anche sulla Germania, ma quest’ultima dominava in Europa. In particolare perché l’apparato produttivo tedesco era tale che il rapporto mercato interno – esportazioni era molto sbilanciato verso le esportazioni. Questa cosa sarà foriera di diverse contraddizioni e problemi nella costruzione europea degli anni 90.
Prima di parlare di fatti eminentemente politici, come la rottura dell’alleanza fra Pci e PSI e l’ingresso dei socialisti nel governo, è indispensabile approfondire, anche se sommariamente, un tema fondamentale.
Tutto il “circolo virtuoso” di cui abbiamo tanto parlato portava con se una contraddizione enorme.
Essendo caratterizzato da sempre più alti salari, da una crescente accumulazione nel capitale fisso e da una politica dei prezzi delle merci compatibile con l’espansione del consumo e per giunta controllata e indirizzata dalla politica, produceva una progressiva riduzione del tasso di profitto.
Questo “circolo virtuoso” dal punto di vista strettamente capitalistico diventava sempre più un “circolo vizioso”.
In altre parole la natura del capitalismo che non può che ricercare sempre il maggior tasso di profitto era incompatibile con la prosecuzione del “circolo virtuoso”. Il “circolo virtuoso” per continuare a svilupparsi avrebbe dovuto, per dirla semplicisticamente, mettere in discussione il valore di scambio delle merci in favore del valore d’uso, ottenere maggior equilibrio e armonia nei rapporti economici internazionali, aumentare ancora di più il controllo politico e la programmazione pubblica della produzione e del mercato. Cioè superare il capitalismo. E ciò non avrebbe potuto che avvenire per salti e nel mezzo di scontri durissimi con il sistema capitalistico e con i suoi rappresentanti politici.
In altre parole ancora, il “circolo virtuoso” era una parentesi, prodotta da determinate condizioni storico politiche, nel processo di accumulazione capitalistico e non, come in molti credevano e credono, una evoluzione “democratica” e sempre più armoniosa del capitalismo.
Se è vero tutto ciò, anche per sommi capi, non può essere ignorato o considerato ininfluente nella lettura dei fatti politici.
La divisione fra PCI e PSI e l’ingresso di quest’ultimo al governo con la DC, era dovuta proprio all’analisi del capitale e alle due idee contrapposte che ne derivavano. O accumulare forze e rovesciare il sistema attraverso “riforme di struttura” inverando la nozione di “democrazia progressiva” che il PCI aveva del sistema politico scaturito dalla costituente o governare il sistema, facendolo evolvere verso il capitalismo dal volto umano con l’implementazione sempre maggiore del “circolo virtuoso”.
Mi sbaglierò, ma le letture correnti, che comunque contengono sempre punti di verità, come l’esclusione aprioristica del PCI dal governo di centrosinistra dovuta esclusivamente alla guerra fredda o il semplice tradimento dei socialisti, non possono spiegare tutto.
Non possono spiegare, per esempio, le riforme che il centrosinistra e poi negli anni 70 diversi governi, compreso quello di “unità nazionale” fecero. Anche se erano contemporanei alla fine del keinesismo e perfino all’inizio del neoliberismo. Furono il frutto della forza del movimento operaio e della dialettica, che continuava ad essere interna alla SINISTRA anche se da collocazioni politiche diverse, fra PCI e PSI.
Ciò che ho detto più sopra, invece, spiega benissimo due cose.
Man mano che la contraddizione fra capitalismo reale e keinesismo si acuiva, nel movimento operaio cresceva la coscienza anticapitalistica. Il 68, altro tema sul quale non posso dilungarmi, specialmente in Italia non fu un fuoco di paglia, ma acquisì alla classe operaia nuovi ALLEATI, come una intera generazione di studenti che sentivano come necessario il superamento del sistema e non coltivavano illusioni riformistiche dello stesso. Il movimento operaio cominciò ad organizzarsi diversamente e più democraticamente (i consigli) vincendo ogni resistenza del PCI e della direzione della CGIL. Cominciò a porre rivendicazioni generali (valga per tutti l’esempio della riforma sanitaria) e a mettere in discussione il modo di produzione capitalistico. Sul rapporto vita – lavoro (salute in fabbrica e 150 ore per esempio) e con la forza che aveva impose perfino l’eguaglianza salariale tendenziale fra lavoro manuale ed intellettuale nella stipula dei contratti di lavoro. Una delle più grandi conquiste fu la scala mobile. Che era un’arma difensiva contro la prima grande contromossa capitalistica sul “circolo virtuoso” (l’aumento dei prezzi delle merci e l’inflazione) ma anche offensiva (salario come variabile indipendente dal profitto). Una vera bestemmia per i capitalisti, che infatti la subirono totalmente meditando vendetta.
Questa prima cosa dimostra quale fosse il grado di percezione diffusa della necessità concreta (e non solo astratta e teorica) del superamento del capitalismo.
La seconda riguarda il PCI e la sua discussione interna.
Mentre il PSI, andando al governo, subì una scissione non piccola a sinistra (il PSIUP, che riprese il nome dei socialisti subito dopo la Liberazione) che continuerà nella politica di ALLEANZA con PCI, in quest’ultimo si sviluppò una dura discussione. Amendola propose prima al dibattito il tema del partito unico della sinistra. E nell’11° congresso si scontrerà (nelle forme in cui si faceva allora) con Ingrao. Chiunque può attingere ad una vastissima letteratura in merito. Io mi limito a dire che la discussione, interessantissima, ebbe il grave limite di non concludersi in modo univoco dal punto di vista politico. Vinse cioè un “centro” che si orientò nella direzione del superamento del capitalismo come prospettiva ma che, anche questo detto con estreme semplificazioni, assegnò un ruolo predominante alla politica istituzionale e di relazioni fra le forze politiche sulle dinamiche sociali. La separazione fra le dinamiche politiche e quelle sociali e il primato della POLITICA, cioè il POLITICISMO, fu declinata anche da sinistra. Soprattutto dalle tendenze operaiste dentro e fuori dal PCI e dallo stesso PSI. Analogamente si svilupparono, anche se con minor importanza teorie e pratiche ispirate alla primazia all’autonomia del SOCIALE.
Non sono incline, soprattutto con il senno del poi, a ignorare le condizioni internazionali ed interne italiane che spinsero il PCI a considerare immatura la possibilità di tentativi concreti di superamento del capitalismo e che lo indussero, anche in contraddizione con le proprie elaborazioni teoriche, a propendere più, nei fatti, verso la pratica del “governo del sistema”. E’ perfino inutile che mi diffonda sulle condizioni internazionali dell’epoca. L’invasione della Cecoslovacchia nel 68 da parte dell’URSS fu un colpo mortale per il PCI. Per quanto si fosse dissociato ne pagò un prezzo altissimo. Il dominio USA in Italia non avrebbe mai permesso che il paese si incamminasse sulla strada del superamento del capitalismo. E a nulla valsero le rassicurazioni sulla non uscita dalla NATO del PCI, perché il problema per gli USA non era certo solo geopolitico. Pesò poi, anche se molti se lo dimenticano, la svolta a destra della DC dei primi anni 70, la “strategia della tensione” e perfino i tentativi, per quanto improbabili, di colpo di stato. In Europa c’erano tre nazioni con regimi fascisti, Spagna Grecia e Portogallo. Tutte e tre fedelissime alleate degli USA. Sono tutte cose che si possono rintracciare tra le righe ed anche esplicitamente (come l’esperienza cilena) nei saggi di Berlinguer su Rinascita che inaugurarono la politica del compromesso storico.
