Openpolis - Argomento: pcihttps://www.openpolis.it/2015-09-27T00:00:00ZFRANCO MIRABELLI: Ingrao è stato il punto di riferimento di una generazione2015-09-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it767125Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/>“Ingrao è stato tanto importante per me e la mia generazione, un punto di riferimento ideale che ci ha fatto crescere con la convinzione che non si deve mai rinunciare ai propri ideali e a coltivare insieme a tanti le grandi utopie di un mondo migliore, più giusto da consegnare alle generazioni future. Ci ha insegnato che ciò che facciamo oggi non deve compromettere mai un patrimonio che non è nostro ma dei nostri figli”. Così il senatore PD <b>Franco Mirabelli</b> ricorda Pietro Ingrao.<br/>fonte: <a href="https://fidest.wordpress.com/2015/09/28/in-ricordo-di-pietro-ingrao/">FIDEST</a>LEONARDO DOMENICI: Il j'accuse di Domenici:«Ex Ds linciati dall'Espresso» Italia 2012-03-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it625467Alla data della dichiarazione: Deputato Parlamento EU (Gruppo: S&D) <br/><br/>«C'è stato un gruppo politico-editoriale che per le sue scelte ha voluto aprire una campagna di linciaggio mediatico semplicemente perché l'ingegner Carlo De Benedetti riteneva che per far svoltare il Pd bisognava decapitare un'intera generazione di gente che proveniva dai Ds, Pds e prima ancora dal Pci». Il «j'accuse» è dell'ex sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, a margine della sua testimonianza in tribunale per il processo sull'area di Castello, che vede imputati due ex assessori della sua Giunta, Gianni Biagi e Graziano Cioni, e, tra gli altri, il patron di Fondiaria-Sai, Salvatore Ligresti.
«Si è deciso, a freddo, di fare una campagna mediatica di linciaggio», ha aggiunto Domenici, facendo esplicito riferimento a L'Espresso. Per quanto scritto nel 2008 dal settimanale, l'ex sindaco ha in corso una causa per diffamazione.<br/>fonte: <a href="http://www.unita.it/italia/il-j-accuse-di-domenici-br-ex-ds-linciati-dall-espresso-1.388439">www.unita.it</a>Dario FRANCESCHINI: Pd: Ho invidiato a PCI "compagni" e il pugno chiuso2011-07-25T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it590324Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
''Io non ho mai chiamato compagno chi era con me nel partito'' come accadeva nel Pci, ''perche' vengo da un'altra storia, ma ho invidiato due cose: compagno e il pugno chiuso''. A rivelarlo e' <b>Dario Franceschini</b>, intervenendo alla festa regionale del Pd a San Miniato (Pi). Questo perche', ha spiegato, ''erano gesti molto forti, segni di una grande forza collettiva. Eravamo su fronti diversi ma a noi mancavano''.
<p><b>Franceschini</b> ha anche rilevato che queste e altre ''sono cose che ognuno ha portato orgogliosamente dentro il Pd in cui nessuno ha rinunciato a nulla ed e' l'approdo delle nostre storie''.
<p><b>Franceschini</b> ha assicurato che ''e' assolutamente superato'' il problema relativo alla tentazione dei cattolici del Pd di creare un partito centristra. ''Periodicamente nella storia degli ultimi venti anni - ha detto - ci sono stati anche tentativi di illustri personaggi, Segni, Cossiga, Andreotti, Pezzotta, che hanno tentato di dire: c'e' uno spazio al centro, rifacciamo la Dc''. Ma e' solo ''nostalgia'' e ''il Paese restera' bipolare anche dopo'' la caduta di Berlusconi, ha concluso l'esponente Pd.
<p><a href="http://www.youdem.tv/doc/213995/dario-franceschini-alla-festa-regionale-del-pd-della-toscana.htm"><b>Video dell'intervento di Dario Franceschini</b></a><br />
<br/>fonte: <a href="http://www.asca.it/news-PD__FRANCESCHINI__HO_INVIDIATO_A_PCI__COMPAGNO__E_PUGNO_CHIUSO-1037439-POL-1.html">Asca</a>Marco PANNELLA: Lassini, referendum e sciopero della fame2011-04-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it560040<br />
<b>Lassini: ormai è candidato ed esprime la pancia berlusconiana.</b>
<p>"Ci hanno pensato tardi a chiedergli di uscire dalla lista, perché lo hanno fatto quando non era più tecnicamente possibile". E' il commento di Marco Pannella sulla candidatura di Roberto Lassini nelle liste del Pdl al Comune di Milano e sulle polemiche sui suoi manifesti elettorali.