Ma resta evidente che si aprì uno iato tra la domanda di cambiamento oggettivamente cresciuta nelle lotte e coerente con la soluzione delle contraddizioni prodotte dentro il “circolo virtuoso” in senso anticapitalistico, e la POLITICA del PCI. Non solo ma anche per questo il PCI, che in una prima fase dialogò seppur mantenendo chiare distanze, col movimento del 68 se ne separò nettamente in seguito. Non solo ma soprattutto per questo ci fu la nascita di quella che allora si chiamava “sinistra rivoluzionaria”, composta da diverse organizzazioni e anche dal gruppo del Manifesto, radiato dal PCI.
L’unità della “SINISTRA” e la politica delle “ALLEANZE” del PCI degli anni del centrosinistra e degli anni 70 sono ben diverse da quelle degli anni della fase precedente.
L’ultima parte della fase keinesiana in Italia è veramente molto complessa dal punto di vista strettamente politico. Nel PSI, ma ne riparleremo più diffusamente nella fase neoliberista, crebbero le tendenze più di destra non dentro ma dopo la esperienza organica del centrosinistra. E “L’UNITA’ DELLA SINISTRA” si coniugò con la collocazione alternante dentro-fuori del governo (anche nelle stesse legislature) del PSI. Non mancarono contenuti chiari unitari nel movimento di lotta ed anche obiettivi comuni in parlamento. Ma nessuno parlava più di ALLEANZA. Ed infatti non poteva esserci, giacché il PSI, pur conservando un forte insediamento operaio, scelse poi, come vedremo, di sposare gli interessi della nascente nuova borghesia della finanza e della speculazione. Nemica mortale della SINISTRA. Anche allora la domanda di UNITA’ era fortissima. Il PSI era un partito di governo ma era ancora un partito di sinistra che diceva, e spesso lo faceva, di lavorare al miglioramento delle condizioni di vita del proletariato e dei ceti popolari. Il PSI dialogava più volentieri con le forze alla sinistra del PCI, sia per dare fastidio al PCI sia per estrarne in senso riformista le rivendicazioni più compatibili con il sistema, che il PCI faceva fatica a metabolizzare ed inserire nel programma di alleanze e blocco sociale che aveva in mente. Valga per tutti l’esempio del divorzio, che passò in parlamento con i voti del PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI. Ma che venne spinta da socialisti, radicali e sinistra estrema (che erano fuori dal parlamento) vincendo le ritrosie del PCI che temeva, sbagliandosi totalmente, che avrebbe potuto provocare gravi divisioni nella classe operaia e nel popolo fra cattolici e non cattolici e che palesò una grave arretratezza culturale circa il problema del patriarcato e del femminismo.
Nella DC c’era praticamente di tutto. C’era una destra reazionaria che coltivava anche disegni autoritari e che non aveva imbarazzi a strizzare l’occhio al MSI, c’era una sinistra convintamente keinesiana che non esitava a schierarsi apertamente con le rivendicazioni operaie e che influiva moltissimo su una CISL unita alla CGIL. E in mezzo c’era il centro, più orientato verso la sinistra interna ma pronto a qualsiasi svolta necessaria dal punto di vista internazionale e di difesa degli interessi del capitale.
La politica delle ALLEANZE del PCI cambiò. Diventò soprattutto la versione politico-parlamentare del “compromesso storico”. Fu innervata di scelte di contenuto che venivano dalla analisi del quadro politico-economico della crisi del keinesismo e dell’uscita da destra dallo stesso, e che perciò erano nettamente in contraddizione con le domande sociali della classe operaia e di tutti i suoi alleati.
Su questo è necessario soffermarsi.
Siamo a cavallo della fine del keinesismo, i cui istituti principali (come le grandi imprese pubbliche ecc) continueranno ad esistere a lungo, e l’inizio della fase neoliberista, che ha le sue premesse, come vedremo in seguito, embrionali nella fine di Bretton Woods, nella politica dei prezzi alti per le merci, nella ricerca del massimo profitto sui mercati internazionali invece che su quelli interni. Ma ci torneremo per forza.
Se ci sono condizioni economico sociali oggettive per “andare oltre” (come è di moda dire oggi) il capitalismo sviluppando fino alle sue estreme conseguenze il “circolo virtuoso” non è detto che ci siano quelle politiche. Il PCI pensa che non ci siano. A torto o a ragione. Pensa che il tentativo di “andare oltre” non si può fare con il 51 % dei voti. Pensa, ancora una volta a torto o a ragione, che seguire questa strada possa rivelarsi una avventura e che bisogna evitare assolutamente di spingere gli avversari ad una svolta reazionaria che porterebbe ad una sconfitta storica e che potrebbe produrre bagni di sangue. Se ci sono condizioni sociali e non ci sono condizioni politiche va da se che il lavoro principale da fare è costruire condizioni politiche. Ecco il “compromesso storico”. Ma intanto i rapporti di forza nella società non restano immutati in attesa delle “condizioni politiche”. Intanto finisce Bretton Wodds, gli alti prezzi producono inflazione, la lira deve essere svalutata per permettere alle imprese le esportazioni senza le quali prezzi i prezzi alti producono una riduzione del mercato interno e una classica crisi di sovraproduzione. La politica delle ALLEANZE del PCI si piega sempre più al moderatismo e al “senso di responsabilità” perché gli effetti del non superamento del capitalismo producendo una risposta normale per il capitale, e cioè la ricerca del massimo profitto fuggendo e possibilmente distruggendo le compatibilità imposte dal funzionamento del “circolo virtuoso”, producono nel campo avverso, quello della classe operaia, perdita di forza e arretramenti.
Credo che non ci sia nessun saggio che possa sintetizzare e descrivere quanto ho appena detto meglio dello slogan che fu allora adottato dal PCI e dalla CGIL. La “politica dei sacrifici” della classe operaia per “salvare il paese”. Il “senso di responsabilità” del PCI.
Per quante ragioni avesse il PCI di considerare avventuroso o impossibile il mantenere in vita il “circolo virtuoso” fino al superamento del capitalismo i sacrifici e il senso di responsabilità, indipendentemente dalle intenzioni, non salvarono il paese. Bensì il capitalismo e spianarono la strada alla sua vittoria completa e senza appelli negli anni 80 e 90.
Con ciò non voglio dire che il PCI tradì, che si vendette, o altre amenità di questo tipo.
Capita, nella storia, che si venga sconfitti per motivi oggettivi, che sfuggono alla propria responsabilità diretta e che non dipendono prevalentemente dai propri errori soggettivi.
Il PCI seguì quella strada. Resta da dimostrare che seguire l’altra avrebbe prodotto avanzamenti e vittorie e non avventure e catastrofi ancor più grandi di quelle che il movimento operaio ha subito. E molto depone a favore della linea di condotta cui si sentì obbligato il PCI. Senza dimenticare, però, di dire che la compattezza del PCI e l’autorevolezza del suo gruppo dirigente, come di quello della CGIL, non impedì che dei termini di UNITA’ DELLA SINISTRA, ALLEANZE, e perfino di PARTITO E COMUNISMO E SOCIALISMO dentro il PCI iniziarono ad esserci diverse versioni.
Per non parlare del concetto di CULTURA DI GOVERNO che si affermò allora intriso di “realismo”, di moderatismo e di politicismo e praticamente contrapposto all’idea della possibilità di trascendere i rapporti di forza dati. Come se lo spingere in avanti il “circolo virtuoso” non fosse collegato a provvedimenti di governo e quindi ad una CULTURA DI GOVERNO. Un’altra, però.
Soprattutto i “miglioristi” si incaricarono di interpretare la linea ufficiale del PCI declinando tutte queste parole in senso diverso, sempre invocando una continuità di impostazione politica che invece non c’era per niente. Perché essi, in realtà, già negli anni 70 sposarono la prospettiva socialdemocratica europea e socialista italiana di “governo del sistema”.