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Pannella ha spiegato che la posizione de Il Giornale, rappresentata dall'intervento del direttore Alessandro Sallusti, è "ineccepibile: questi manifesti rappresentano il ventre, la pancia berlusconiana. E allora lo si fa fuori da candidato, perché è lui, mentre va bene quando esprime quelle posizioni il Presidente del Consiglio".
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"Sallusti poi è certamente un anti-montanelliano, butta carte e intonazioni che appartengono alla caricatura del fascismo. Ma Sallusti in fondo dice una verità: Lassini interpreta una parte dei sentimenti di quel popolo, e Libero e Il Giornale hanno quella funzione", ha concluso Pannella.
<p>REFERENDUM TRADITI? POCO CREDIBILI GLI ULULATI DI OGGI
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"Leggi che tradiscono i referendum? E dove sta la notizia? Nella nostra esperienza parlamentare degli anni Settanta abbiamo visto tentativi smaccati di cancellare i referendum, in cui il centrosinistra e il Presidente della Repubblica facevano di tutto per far fuori i nostri quesiti. Oggi dunque questi ululati sul fatto che il governo Berlusconi fa una delle cose che gli altri hanno fatto sempre mi fanno sorridere. Forse vale la pena di ricordare che il Partito Comunista Italiano, dal 1972 al 1974 il partito - di fronte ad una Dc che era marmellata - che cercava di abolire o superare la legge Fortuna per non fare quel referendum sul divorzio che poi vincemmo"
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MIO SCIOPERO DELLA FAME ANCHE PER MORTI DEL MEDITERRANEO
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"Una opposizione che faccia il suo mestiere, che sia pro-rivolta o contro la rivolta in Libia, pro-intervento armato o contro l'intervento armato, dovrebbe porsi il problema delle migliaia di morti che fanno oggi del Mediterraneo un cimitero".
<p>Lo ha detto Marco Pannella, nel corso della consueta conversazione dominicale con Radio Radicale, tornando a spiegare le ragioni dello sciopero della fame che sta conducendo dallo scorso martedì.
<p>"Berlusconi non è che avesse a sua disposizione particolari strumenti culturali, andava dai dittatori e gli diceva che tutti lo amavano, come è successo a Lukashenko.<br />
Io voglio sapere perchè sappiamo di tragedie solo se arrivano dei cadaveri sulle spiagge. E molto spesso le correnti non portano i cadaveri sulle spiagge. A nessuno interessa? Perchè nessuno pensa di usare i sofisticatissimi satelliti che tutto il mondo occidentale possiede per monitorare il mare, pieno di carrette e di disperati?", ha detto Pannella.
<p>"Oggi il problema è quello che chiamo della democrazia reale".Il problema è che "oggi anche gli eredi del Pci sono in qualche modo responsabili della "degenerazione del regime italiano": "Senza accanimento di sorta dico che il post- Pci ha continuato ad essere una causa, una componente, della degenerazione anti-democratica di questo sessantennio.
<p>E il problema rimane quanto tutta la ricerca storica, il costituzionalismo italiano, liquidato il conto con i costituzionalisti laici, con coloro che avevano proposto una lettura diversa dello sviluppo culturale e politico del mondo anglosassone piuttosto che di quello europeo, sia stato in grado di rispondere alla domanda che pongo.
<p>Pannella è tornato ad esprimere "non un obiettivo ma un auspicio, che sia possibile almeno al Presidente della Repubblica italiana conoscere un po' di più la storia, e quel che facciamo". <br />
<br/>fonte: <a href="http://www.radicali.it/print/comunicati/20110424/lassini-pannella-ormai-candidato-ed-esprime-pancia-berlusconiana">radicali italiani</a>Paolo FERRERO: Vent’anni fa, Rifondazione comunista2011-02-03T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557656<br />
Vent’anni fa, domenica 3 febbraio 1991, una novantina di delegati abbandonarono la sala del XX congresso del Pci, che si teneva a Rimini, per non partecipare allo scioglimento del Pci e alla nascita Pds.
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Immediatamente convocarono una conferenza stampa in cui Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Libertini, Ersilia Salvato e Rino Serri annunciarono la decisione di dar vita ad una formazione comunista.
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I cinque, insieme a Guido Cappelloni e Bianca Bracci Torsi, si recarono quindi dal notaio per registrare il simbolo del Pci, segnalando anche sul piano legale la volontà di proseguire l’impegno politico in quanto comunisti e comuniste.
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Una settimana dopo, al teatro Brancaccio di Roma, migliaia di compagni e compagne parteciparono alla prima assemblea di massa di quello che divenne il Movimento per la Rifondazione Comunista. Al Brancaccio venne esposta una enorme bandiera rossa, realizzata cucendo insieme centinaia e centinaia di bandiere e costruendo così, da basso, la più grande bandiera rossa mai realizzata.
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Credo che oggi a quegli uomini e a quelle donne che hanno dato vita a Rifondazione comunista debba andare il nostro ringraziamento. Innanzitutto per il coraggio di andare controcorrente in una fase in cui, dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo sembrava aver vinto la partita definitiva.
<p> Erano gli anni in cui Fukujama proclamava la “fine della storia” e in cui il capitalismo veniva presentato, prima ancora che invincibile, come un dato naturale.<br />
Se l’anticapitalismo non è stato soffocato in Italia è stato anche grazie a quella scelta.
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Penso che il nostro ringraziamento vada espresso anche per il nome scelto:<br />
Rifondazione comunista. Tanti erano i nomi possibili e forti erano le spinte a caratterizzare una nuova formazione comunista semplicemente come la prosecuzione dell’esperienza precedente.
<p> Nella scelta del nome vi fu invece una precisa scelta politica che riteniamo valida ancor oggi.<br />
Comunista, perché siamo comunisti e comuniste che si battono per una società di liberi e di eguali che si può realizzare solo superando il capitalismo. <br />
Rifondazione, perché consapevoli che nella sua storia il movimento comunista ha compiuto molti errori ed in particolare che le esperienze del socialismo reale sono fallite, dando vita a regimi che contraddicevano radicalmente gli ideali comunisti.
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Non quindi semplicemente la ricostruzione di un partito comunista, ma Rifondazione comunista nella consapevolezza che i due termini si qualificano a vicenda, e che solo una rifondazione teorica e pratica del comunismo avrebbe potuto porsi efficacemente l’obiettivo di superare “sul serio” il capitalismo. In questo senso rifondazione comunista non ha dato vita solo ad un partito ma ha esplicitato una indicazione generale, chiara, sulla necessità della rifondazione del comunismo.
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Accanto ai primi soci fondatori molti e molte altre si aggiunsero nei mesi successivi e Rifondazione divenne un crogiuolo in cui diversi spezzoni ed esperienze politiche della sinistra di classe e comunista confluirono.
<p> La costruzione del Movimento prima e del Partito poi, fu una grande esperienze di dialogo e riconoscimento che riguardò in primo luogo decine e decine di migliaia di militanti che provenendo da storie diverse impararono a dialogare, a confrontarsi, a cercare collettivamente nuove strade.
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Questo elemento della partecipazione dal basso è un elemento caratterizzante non solo la nascita, ma tutta l’esperienza di Rifondazione. Nel bene e nel male rifondazione non è stato solo un fenomeno politico ma è stata una esperienza di popolo, uno spazio pubblico, si direbbe oggi. Lo voglio ricordare perché la storia di Rifondazione rappresenta l’esemplificazione di uno degli slogan che il movimento si dette sin dall’inizio: liberamente comunisti.
<p> Credo che in nessun partito italiano gli iscritti, la cosiddetta base, abbia contato quanto ha contato in Rifondazione. In tutti i momenti di scelta e di scontro – e non sono stati pochi – alla fine ha sempre prevalso l’orientamento dei compagni e delle compagne iscritte anche sulle prese di posizione dei massimi dirigenti.
<p>Se vogliamo ricercare una conferma che il termine rifondazione è stato preso sul serio, lo possiamo trovare proprio in questo, nel non identificare il partito con i suoi gruppi dirigenti e nel mettere al centro della vita del partito la partecipazione.
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Oggi, a distanza di vent’anni, vedendo come sono finiti il Pds e poi i Ds e poi il Pd, si può apprezzare fino in fondo la giustezza della scelta dei fondatori di Rifondazione.
<p>La cui ragione di esistenza non sta però solo nel fallimento delle esperienze politiche nate dallo scioglimento del Pci o nel nostro essere soggettivamente comunisti e comuniste.
<p> La ragione di fondo della nostra esistenza la troviamo al di fuori di noi e precisamente nella crisi capitalistica che è li a ricordarci come questo non sia il migliore dei mondi possibili.
<p>Il fondamento ultimo della nostra esistenza sta proprio li, nell’incapacità strutturale del capitalismo di dare una risposta ai bisogni dell’umanità e alla coniugazione del vivere civile con la limitatezza delle risorse del pianeta su cui viviamo.
<p>La drammatica alternativa tra socialismo e barbarie che si ripresenta oggi, ci dice di come l’esigenza del superamento del capitalismo sia più urgente che mai.