Comunque, per “assolvere” il PCI dagli “errori” che fece nella stretta che dovette fronteggiare per tutti gli anni 70, bisognerebbe indagare meglio i disastri prodotti dall’invasione della Cecoslovacchia (che nel mondo significò che l’unico modello di socialismo possibile era quello dell’URSS, autoritario al punto che c’era un ministro che decideva che musica si poteva ascoltare, totalmente imitativo del modello fordista anche nell’organizzazione del lavoro e fortemente vocato al militare), dalla assenza di un luogo di discussione e soprattutto coordinamento reale del movimento operaio e dei partiti antagonisti (le divisioni fra URSS e Cina e la concezione del partito stato e dello stato guida lo impedirono), dalla assenza di una politica comune europea delle forze antagoniste sociali e politiche (e qui però ci furono errori soggettivi del PCI sia sul mercato comune, che pur conteneva regole e politiche chiaramente da “circolo virtuoso” e sul serpente monetario europeo (SME)). Ma questo è un altro discorso.
In realtà ho scritto finora tutto questo solo per tentare di dimostrare che usare parole come SINISTRA, ALLEANZE, POLITICA, PARTITO ecc. decontestualizzandole e facendo finta che abbiano lo stesso significato indipendentemente dalle fasi economiche e dalle condizioni politiche, come si usa diffusamente fare oggi, è un gravissimo errore tossico e foriero solo di disastri.
Lo vedremo meglio ancora parlando della fase neoliberista.
Continua
ramon mantovani<br/>fonte: <a href="http://ramonmantovani.wordpress.com/2010/09/01/perche-dovremmo-dividerci-fra-settari-e-governisti-ovvero-una-lunga-dissertazione-sul-senso-delle-parole-e-delle-azioni/">Blog Ramon Mantovani</a>VALTER VELTRONI: «Scrivo al mio Paese e vi dico cosa farei» 2010-08-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it505096Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Caro Direttore,<br />
scrivo al mio Paese. Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi in questi mesi.
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Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro.
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Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio. Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese.<br />
Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse con il risultato elettorale più importante della storia del riformismo italiano. Non è successo e dopo alcuni mesi io mi feci da parte. Forse è questo l'altro titolo per il quale sento di potermi rivolgere al mio Paese. Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie.
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Cosa sta succedendo a noi italiani? Abbiamo trascorso la più folle e orrenda estate politica che io ricordi. Una maggioranza deflagrata, un irriducibile odio personale e politico tra i suoi principali contraenti, toni e giudizi che si scambiano non tra alleati ma tra i peggiori nemici. E poi dossier, colpi bassi, una orrenda aria putrida di ricatti e intimidazioni che ha messo in un unico frullatore informazione, politica e forse poteri altri costruendo un mix che non può non preoccupare chi considera la democrazia come un insieme di regole, di valori, di confini. Il Paese assiste attonito allo sfarinarsi della maggioranza solida che era emersa dalle urne, a ministri che sembrano invocare freneticamente la fine della legislatura, nuovi voti, nuovi conflitti laceranti. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito pubblico chi governa questo Paese sembra dominato dal desiderio della instabilità. E, tutto, senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà delle legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico?
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L'alleanza di centrodestra sembra immersa nello scenario dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Prima l'abbandono di Casini, ora la irreversibile crisi con Fini. Le forze più moderate hanno abbandonato uno schieramento sempre più dominato dalla logica puramente personale degli interessi di Berlusconi e dallo spirito divisivo di una Lega che alimenta ogni forma di egoismo sociale con lo sguardo solo al tornaconto elettorale immediato. Con effetti che già registriamo nel sentire diffuso e nei comportamenti. Un Paese che smarrisce il suo senso di comunità, la sua anima solidale, la sua coscienza unitaria finisce con lo sfarinarsi violentemente.
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Quella che stiamo vivendo è una profonda crisi del nostro sistema. Era la mia ossessione quando guidavo il Pd. Mi angoscia l'idea che la democrazia rischi sotto la pressione delle spinte populistiche e dei conservatorismi di varia natura. E la crisi di questi mesi rafforza una distanza siderale tra la vita politica e i reali bisogni dei cittadini e della nazione. Berlusconi forza costantemente e pericolosamente i confini immaginando di vivere in un regime che non esiste. Se ci fosse un semipresidenzialismo lui certo non potrebbe disporre, ciò che è già una insopportabile anomalia oggi, di giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari. Ma neanche quella che su questo giornale è stata giustamente definita la «repubblica acefala» può fare sentire al Paese che il sistema politico tempestivamente ascolta, comprende, decide. Indeterminatezza di tempi, modalità, sedi di decisione hanno accompagnato anche altre stagioni politiche.
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Questo è il rischio che corriamo, l'alternativa tra una monarchia livida e una pura difesa dell'esistente. E tra i cittadini rischia di rafforzarsi l'idea che di fronte alla velocità del nostro tempo, dei suoi repentini mutamenti sociali e finanziari, a essere più «utile» sia un sistema che decide, qualsiasi esso sia. Il rischio è che si faccia strada, anche in Occidente, quella suggestione di «democrazia autoritaria» che è già una realtà in sistemi, come quello russo o, in forma diversa, in quello cinese, che stanno segnando il tempo della fine dei blocchi. La possibilità che la società globale porti con sé un principio di disunità e che questo reclami poteri centrali forti e semplificati è molto di più di un rischio. Rimando per una analisi più compiuta al volume di John Kampfner Libertà in vendita o al bellissimo lavoro di Alessandro Colombo La disunità del mondo. In una società globale una democrazia che non decide è destinata a soccombere. Ma in una società globale la suggestione autoritaria si scontra con una irrefrenabile esigenza di libertà, libertà di sapere, dire, pensare.
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Dunque l'unica strada che i veri democratici devono percorrere è quella di una repubblica forte e decidente. Ma questa comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali. Bisogna semplificare e alleggerire, bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria. E, soprattutto, l'Italia, tutta, deve ingaggiare una lotta senza quartiere alla criminalità che succhia ogni anno 130 miliardi di euro alle risorse del Paese. Non basta che si arrestino i latitanti. La mafia è politica, è finanza. La mafia compra e condiziona. La mafia invade tutto il territorio e credo che ora, guardando le cronache di Milano o di Imperia, ci si accorga finalmente che non è un problema della Kalsa di Palermo o una invenzione di Roberto Saviano, ma una spaventosa realtà che altera il mercato, distorce la concorrenza, limita la libertà delle persone.
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Le culture di progresso non possono declinare solo un verbo: difendere. Agli italiani non sembra di vivere in un Paese da conservare così come è. Un Paese che non ha una università tra le prime cento del mondo (dopo averle inventate), che ha una metà, meravigliosa, di sé sotto il condizionamento di poteri criminali, che ha evasione altissima e altissima pressione fiscale, che ha una amministrazione barocca e il primato dei condoni, che scarta come un cavallo l'ostacolo ogni volta che deve sfidare sondaggi e corporazioni. Un Paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a Palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi.
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Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana. Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano.
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In questa estate orrenda non per caso la frase più citata dai leader politici è stata «Mi alleo anche con il diavolo pur di...». Lo ha detto Calderoli parlando del Federalismo, lo hanno detto alcuni leader del centrosinistra parlando della necessità di una santa alleanza contro Berlusconi. Io rimango dell'idea che invece le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo. È giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo. Perché poi, alle elezioni prodotte dal dissolvimento della destra, si presenti uno schieramento alternativo capace di assicurare all'Italia quella stagione di vera innovazione riformista che questo nostro Paese non ha mai conosciuto. Perché questo Paese deve uscire dall'incubo dell'immobilità che perpetua rendite e povertà. Deve conoscere un tempo di radicale, profondo cambiamento. È questo, da decenni, il frutto dell'alternanza nei diversi Paesi europei.