Per questo noi, uomini e donne liberamente comunisti, vogliamo proseguire lungo il cammino intrapreso.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=X6W08">Liberazione - Paolo Ferrero</a>Achille OCCHETTO: «Pd, svolta tradita per sete di potere» - INTERVISTA2011-02-03T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557655<br />
«Sacrificata la ricerca di una nuova identità» - Il 12 novembre del 1989 Occhetto annuncia lo scioglimento del Pci. Il 3 febbraio del 1991 il partito si sciolse e nacque il PdS.
<p>Nell'89 impose la Svolta della Bolognina, nel '91 vinse il congresso che a Rimini seppellì il Pci e diede vita al Pds, ma anche a Rifondazione comunista. Quel che non torna è che Achille Occhetto oggi militi nel partito nato da Rifondazione (Sel) anziché in quello nato dal Pds (il Pd).
<p> <b>Cos'è, una nemesi?</b>
<p> «No, anche se allora non avrei mai pensato a uno scenario simile. La mia vicinanza a Sel è la reazione a una situazione stagnante con l'obiettivo di riunificare il centrosinistra. Ma va detto che Vendola, col suo antistalinismo e la sua fede nel primato della libertà, non ha nulla a che vedere con la storia del Pci».
<p> <b>Vero, paradossalmente...</b>
<p> «Paradossalmente, ci sono molti più comunisti nel Pd. Penso a D'Alema e alla sua realpolitik».
<p><b> Nel '91 si capì quel che moriva, ma non quel che nasceva. E la mancanza di identità politica riguarda ancora il Pd...</b>
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«E' vero. Con la Svolta lanciammo il tema di una nuova identità socialista, ma subito dopo il problema della coesistenza delle diverse anime nel partito fu risolto non con un sano e definitivo confronto politico bensì con un accordo volto alla spartizione del potere. E' chiaro che la ricerca del potere per il potere ha sostituito la ricerca di una nuova identità politica».
<p> <b>Quali furono, allora, le diverse correnti di pensiero nel Pci?</b>
<p> «Innanzitutto c'erano quelli contrari alla Svolta che intendevano rifondare il comunismo accreditandosi come eredi del Pci».
<p> <b>Programma ambizioso...</b>
<p> «E infatti non lo realizzarono. Anzi: Rifondazione ebbe una lunga fase regressiva rispetto alle innovazioni del Pci di Berlinguer».
<p><b> Vi furono distinzioni tra quanti formalmente la seguirono?</b>
<p> «Certo, vi furono tre diverse ispirazioni. I riformisti di Giorgio Napolitano puntavano all'unità socialista, ma io ero contrario perché non ritenevo che il socialismo coincidesse col craxismo. Se li avessimo assecondati saremmo stati annessi dal Psi e dopo aver faticosamente schivato le macerie del Muro di Berlino saremmo finiti sotto quelle del pentapartito».
<p><b> La seconda corrente?</b>
<p> «Era quella di Veltroni, che voleva dar subito vita al Pd. Obiettai che di partiti democratici ne possono esistere diversi, e scelsi quello di sinistra».
<p> <b>La terza?</b>
<p> «Era la mia, e puntava alla costituzione di una nuova formazione politica che andasse oltre le culture del Novecento nel solco dell'Internazionale socialista».
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<b>Ma non eravate propriamente una falange macedone.</b>
<p> «No, non eravamo compattissimi. I più convinti erano Mussi, Petruccioli e nomi simbolici come la Iotti e il fratello di Berlinguer, Giovanni. Ma anche tra noi c'erano diversi malpancisti».
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<b>Ad esempio?</b>
<p> «Antonio Bassolino e Massimo D'Alema».
<p> <b>Come lo ricorda, D'Alema?</b>
<p> «Spaventato, disse che a convincerlo fu suo padre. Ma era chiaro che per lui la Svolta rappresentava il male minore: non un'occasione, ma una necessità della storia».
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<b>Le pesò rompere con Ingrao?</b>
<p> «Ingrao aveva un grande carisma ed era un eccellente oratore, al congresso di Bologna fu applauditissimo e tutti ricordano che quando ci stringemmo la mano i nervi cedettero e piansi».
<p> <b>Altri tempi, oggi i partiti nascono e muoiono senza che nessuno versi una lacrima...</b>
<p>«Vero, oggi non avvertiamo più il peso delle ideologie, spesso anche delle idee, quasi sempre delle identità e delle appartenenze. E' logico che si pianga meno. Il rischio, però, è quello di passare sorridendo da un vuoto all'altro».
<p> <b>E' vero che decise tutto da solo?</b>
<p> «No. La Svolta maturò nell'arco di un anno: al congresso dell'89 decidemmo di chiamarci Nuovo Pci; in un'intervista all'<i>Espresso</i> dissi che il nostro punto di riferimento era la Rivoluzione francese e non quella d'Ottobre; in occasione di Tienanmen parlai di morte del comunismo. Poi, certo, alla Bolognina decisi da solo di dire che bisognava cambiare tutto e che occorrevano 'nuove vie'».