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Il nostro è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Chiunque alzi gli occhi nella Cappella Palatina di Palermo o nella galleria di Diana di Venaria Reale non può non sentire tutto intero l'orgoglio di essere figlio di questo Paese e della sua straordinaria e travagliata storia. Lo stesso orgoglio che si prova pensando agli italiani che lavorano per la nazione, imprenditori od operai, insegnanti o poliziotti. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile.<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.corriere.it/politica/10_agosto_24/veltroni-lettera_50de02f4-af44-11df-bad8-00144f02aabe.shtml">www.corriere.it</a>Giorgio NAPOLITANO: Bobbio e la Carta. La Costituzione non è intoccabile. Fedeli alla Costituzione fino a volerla cambiare.2009-10-16T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it418308Alla data della dichiarazione: Pres. della Repubblica<br/><br/><br />
La lezione che Norberto Bobbio poteva offrire a chi si inoltrasse sulla via dell'impegno nella sinistra politica a cavallo tra gli anni 40 e 50 giungeva controcorrente, in antitesi a posizioni prevalenti in quel campo. Posizioni in cui si rifletteva l'asprezza che la lotta politica stava raggiungendo in Italia, dopo la rottura dell'unità tra le forze antifasciste e dopo le elezioni del 1948 che avevano segnato una drastica contrapposizione tra l'alleanza di centro e la sinistra.
<p>Un'asprezza inseparabile da quella della guerra fredda che andava dividendo drasticamente il mondo in due blocchi, dei quali va ricordata la forte connotazione ideologica. <br />
Ai rischi fatali di antitesi e fratture, ben al di là dei confini italiani, si opponeva da parte di Bobbio l'«invito al colloquio»:<br />
al colloquio per lo meno - egli scrisse nel 1951 - tra gli uomini di cultura. (...) La polemica di Bobbio interveniva, invece, a sollevare interrogativi di fondo, a seminare dubbi, a proporre argomenti complessi, e a farlo dal punto di vista di un uomo di pensiero, di uno studioso portatore di molteplici valori politici, come ha scritto di recente Revelli - liberalismo, democrazia, socialismo, federalismo - che avevano caratterizzato da 'ircocervo' il Partito d'Azione.
<p>Non era dunque in nome di un bagaglio ideale ostile alla sinistra, era piuttosto in nome di un dichiarato interesse positivo per le sorti del movimento operaio e della sinistra, che Bobbio sviluppava il suo discorso, si rivolgeva a quegli interlocutori. Era un discorso volto a contestare una serie di semplificazioni e contrapposizioni fuorvianti libertà sostanziale,'di fatto' , 'vera' , contro libertà giuridica o formale, libertà socialista contro libertà borghesi; <br />
un discorso, quello di Bobbio, volto a contestare la riduzione del concetto di libertà a quello di potere, cioè di potere di esercitare un diritto altrimenti astratto, e quindi la negazione del valore della libertà come non impedimento.
<p> Dietro le posizioni teoriche - che Bobbio metteva drasticamente in questione, si manifestava in una parte della sinistra un'accentuata, prioritaria sensibilità per esigenze sociali e obbiettivi di riforma delle strutture economiche, ma si coglieva anche, e chiaramente, la difesa, l'idoleggiamento delle conquiste rivoluzionarie delle società dell'Est.
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Di qui l'affermazione nettissirna, da parte di Bobbio, della necessità, egli scrisse, che «qualunque sia la classe sociale che tenga le chiavi del potere, essa non governi dispoticamente e totalitariamente, ma assicuri all'individuo una sfera più o meno larga di attività non controllate, non dirette, non ossessivamente imposte»... <br />
La passione che aveva nel passato animato - parole di Bobbio - la battaglia liberale contro il dispotismo si era tradotta in istituzioni e principi che egli esortava la sinistra a valorizzare pienamente:<br />
la garanzia dei diritti di libertà - primo fra questi la libertà di pensiero e di stampa - la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche; la distinzione delle funzioni al servizio del principio di legalità; la distinzione degli organi dello Stato al servizio del principio di imparzialità.
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Questo messaggio liberale</b> di Bobbio si integrava peraltro con la valorizzazione da parte sua della democratizzazione dei regimi liberali, con l'impegno per la causa dell'uguaglianza, della giustizia e del progresso sociale. Un impegno che egli avrebbe, decenni pi tardi, riaffermato con particolare forza all'indomani della caduta del comunismo. La componente socialista della sua identità di pensiero e politica era innegabile, confermata nei fatti dalla sua collaborazione col partito che incarnava quella tradizione.
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Nonostante ciò , la sua lezione - torno alla prima metà degli anni 50 - non veniva facilmente recepita:<br />
né dai massimi custodi dell'ideologia e delle scelte politiche di fondo della forza maggiore della sinistra italiana, quella comunista, né da generazioni più giovani di militanti e di intellettuali. <br />
Il paradosso stava nel fatto che la lotta politica nel paese, nei suoi termini concreti, spingeva più che mai la sinistra di opposizione a impugnare la bandiera della Costituzione repubblicana, della libertà e quindi di principi e diritti che nello stesso tempo si insisteva sul piano dottrinario a sottovalutare o relativizzare.
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Ma la forza di persuasione di un messaggio come quello di Bobbio e la forza di fatti traumatici come il ventesimo congresso del partito sovietico, cominciarono ad aprire delle brecce, a imporre delle revisioni, a cui altre sarebbero seguite negli anni e nei decenni successivi. <br />
Fu un'evoluzione lenta, faticosa, e quella lentezza, con il suo contorno di ambiguità, sarebbe stata pagata dalla sinistra e dal paese. <br />
Per me personalmente, apprendere la lezione di Bobbio fu determinante, anche perché mi sarebbe poi apparsa condurre verso l'orizzonte della socialdemocrazia europea. (...)
<p><b>Nel luglio del 1984</b> Bobbio era stato nominato dal Presidente Pertini senatore a vita, e avevamo così occasione di incontrarci anche a Montecitorio quando il Parlamento si riuniva in seduta comune (...).<br />
All'indomani di quella nomina, egli mi scrisse del disagio di dover «prendere una parte più attiva alla vita politica, che mi pare sempre più caotica e nella quale non so bene che parte prendere».
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In realtà, egli sapeva che lo sbocco cui tendere era quello di una democrazia dell'alternanza anche in Italia e che ciò presupponeva un polo di sinistra rappresentato da quel grande partito riformista di stampo socialdemocratico europeo di cui lamentava la mancanza.(...) <br />
L'obiettivo era reso ancora arduo dallo stato dei rapporti tra i due maggiori partiti della sinistra, e Bobbio si esprimeva criticamente su entrambi, e anche dopo la svolta del 1989 nel Pci, ne parlava come di «un mulo cocciuto» che si fermava nel momento in cui avrebbe potuto raccogliere i frutti se ne avesse tratto tutte le conseguenze dalla sua marcia di avvicinamento al socialismo democratico europeo.
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<b>Condividevamo</b> largamente, insomma, giudizi ed auspici; e infine - gli scrissi alla vigilia delle elezioni del 1992 - mi ritrovai vicino al suo «sconforto storico» per il fatale riprodursi, senza quasi più speranza di superarla, della contrapposizione tra i due partiti.(...) <br />
Nella crisi del 1992-93 Bobbio si schierò attivamente per la riforma elettorale e costituzionale. Ne discutemmo all'Università di Torino nel maggio del 1993 (ero allora Presidente della Camera). «Riforma costituzionale», egli disse in quell'occasione, «a partire dalla Costituzione presente»; «processo riformatore da condurre in Parlamento con metodo democratico», aggiunse ironizzando sulla formula «rivoluzione costituzionale» agitata da un altro studioso.
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Già in precedenza, quando ragionavamo sulle prospettive della sinistra, egli aveva indicato come motivo di dialogo serio tra quei partiti le riforme costituzionali, rispetto alle quali «non si poteva negare» osservò «che Craxi fosse stato un precursore». Nel 94 anche il progetto di riforma della Commissione Jotti abortì; <br />
egli, che aveva condiviso la mia diagnosi di una «impotenza a riformare» come male oscuro e grave della democrazia italiana, tornò a rilanciare tuttavia la sfida del cambiamento, ribadendo: «Guai a noi se daremo l'impressione di essere fedeli alla Costituzione sino a considerarla intoccabile» senza distinguere tra la sua prima e la sua seconda parte.
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<b>Al di là delle problematiche</b> e degli avvenimenti cui mi sono riferito finora, rilevo come certi accenti che ritrovo nel Bobbio di allora conservino una loro attualità. E per quanto diversi siano i soggetti politici oggi in competizione e in contrasto rispetto a quelli del periodo in cui ci scrivevamo e discorrevamo con Bobbio, posso - mi chiedo - ripetere le sue parole di una lettera del 92:<br />
«Ci vorrebbe un po'di equilibrio da parte di tutti»? Sono parole, se ripetute ora, destinate a lasciare il tempo che trovano? Fare, non dico «l'elogio della mitezza», ma il più naturale appello al senso della misura, al confronto costruttivo, al rispetto delle istituzioni e alla considerazione dell'interesse comune, è dunque solo un dar prova d'ingenuità? Ebbene, fosse pure questo, io non desisterò dal mio appello, rivolto come sempre in tutte le direzioni. E sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali, lo condividano, ne avvertano la necessità.
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Le questioni politiche e ideali in cui eravamo coinvolti, ciascuno a suo modo, discutendone io e Bobbio tra di noi e con altri, più di vent'anni fa o giù di lì, mi appaiono ormai lontanissime, da tempo, per così dire, passate in giudicato. <br />
Naturalmente, quella è stata la mia storia: una storia non rimasta eguale al punto di partenza, ma passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni. <br />
Da quel contesto mi sono via via distaccato quanto più ero chiamato ad assumere ruoli non di parte, a farmi carico dei problemi delle istituzioni che regolano la nostra vita democratica, i diritti e i doveri dei cittadini. <br />
L'approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia.
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<b>Tutti i miei predecessori</b> - a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi - avevano ciascuno la propria storia politica:<br />
sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. <br />
Quella del Capo dello Stato «potere neutro», al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell'Occidente democratico.
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Per quante tensioni e difficoltà comporti l'adempiere un simile mandato, proseguirò nell'esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali. <br />
E sono qui oggi anche per dirvi quanto siano state e siano per me preziose l'ispirazione civile e morale, e la lezione di saggezza, che ho tratto dal rapporto con Norberto Bobbio.<br />
Gliene sono ancora grato.
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<i>(testimonianza alla Cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio. Torino, 15 ottobre 2009)</i><br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=NOWRU">Il Riformista - Napolitano Giorgio</a>Donatella PORETTI: Lettera aperta al Presidente Cossiga: bene la chiosa all'articolo di Pera, ora sottoscriva il mio ddl sull'art.1 della Costituzione.2008-09-16T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it359384Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Al Presidente emerito della Repubblica<br /><br />
Sen. Francesco Cossiga<br /><br />
Egregio Presidente,<br /><br />
la lettura delle sue importanti considerazioni in chiosa all'articolo dell'ex Presidente del Senato Marcello Pera sul "patriottismo costituzionale" enunciato di recente dal Presidente Napolitano, svelano le perplessità, condivise, dunque, non solo dalla sottoscritta, sulla genesi e sul significato del Primo articolo della nostra Costituzione.
<br /><br />
Frutto di una soluzione primariamente politica e ovviamente compromissoria fra i due schieramenti che si fronteggiavano dopo il 25 aprile del 1945, specchio del nuovo assetto internazionale che vedeva i Paesi vincitori avviarsi ad nuova guerra, detta "fredda", così "Filo-sovietico" o "sovietizzante" come lei lo definisce, non c'è dubbio, con quel "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" che sembra risuonare tanto in sintonia con altri motivi di un repertorio pittoresco "popolare" fatto di versi come "Compagni dai campi e dalle officine...", non sembra si addica tanto alla società italiana contemporanea quanto forse più a Paesi con cultura e storia certamente differente come Cina, Vietnam, Corea del Nord o Cuba.<br />
Ma tant'è, e decisamente alla proposizione con cui si apre una costituzione è attribuito un altissimo valore simbolico. È in essa che viene affermato un modello istituzionale ed è con essa che si esprimono i valori fondanti la base del vivere civile. Sempre che la Costituzione si dimostri efficace nell'affermare e proteggere i suoi valori fintanto che il popolo in essa identificato possa a sua volta identificare se stesso in quella dichiarazione d'apertura. Il primo articolo è quello che intere generazioni dovrebbero imparare a memoria, tramandare o citare ogniqualvolta vi sia una sua patente o potenziale violazione. Con esso si dovrebbe misurare ogni giorno l'operato dei governanti, la sua eco riverberare nelle opere letterarie, nella cinematografia, nelle aule di tribunale.<br />
A più di sessantuno anni da quel 22 marzo 1947, non vi e' dubbio che l'articolo 1 della Costituzione ha fallito questa sua alta missione.
<br /><br />
Anche se molte e concorrenti sono le definizioni di "lavoro" nel nostro ordinamento, ne troviamo un'autorevole all'articolo 4, comma 2, della Costituzione: "un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa'". In questo articolo, il "lavoro" e' qualificato come diritto e dovere di ciascun cittadino. Una definizione molto ampia, volutamente indeterminata, che non si limita ad indicare un rapporto di lavoro tradizionale, come ad esempio quello pattuito in un qualsiasi contratto di impiego. Ma chi esattamente puo' riconoscersi nella categoria di "lavoratore", ovvero di cittadino che svolge l'attivita' sulla quale e' fondata la nostra Repubblica? Possono identificarsi in quel primo articolo i milioni di cittadini disoccupati? E coloro che lavorano al nero, e quindi non pagano le imposte? I milioni di cittadini in fase di studio, minorenni e non, o di formazione sono lavoratori effettivi, oppure solo potenziali "attori"? Ed i milioni di cittadini non più in grado di lavorare in quanto affetti da gravi malattie o perché vittime di incidenti sul lavoro? Cosa dire ancora dei milioni di cittadini che percepiscono una pensione di anzianità, non più svolgendo l'attività "lavoro"? È da considerarsi "lavoratore" anche la persona alla ricerca della propria felicità e realizzazione, anche al costo di restare per lungo tempo senza "lavoro"?<br /><br />
Il semplice fatto che, a distanza di più di sessant'anni, queste domande possano ancora essere poste, che milioni di cittadini possano anche solo esitare a riconoscersi nel principio fondante della propria Repubblica, è indice del fallimento di quel primo articolo. Cosa ben piu' grave, chi esita nel riconoscersi in questo primo articolo, finira' per accogliere con diffidenza anche il resto della Costituzione.