<p> <b>Ebbe paura?</b>
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«Tanta. Le confesso che temevo di finire in minoranza».
<p> <b>Cosa ricorda dell'atmosfera di Rimini?</b>
<p> «Una grande tensione, accresciuta dal fatto che incombeva la guerra del Golfo su cui avevamo idee diverse. La campana di un nuovo inizio stava suonando non solo per noi ma per tutti, anche se molti non la sentivano. Portare il partito dall'Internazionale comunista a quella socialista era cosa di non poco conto».
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<b>Ci riuscì grazie a Bettino Craxi.</b>
<p> «Per la verità, all'inizio Craxi era contrario. Lo convinsero gli altri leader socialisti europei e alcuni suoi compagni a partire da De Michelis».
<p> <b>E' possibile che, agli occhi dei suoi compagni, su di lei abbia pesato la colpa irrazionale di aver sepolto il mitico Pci?</b>
<p> «Sì, credo che questo sentimento ci sia stato. Ho più volte avvertito il giudizio negativo di chi irrazionalmente mi considerava reponsabile della fine di un mondo che, con i suoi errori, era ovviamente caro a tutti noi».
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<b>Il peso del partito nelle urne:</b>
<p>POLITICHE 1987 = 26,6%; Sono le ultime in cui partecipa il Pci. Segretario è Natta, gli succede Occhetto.
<p>POLITICHE 1996 = 21,6%; La percentuale del Pds. Vince l'Ulivo: al governo vanno gli ex comunisti, è la prima volta.
<p>POLITICHE 2001 = 16,6%; I Ds scivolano al minimo, il centrosinistra perde. Nel 1998 il Pds cambia nome e diventa Ds.
<p>POLITICHE 2008 = 33,2%; I voti, alla Camera, al Partito democratico, nato dall'unione di Ds e Margherita.
<p>STIME 2010 = 26%; E' all'incirca la percentuale di consensi indicata dai sondaggi per il Pd, lo scorso anno.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=X6VR0">Giorno/Carlino/Nazione - Cangini Andrea</a>Ramon MANTOVANI: Perchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (2)2010-09-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it558149Seconda fase parte prima.
La fase neoliberista del capitalismo è stata ed è un enorme processo di ristrutturazione economico-finanziario, una fortissima concentrazione e contemporaneamente un’esponenziale crescita di società multinazionali, una violenta distruzione delle regole e dei vincoli che erano stati imposti nella fase keinesiana, un durissimo attacco al movimento operaio e a qualsiasi SINISTRA reale.
Abbiamo già detto precedentemente come la fase keinesiana avesse minato, in tutto l’occidente, il motore dello sviluppo capitalistico. E avesse posto alcune delle condizioni fondamentali per rendere politica (e non solo teorica) la possibilità del superamento del capitalismo in occidente.
Già alla fine degli anni 60 tutto ciò è più che evidente.
La società è organizzata e funziona intorno alla produzione materiali di beni, merci e servizi. La finanza (che è consustanziale al capitalismo) serve agli investimenti del capitalismo principalmente dedito alla produzione di merci. Il mercato interno di ogni paese è il motore principale dello sviluppo, e con esso il prezzo del lavoro (salario e stipendi) sale per garantire la realizzazione del profitto attraverso la vendita delle merci. I paesi esportatori, essendo il commercio internazionale un sistema a somma zero (se c’è chi vende ci deve essere chi compra e le bilance commerciali alla fine devono pareggiarsi, pena una grave crisi di sovrapproduzione), devono contare su una crescita, anche favorendola direttamente, dei mercati interni ai paesi importatori. Lo fanno con misure monetarie che “peggiorano” la loro capacità competitiva rispetto ai paesi meno sviluppati per favorirne lo sviluppo e la crescita del mercato interno. Viceversa questi ultimi fanno l’esatto opposto, svalutano le proprie monete per ridurre il deficit commerciale e garantire occupazione e mercato interno. Vengono alla luce le gravi contraddizioni del modello fordista di organizzazione e divisione del lavoro, relative alla massificazione delle società, alla alienazione, alla distruzione ambientale e perciò, il movimento operaio e la SINISTRA ne teorizzano il superamento per la creazione di un nuovo modo di produzione.
La caduta del tasso di profitto del capitale investito in produzione di merci; il commercio internazionale “regolato” e vincolato; il dominio degli USA che pagavano parte dello sviluppo garantendo a una cerchia di paesi (sostanzialmente il club dei paesi dell’OCSE) un alto tasso di sviluppo ottenendo in cambio la loro subalternità politico-militare; la esclusione dal “circolo virtuoso” dei paesi fuori dall’OCSE e le loro rivendicazioni ad uscire dall’arretratezza, che avrebbero ulteriormente regolato in senso sempre più solidale il commercio internazionale; il crescente potere di condizionamento del modello di sviluppo da parte del movimento operaio, sono tutte condizioni che a un certo punto diventano insostenibili per la logica intrinseca del capitalismo. Che è sempre la ricerca del massimo profitto. Come sono le condizioni alla base della necessità storica di superare il compromesso keinesiano in senso anticapitalista. Sia sul versante di una direzione pubblica dell’economia volta a mantenere la sviluppo dei mercati interni obbligando gli investimenti ad orientarsi secondo una logica contrapposta alla ricerca del massimo profitto, sia sul versante della ulteriore solidarizzazione del commercio internazionale, anche rimettendo in discussione le asimmetrie prodotte a Bretton Woods in favore del dominio USA.
Che succede, invece?
Prima di descrivere la possente controffensiva del capitale bisogna per forza, perché è una precondizione fondamentale, citare una nuova condizione politica. Una vera novità, che non manca di avere risvolti anche paradossali.
A un certo punto gli USA non furono più in grado di garantire la convertibilità del dollaro in oro (anche a causa del costo della guerra in Viet Nam che fu molto più lunga del previsto e che costo moltissimo). La convertibilità del dollaro in oro era il fondamento di tutto il sistema monetario e commerciale mondiale e soprattutto della sua stabilità. Nonché del potere politico degli USA che veniva esercitato negli interessi propri e del club dei paesi ricchi e sviluppati. Nel 1971 Nixon dichiarò inconvertibile il dollaro in oro. Ma a questa scelta obbligata non corrispose una perdita di potere degli USA, come sarebbe stato logico. Bensì il contrario. Non esistendo nessuna moneta di un paese in grado di pagare il prezzo di esercitare la funzione garantita fino ad allora dagli USA, in virtù di una pura preminenza politico-militare il potere di comando degli USA sull’economia mondiale si accrebbe. La scelta di non inventare, alla firma degli accordi a Bretton Woods, una moneta mondiale garantita da un accordo multilaterale (il Bancor che aveva sognato Keynes) si rivelò per gli USA strategicamente decisiva. Qualche mese dopo la dichiarata inconvertibilità del dollaro in oro vennero cancellati gli accordi di Bretton Woods e la stabilità monetaria mondiale, per quanto asimmetrica fosse stata, finì. Da quel momento in poi il sistema avrebbe funzionato non più con una base materiale, per quanto mediata dal dollaro. Bensì sulla base del semplice complesso dei cambi valutari che fluttuavano liberamente.
Questa fu la svolta storica, determinata da condizioni squisitamente politiche, che mise fine al tentativo condizionare lo sviluppo capitalistico con regole capaci di impedire crisi epocali, come quella del 29, e di garantire un certo grado, asimmetrico e squilibrato, ma comunque ispirato alla cooperazione e perfino alla solidarietà nelle relazioni commerciali internazionali.
Questa svolta, decisa al di fuori di qualsiasi discussione democratica e ignota e misteriosa per la stragrandissima maggioranza della popolazione mondiale, fu il la definitivo per la controffensiva del capitale.
Come per la sinistra non esiste politica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria, per il capitalismo fu decisiva la teoria economica neoliberista. Da allora in poi i cervelli neoliberisti divennero guru, profeti indiscussi e vennero premiati con diversi premi Nobel.
Seguendo le loro indicazioni i capitalisti dei paesi esportatori e con rapporti di forza politici meno favorevoli per il movimento operaio, come gli USA e la Gran Bretagna, iniziarono ad aumentare i prezzi delle merci per annullare gli aumenti salariali che erano stati contretti ad erogare. La latente sovrapproduzione emerse con forza. Perché sebbene si riduca il costo del lavoro, insieme ad un costante aumento della produttività per ora lavorata, a favore del profitto, si deprime il mercato interno e non si vende tutto quel che si produce. La conseguente inflazione e disoccupazione provocano un ulteriore blocco degli investimenti e della crescita, chiudono il cerchio e si scopre che eliminare il “circolo virtuoso” può produrre un nuovo circolo vizioso non solo per gli operai ma anche per il capitale. E’ la famosa stagflazione. Vera ossessione delle imprese capitalistiche dell’epoca. Se la ricerca del massimo profitto deprime il mercato interno e produce crisi di sovrapproduzione che possono cancellare il massimo profitto la soluzione è semplicissima. Bisogna vendere le merci esportandole. Questa propensione esportatrice scatena una competizione mai vista prima e soprattutto rovescia il pur squilibrato ordine monetario che aveva sorretto la fase precedente. I paesi prevalentemente esportatori necessitano di monete sottovalutate e forti e di tassi bassi di interesse sul denaro, per favorire le esportazioni e gli investimenti. I paesi prevalentemente o addirittura quasi totalmente importatori sono costretti, per far fronte all’indebitamento della bilancia commerciale, a sopravalutare le proprie monete, rendendole così sempre più deboli. Soprattutto devono rendere le loro economie attrattive per i capitali speculativi che cominciano a circolare potentemente. Non hanno altra scelta per poter sostenere la spesa pubblica, per quanto ridotta sia rispetto a quella dei paesi esportatori.