<br />
Conseguente a tali premesse, che Lei oggi dimostra di condividere, è un disegno di legge di mia iniziativa che avevo già presentato alla Camera la scorsa legislatura il 22 marzo 2007, e che ho poi ripresentato alcuni mesi fa al Senato. Consta di un solo articolo col quale si sostituisce il primo comma del primo articolo della Costituzione con il seguente: "La Repubblica italiana è uno Stato democratico di diritto fondato sulla libertà e sul rispetto della persona".
<br />
<br />
Le mando in allegato il testo di tale disegno di legge, nella speranza che una sua attenta valutazione la possa convincere a sottoscriverlo.<br /><br />
Rispettosi saluti,<br /><br />
Sen. Donatella Poretti<br /><br /><br />
A questo link il disegno di legge:
<a href="http://blog.donatellaporetti.it/?p=8">http://blog.donatellaporetti.it/?p=8</a><br /><br/>fonte: <a href="http://www.radicali.it/view.php?id=128758">Radicali.it</a>Furio COLOMBO: La Repubblica condivisa.2008-09-09T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it359157Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.<br /><br />
Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione.<br /><br />
<i>Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.</i><br />
Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». <br />
Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.<br />
Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire.
Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.<br /><br />
Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria.
La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.<br /><br />
Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale.<br />
Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.<br />
Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.<br />
Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.<br /><br />
<i>«Il Giorno della memoria»,</i> vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».<br />
Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.<br />
«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.<br />
Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.<br /><br />
Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.
È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.<br />
È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.
Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.
<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=J676U">l'Unità - Furio Colombo</a>Ignazio LA RUSSA: "Omaggio dovuto ai soldati della Rsi, mi attaccano perché sono di destra" - INTERVISTA2008-09-09T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it359153Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: FI) - Ministro Difesa (Partito: PdL) <br/><br/><br />
«Hanno inventato una polemica che non esiste, si sono immaginati un dissenso con Napolitano che è pura fantasia, hanno usato contro di me vecchi e logori stereotipi e manifestazioni scomposte di razzismo culturale». Ignazio La Russa, ministro della Difesa, ha appena terminato un seminario con gli studenti della Summer School di Magna Carta, animato da Gaetano Quagliariello. Ma l’argomento del giorno sono le polemiche che si sono sollevate dopo il suo discorso commemorativo dell’8 settembre. Il ministro della Difesa non è per nulla intimidito, anzi, un vero e proprio fiume in piena. Dice che non si rimangia nemmeno una parola e spiega perché.<br /><br />
<b>Ministro, se le aspettava le polemiche?</b><br />
«Sinceramente no. Perché considero i miei avversari molto più intelligenti di quello che a volte si dimostrano».<br />
<b>L’accusano di fare revisionismo storico attraverso la sua carica istituzionale...</b> <br />
(Il ministro sbotta) «Ma quale revisionismo! Questi non sanno neanche che cosa voglia dire. Tutti quelli che in questi anni hanno affrontato gli avvenimenti del ’43 si sono spinti molto più avanti di me». <br />
<b>Facciamo degli esempi.</b><br />
«Ce ne sono tanti. Se vogliamo citare i due più importanti, la monumentale bibliografia di Renzo De Felice e i quattro libri di Pansa, compreso l’ultimo, I tre inverni della paura, che fotografa straordinariamente proprio quel momento di sbandamento tragico che nel nostro Paese fu aperto dall’8 settembre».<br />
<b>Allora torniamo alle frasi che le contestano.</b><br />
«Mi ero preparato il discorso, una scaletta di appunti, perché di solito parlo a braccio, già da una settimana».<br />
<b>E aveva già messo a fuoco il passaggio incriminato?</b><br />
«Ovviamente sì: nel mio discorso non ho fatto riferimento alla storia di tutta la Repubblica di Salò, nemmeno ai soldati della Rsi, ma a quelli del battaglione Nembo che combatterono ad Anzio».<br />
<b>Lei è partito elogiando quelli che combatterono contro i nazisti...</b><br />
«Sì, e non potevo fare altrimenti, per due motivi: perché si opponevano a un esercito straniero, in quel momento ostile. E poi, perché con il loro sacrificio, avevano contribuito alla costruzione di quella Italia democratica e libera in cui viviamo».<br />
<b>Poi lei ha citato anche coloro che si erano schierati sul fronte opposto. E qui si è scatenato il putiferio.</b><br />
«E ovviamente non si capisce perché, se si esclude la malafede. Ho detto, infatti, parlando, e ci tengo a ripeterlo, sempre di quei soldati della Nembo, che non potevo fare un torto alla mia coscienza non ricordando che anche loro, come tutti i caduti, erano meritevoli di rispetto perché nella loro testa, in modo soggettivo e non equiparabile a quello di coloro che fecero la scelta opposta, avevano in mente l’ideale della difesa della patria e dell’onore alla parola data».<br />
<b>Quindi lei non ha fatto nessuna equiparazione.</b><br />
«Assolutamente no, ho distinto, come vede, e con parole molto chiare, perché mi è molto chiaro il ragionamento su quegli uomini e su quel passaggio storico».<br />
<b>Per tutto il giorno, e sul sito della Repubblica è rimbalzato il tam tam di una irritazione del Quirinale. Non posso che chiederglielo, è vero?</b><br />
«Macché. Una panzana colossale. In primo luogo, non poteva esserci polemica con il presidente della Repubblica perché ho parlato dopo di lui».<br />
<b>Non nei discorsi ufficiali. Ma magari a quattr’occhi...</b><br />
«Sono stato con Napolitano, con grande cordialità, per molto tempo dopo il discorso. Non mi ha detto nulla, non è vero che era seccato, non voglio ovviamente interpretarlo, ma non c’è stato il minimo accenno a qualsiasi irritazione».<br />
<b>Come si spiega allora il polverone che si è sollevato?</b><br />
«Semplice, con una forma di razzismo culturale: siccome io sono di destra, ho una storia di destra, e certo non me ne vergogno, si presume che io non possa parlare».<br />
<b>Forse pensano che lei si dovrebbe astenere dal toccare certi temi...</b><br />
«Con me se lo possono scordare, non mi faccio tarpare dai gendarmi della memoria e dai professori della storiografia ufficiale».<br />
<b>Pensa che la sua immagine istituzionale sia appannata?</b><br />
«Primo non lo è. Secondo non me ne importa nulla, perché non ho ambizioni, non devo farmi rilasciare patenti, sono già orgoglioso del ruolo a cui sono arrivato».<br />
<b>Ieri l’ha attaccata anche Veltroni, se lo aspettava?</b><br />
«No, non ha ecceduto come altri, ma certo con le sue parole ha fatto torto in primo luogo alla meritoria azione di pacificazione nazionale che ha svolto da sindaco di Roma». <br />
<b>Lei ha citato il discorso di Violante su Salò.</b><br />
«Certo, anche qui: ha detto molto più di quello che ho detto io, e fra l’altro lui si riferiva a tutta la Repubblica di Salò. Io, invece, parlavo di quel periodo preciso, e di quei soldati».<br />
<b>Perché lo sottolinea?</b><br />
«Perché stiamo parlando della fine del ’43, un momento di caos assoluto. Ha presente il film Tutti a casa con Alberto Sordi che telefona al comando gridando: “Aiuto, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano contro”». <br />
<b>Nel senso che sembrava più probabile?</b><br />
«Sì, per un soldato italiano, abbandonato e all’oscuro di tutto, sembrava impensabile che gli alleati di ieri ci sparassero addosso».<br />
<b>L’hanno criticata anche i dipietristi.</b><br />
«Questa è bella, dovrebbero rivolgere le stesse critiche al loro leader che, come a Milano sanno tutti, da ragazzo votava Msi».<br />
<b>Però lei ha parlato proprio il giorno dopo la polemica di Alemanno sul fascismo male assoluto o no.</b><br />
«Gianni ha spiegato oggi, con grande chiarezza, la sua posizione. E in questa forma, sono d’accordo con lui. Ma io parlavo di tutt’altro. Lo facevo nel giorno della nascita di mio padre, consapevole di quello che dicevo e della reazione che potevo suscitare, e certo che c’era solo un limite che non potevo forzare».<br />
<b>Quale?</b><br />
«Che ero tenuto per mandato istituzionale a parlare di quei ragazzi, che se avessi potuto scegliere non l’avrei fatto, ma che avendolo dovuto fare, non potevo censurare la mia coscienza». <br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=J66ZI">Il Giornale - Luca Telese</a>Ferdinando ADORNATO: E' ora di aprire un nuovo tempo della Repubblica.2008-07-25T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it358319Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: UDC) <br/><br/><br />
Si può dire che la transizione italiana sia finalmente compiuta? Si può dire che il quadro sistemico configurato dalle elezioni dell’aprile 2008 sia definitivo e possa, dunque, durare nel tempo? A noi sembra che si debba rispondere di no. Per diverse, obiettive ragioni.<br /><br />
<b>I quattro nodi irrisolti</b><br />
La prima è legata allo scenario storico. Quando, negli anni Novanta, crollò la cosiddetta prima Repubblica, quattro erano le grandi questioni che giustificavano la transizione verso un nuovo tempo della Repubblica: 1) La questione istituzionale, già posta alla fine degli anni Settanta (Craxi) affrontata lungo il corso degli anni Ottanta (De Mita) e infine riproposta, sia pure con colpevole approssimazione, dal movimento referendario. 2) La questione giudiziaria, esplosa drammaticamente in un inedito e pericoloso conflitto con la politica di settori della magistratura, dei media e dell’opinione pubblica. 3) La questione dell’unità nazionale e del federalismo, nel permanente rischio di una frattura storico-sociale tra Nord e Sud. 4) La questione della modernizzazione liberale, sentita come ineludibile, in tutti i campi della vita pubblica, per mettersi al passo con il resto dell’Occidente. Ebbene, tutte queste questioni sono ancora davanti a noi, irrisolte; anzi, incancrenite dal tempo perduto. Abbiamo alle spalle un ventennio sprecato.<br /><br />
Le pochissime istituzioni riformate (regioni, comuni, legge elettorale) lo sono state in modo approssimativo, obbedendo a suggestioni ideologiche o di convenienza, fuori da un omogeneo disegno nazionale condiviso. Perciò non si può dire che la transizione italiana sia compiuta. Essa lo sarà solo quando tali nodi troveranno finalmente soluzione. Ne consegue che il contesto politico (contenuti, alleanze, legittimazione reciproca etc…) che permetterà di scioglierli, deciderà anche il definitivo assetto del Paese. Chi e come realizzerà finalmente le grandi riforme? Chi e come farà davvero nascere la Seconda Repubblica? È questa la domanda che deciderà il futuro del Paese. E sarebbe un delitto far passare anche questa legislatura senza rispondere. <br /><br />
In realtà, il contesto dovrebbe essere obbligato: trattandosi di questioni di fondo della nostra vita collettiva bisognerebbe trovare le sedi e gli strumenti per soluzioni condivise. Ma finora non ci siamo riusciti. Il panorama è stato dominato, e ancora continua ad esserlo, da una sorta di guerra civile ideologica nella quale anche una parola debole come “dialogo” si trasforma in una missione impossibile. La Francia di Sarkozy è riuscita in pochi anni a riformare la propria Costituzione. Ed è tornata a giocare un ruolo propulsivo nello scacchiere europeo e mediorientale. L’Italia di questo primo decennio del nuovo secolo è invece imprigionata nelle sabbie mobili dell’impotenza politica. <br /><br />
<b>Una democrazia senza partiti?</b><br />
La seconda ragione della nostra risposta negativa è legata al problema della rappresentanza. Quale che sia il giudizio sui vecchi partiti, neanche i più disinvolti protagonisti dell’antipolitica, risiedano nel Palazzo o fuori, hanno il coraggio di teorizzare (neppure quando la praticano) che sia possibile una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo ciò che oggi rischia l’Italia. Di fronte alla lunga consunzione degli storici insediamenti politici (già prevista da Aldo Moro) e, poi, alla loro traumatica scomparsa, la politica italiana avrebbe dovuto procedere ad un serio lavoro di ricostruzione: dei fondamenti identitari, spiazzati dai mutamenti dell’assetto geopolitico mondiale; della forma partito per renderla adeguata ai nuovi sistemi di comunicazione e alle mutate caratteristiche della partecipazione; dei meccanismi di selezione della classe dirigente, accertato l’esaurimento delle tradizionali sedi di formazione e la crisi del collateralismo.<br /><br />
In una parola, c’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per individuare la strada di nuovi partiti di massa del XXI secolo. Più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Viceversa abbiamo assistito ad un generale decadimento, a volte imbarbarimento, del pensiero politico. Così, tra i vecchi partiti tramontati e i nuovi partiti necessari, ha vinto la pragmatica e sbrigativa soluzione del non-partito. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: la decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali, oligarchici e padronali; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale. <br /><br />
La necessità di dotarsi di leader capaci di significative suggestioni simboliche, circostanza normale per ogni democrazia liberale, ha finito, in questo quadro, per determinare l’avvento di un leaderismo senza partiti, fenomeno invece assai anomalo in tutto il mondo occidentale. Dunque, a meno di non voler sostenere l’utopia di una democrazia senza partiti, non c’è dubbio che, anche dal punto di vista della rappresentanza, la transizione non è finita e, di conseguenza, l’attuale assetto sistemico non può considerarsi definitivo.<br /><br />
Anzi, nel ventennio sprecato, si è perfino aggravata la crisi tra rappresentanza e territorio, creando i presupposti non già di una generica disaffezione, ma di una vera e propria rottura storica, quasi antropologica, tra partiti e cittadini. Eppure non sembra esserci nel mondo politico la necessaria consapevolezza. Ci si accontenta di seguire la logica delle convenienze di breve momento. Ci si illude che la democrazia sia solo la periodica registrazione del consenso elettorale (o dei sondaggi). Non è così. Non è così negli Stati Uniti, figuriamoci se può essere così nello scenario europeo. Quando una democrazia viene ridotta a questo, vuol dire che è già entrata nel tempo della sua crisi. Giacciono ancora irrisolti, negli attuali contenitori, due enormi nodi strutturali: la questione identitaria e la questione democratica. Nodi di fondo, che pongono l’attuale “mercato politico” in aperta contraddizione con l’articolo 49 della Costituzione. Tutto ciò mentre la dialettica dell’economia mondiale determina inediti scenari di pauperizzazione. Il combinato disposto tra crisi democratica e crisi sociale è da sempre un segnale di estremo pericolo per la convivenza civile delle nazioni. <br /><br />
<b>Il bipartitismo che non c’è</b><br />