Le monete si svalutano e si rivalutano non più per cercare di mantenere la stabilità ed evitare crisi finanziarie, ma solo per competere meglio nella giungla che è diventato il mercato mondiale. E’ cominciata l’epoca della competizione totale. La “competitività delle imprese” e dei “sistemi paese” è la legge che sovra ordina tutto. Le conseguenze sono enormi, da tutti i punti di vista.
Citiamo solo quelle salienti. Senza pretesa di descrivere ed analizzare completamente un fenomeno così grande e complesso che è conosciuto con il nome di “globalizzazione”.
Innanzitutto c’è il fatto che se il sistema per svilupparsi deve sempre più esportare, svincolandosi dal mercato interno, per competere può e anzi deve ridurre il costo del lavoro, in una spirale crescente. I bassi salari da limite dello sviluppo, come erano nella fase precedente dominata dal mercato interno, diventano condizione per lo sviluppo connesso alle esportazioni nella fase del mercato globale. Questo automaticamente deprime la forza del movimento operaio e dei lavoratori. E’ facile ricattare e far valere il ricatto dicendo una cosa semplicissima, se non competiamo falliamo e se falliamo i posti di lavoro spariscono. Insomma, dovete sacrificarvi se volete salvare il posto di lavoro.
Si innesta un meccanismo per cui i paesi esportatori impongono “nuove regole”, cioè semplicemente deregolamentano, nel commercio internazionale a favore delle proprie imprese, sia nazionali sia multinazionali. Meno regole ci sono, e meno dazi e possibilità di imporre dazi da parte dei paesi importatori, più competizione c’è. E quindi, dicono i neoliberisti, più possibilità di sviluppo per tutti. Peccato che le regole che vengono abrogate sono proprio quelle che permettono ai deboli di non competere “alla pari” con i forti. E cioè di non essere totalmente sopraffatti in poco tempo.
Il capitale, libero da molti vincoli che l’avevano limitato nella ricerca del massimo profitto, non solo si orienta ad investire nella competizione, speculando sempre più, sul mercato globale e sui singoli mercati, ma ottiene, attraverso precise decisioni politiche prese negli organismi fuori da qualsiasi controllo democratico, come il GATT (poi WTO), di estendere il mercato sul quale competere anche a comparti e settori fino ad allora completamente pubblici. Infatti i paesi più deboli sono sempre più costretti, per reggere il deficit commerciale, per non soccombere e per non cancellare totalmente la spesa pubblica che pur riducono sempre più, a svendere il patrimonio naturale come giacimenti di materie prime e biodiversità, sistemi ed imprese pubbliche di trasporti, di comunicazione ecc, e perfino il patrimonio culturale e paesaggistico. Inoltre, ma ne parlo solo da questo punto di vista perché il tema è enorme, alla fine degli anni 80 c’è in poco più di due anni (la Cina aveva già cominciato prima) l’intero Est Europeo che entra nel mercato capitalistico. E l’immensità del processo di privatizzazione e allargamento territoriale del mercato da un respiro grande al processo stesso. Conferendogli l’aura di qualcosa di definitivo e infinito presso le opinioni pubbliche del mondo.
Non c’è, infatti, solo la sconfitta del “circolo virtuoso” e della possibilità di ridurre, contenere e superare il capitalismo in occidente. E’ proprio questa sconfitta, insieme alla stagnazione e ai limiti del modello del socialismo reale (non solo e non soprattutto a causa del divorzio crescente fra il bisogno di liberazione delle popolazioni e i regimi ottusi e autoritari che le governano dall’alto) a produrre la fine del socialismo reale in un battibaleno.