L’evidenza di tali scenari ha indotto la sinistra e la destra, prima delle ultime elezioni, a realizzare due suggestivi “colpi di scena”: la nascita del Pd e del Pdl, evocando l’avvento di un bipartitismo capace di segnare in modo irreversibile il sistema italiano, e di risolvere i nodi della sua lunga transizione. È davvero così? O siamo di fronte all’ennesima illusione spacciata per realtà? La nostra sensazione è proprio quest’ultima: di trovarci di fronte ad un “finto bipartitismo senza partiti”. L’apparentamento con la Lega da una parte e con l’Italia del Valori dall’altra, assieme alla persistenza di partitini organizzati, ha prodotto in realtà due “coalizioni camuffate”. <br />
<br />
Semplificate certamente, ma pur sempre coalizioni: costruite non già soltanto sulla coerenza del programma, ma soprattutto sulla conquista del premio di maggioranza. Il dopo elezioni ha reso manifesta la finzione: dei rispettivi fronti, Bossi e Di Pietro, hanno subito dato vita a un cinema indipendente. Il risultato è che il governo in carica è, ancora una volta, costretto a mediare quotidianamente tra le diverse posizioni degli alleati. E perfino a registrare imbarazzanti scontri sul valore dei valori: l’unità nazionale. Può un ministro della Repubblica vilipendere gli stessi simboli che dovrebbe rappresentare? E può un maggioranza di governo conciliare uomini come Fini e Bossi che hanno opinioni così diverse su argomenti fondamentali della nostra democrazia? In questo scenario la decisiva discussione sul federalismo fiscale non trova certo il terreno più fertile per diventare davvero una svolta condivisa dell’intera comunità nazionale. Dal canto suo l’opposizione di sinistra non solo ha dovuto rinunciare a fare, come aveva dichiarato, un unico gruppo parlamentare, ma si è trovata costretta a dividersi, anche qui, addirittura intorno ad elementi costitutivi della civiltà politica: il rispetto per il Capo dello Stato e per il Pontefice. Su quali basi allora ci si era presentati assieme alle elezioni? <br /><br />
Insomma, l’Italia ha inventato il “bipartitismo di coalizione”, evidentemente solo un’illusione scenica, per di più non riuscita. Un bipartitismo di marketing che solo per ciò che riguarda il Pd aveva preso le mosse da una seria operazione politica in favore della governabilità, cioè la rottura con l’area antagonista (per passare poi però dalla padella alla brace con Di Pietro), mentre per il Pdl ha determinato l’opposto: la rottura con una forza di centro. In ogni caso si tratta di un bipartitismo fondato, come si dice oggi, su partiti “liquidi”. Non c’è dubbio, infatti che, sia nel Pdl che nel Pd, sia marcata la sofferenza generata dalla mancata soluzione di quella questione identitaria e di quella questione democratica che segnano, come abbiamo detto, il declino dei partiti nell’attuale fase storica. <br /><br />
<b>Pdl e Pd: questione identitaria
e questione democratica</b><br />
Il Pdl. Si tratta, per ora, solo di un “cartello”, figlio di una precipitosa fusione elettorale tra An e Forza Italia. Vedremo quali caratteristiche assumerà dopo la sua costituzione, annunciata per gennaio, ma su alcuni elementi di fondo si può già ragionare. Proprio qui a Todi, abbiamo teorizzato per anni il progetto di una casa comune dei moderati, frutto dell’evoluzione dei diversi partiti del centrodestra lungo l’asse del cattolicesimo liberale. La Casa delle libertà, che non era affatto un ectoplasma, ma un potenziale seme di futuro, poteva essere il laboratorio di una ricostruzione democratica della politica italiana e l’embrione di un nuovo vero partito popolare. Ma Berlusconi ha deciso di recidere questo seme. <br /><br />
Nella mia relazione a un convegno, che ha avuto una certa eco pubblica, dicevo che il “berlusconismo” non sarebbe stato solo l’espressione di una concezione solipsistica del potere ma il lievito storico di un nuovo orizzonte politico a due condizioni: 1) garantire “la continuità storica dell’alleanza, la sua tenuta, il suo naturale sviluppo” 2) realizzare “la grande operazione culturale di costruire una stabile rete di formazione, di aggiornamento e di promozione della classe dirigente in modo da creare un’estesa e stabile comunità di governo, culturalmente consapevole”. Ebbene non è andata così. La continuità storica dell’alleanza è stata volontariamente cancellata, salvo che per la Lega. Quanto al secondo punto, mi pare evidente che sia stata scelta la strada opposta. E così, purtroppo, il berlusconismo rimane ancora, sostanzialmente, uno stile di potere e di consenso elettorale legati esclusivamente al carisma personale, non il collante storico di una nuova, stabile costruzione politica. <br /><br />
Così il Pdl va nascendo intorno a “noccioli valoriali” assai diversi da quelli del cattolicesimo liberale e del popolarismo europeo. Il nucleo più forte viene paradossalmente in prestito “dall’esterno”: dalla Lega, che ormai ha fatto prevalere le sue idee forza: la diffidenza nei confronti della globalizzazione, una certa declinazione dei concetti di sicurezza civile, economica e sociale che rimanda più a un protezionismo nord-centrico che al federalismo liberale. Tremonti ne è un magistrale interprete. Un secondo nucleo forte viene interpretato dall’area socialista di Forza Italia, ormai maggioritaria, che offre anche i migliori uomini all’attuale governo. Le parole chiave sono ancora quelle martelliane dei “meriti e bisogni” e quelle craxiane di “modernizzazione e decisionismo”. La resa dei conti con la magistratura è la sua colonna sonora. <br /><br />
Un terzo nucleo forte, di impronta prettamente berlusconiana, (che rappresenta il vero “spirito di comunità” del Pdl) orienta i concetti di felicità, di autostima personale e di relazioni con l’altro intorno al mito del successo e al dominio dell’immagine. L’importante è raggiungere l’obiettivo che ci si propone; il modo attraverso il quale ci si arriva, conta meno. L’irresistibilità dei sogni che, nel mito americano, è legata al trionfo della bontà e della moralità umana contro ogni ingiustizia, nel mito italiano ritorna così, more solito, all’irrilevanza dei mezzi rispetto al fine. Si tratta dunque di un’aggregazione inedita per la storia d’Italia, una sorta di “nuova destra”, nella quale convivono, finora in modo disordinato, eredità craxiane, ispirazioni post moderne, suggestioni populiste e una forte vena di liberalismo antiburocratico. Forse ha ragione Berlusconi quando descrive il suo movimento come anarchico nei valori: ma proprio qui nasce la questione identitaria del Pdl, tuttora irrisolta e, comunque, lo ripeto, troppo legata alle singole persone (essenzialmente Berlusconi e Tremonti) per garantire la stabilità di un insediamento storico. Certamente ci sono nel Pdl anche numerose aree e personalità legate all’ispirazione cristiana e cattolico-liberale. Di più: per realpolitik il Pdl è sempre molto attento a non creare frizioni con la Chiesa; ma se anche i suoi dirigenti lo negano, esibendo il certificato di garanzia del Ppe, appare abbastanza evidente come i principii e gli esponenti di tali aree, a differenza di ciò che succedeva al tempo della Cdl, rivestono ormai un ruolo del tutto marginale nel core business del partito di Berlusconi. <br /><br />
Ciò appare del resto del tutto coerente per un soggetto nato escludendo, a priori, ogni rapporto con un partito di ispirazione cattolica, come l’Udc a meno che non fosse disposto, appunto, a rinunciare alla sua identità. Se la questione identitaria rimane, comunque, come è ovvio, controversa e controvertibile, non c’è invece alcun dubbio sul fatto che la questione democratica rappresenti, per il Pdl, una vera spada di Damocle. Sulla scia di Forza Italia, che ha tenuto solo due congressi in tutta la storia, non sono previste strutture ordinarie di discussione. L’unico sistema di promozione sono le nomination del leader e tutti i meccanismi di selezione non sono meritocratici (come si propone al resto del Paese) ma esclusivamente di tipo oligarchico-padronale. Può darsi che la spinta della comunità di An riesca a modificare la situazione.
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<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=ISVIC">Liberal - Ferdinando Adornato</a>