I capitalisti diventano sempre più indifferenti al territorio dal quale provengono. Non nel senso di diventare privi di radici e di rapporti politici con il territorio, separandosi da qualsiasi stato nazione, come vuole una vulgata e una cattiva lettura della critica della globalizzazione. Semplicemente diventano liberi dall’obbligo di contribuire in proprio alla qualità del mercato interno accettando l’aumento del costo del lavoro e contribuendo, con forti tassazioni, alla spesa pubblica in welfare, infrastrutture e gestione politica di settori strategici dell’economia. Mentre prima dovevano venire ad accordi e compromessi con il potere politico, che era intestatario del potere di creare le condizioni per la riproduzione del capitale, ora sono loro a costringere il potere politico a favorirli in tutto e per tutto nella competizione globale e a far fronte alla spesa pubblica vendendo sui mercati le imprese pubbliche, le banche, i servizi pubblici, e a tartassare, ove necessario, la popolazione invece che le imprese. Sono ora i mercati e i capitalisti ad avere in mano completamente le leve per garantire o meno la riproduzione del potere politico. Sono loro cioè a decidere nei fatti della rielezione o meno di un governo. Tutto ciò è così vero che ben si vede nel processo di delocalizzazioni, che cominciò in Italia già negli anni 70. I governi devono “concedere” molto, producendo gravi conseguenze sociali, affinché le imprese rimangano sul territorio e non precipitino il paese nella disoccupazione di massa, ma le imprese se ne fregano delle conseguenze sociali delle loro delocalizzazioni e le fanno lo stesso, e i governi per attrarre nuovi investimenti devono produrre condizioni sempre più vantaggiose per il capitale. Per esempio i bassi salari non bastano più, bisogna precarizzare e svalorizzare sempre più il lavoro umano. E costruire infrastrutture risparmiando sulle spese sociali. E così via all’infinito. Anche se tutto ha un limite, speriamo. Non abbiamo più (USA a parte) governi mediatori di interessi e nemmeno alti “comitati d’affari” delle borghesie nazionali che dovevano farsi carico dei problemi del paese, nel bene e nel male. Abbiamo governi “maggiordomi” o “camerieri” o “servi” con funzione di “guardie”, al totale servizio delle imprese nazionali, delle multinazionali e dei loro interessi più immediati. Governi che devono obbedire velocemente.
Ma il tratto ancor più dirompente della nuova fase neoliberista è la finanziarizzazione. Il capitale impiegato nella produzione di merci, come abbiamo già detto, nella fase del “circolo virtuoso” realizzava tassi di profitto troppo bassi. Molte imprese avevano già in quella fase propri settori finanziari che avevano iniziato a svincolarsi dalla mera attività industriale e a indirizzare il capitale in operazioni più redditizie come la rendita fondiaria moderna, investimenti speculativi in borsa e perfino in titoli di stato. Dopo la fine di Bretton Woods, inizia la deregolamentazione delle transazioni finanziarie, visto che la competizione sui mercati internazionali lo richiede imperativamente. Del resto con la libera fluttuazione dei cambi valutari si creano le condizioni per speculare ogni giorno (ogni ora con le nuove tecnologie veloci e praticamente gratuite) con sempre più ingenti masse di capitale scommettendo sulle variazioni di cambio di qualsiasi moneta. E si cancellano nel tempo, negli USA e poi dovunque, tutti i vincoli introdotti dopo il 29 per il settore bancario, come la rigida separazione delle banche di credito che prestavano soldi alle imprese e ai cittadini dalle finanziarie che operavano con investimenti speculativi in borsa. All’inizio del processo le principali finanziarie speculative del mondo erano statunitensi. Ne nasceranno dovunque. E alle scommesse si aggiungono le scommesse sulle scommesse. E così via. Facendo crescere a dismisura il capitale finanziario totalmente separato dalla produzione. Sembra che si possano fare soldi con i soldi. E che grandi e piccoli investitori (in Italia li hanno sempre chiamati risparmiatori, ma in realtà al momento dell’investimento diventano esattamente l’opposto di risparmiatori) possono arricchirsi in breve tempo. Il destino delle nazioni, e della grande maggioranza degli individui (anche quelli che non investono un bel niente) non dipende più dallo sviluppo produttivo, dalla soddisfazione, attraverso il consumo, di bisogni elementari e maturi di società sempre più complesse. Dipende sempre più dagli andamenti dei cambi valutari, dalla borsa, dalla rendita finanziaria. Si diffonde l’illusione che si possa consumare di più di quello che ci si potrebbe permettere attraverso il lavoro. Facendo, appunto, soldi con i soldi. Siccome una parte del capitale speculativo si dedica anche a comprare e vendere imprese, nel processo di concentrazione derivante dalla competizione globale, e a scommettere in borsa sulla capacità di competizione delle imprese, anche queste ultime vedono spesso i propri destini dipendere dalle scommesse che si fanno o non si fanno su di loro e, nel processo di concentrazione e internazionalizzazione delle imprese, l’acquisizione e la vendita di fabbriche e perfino di interi settori produttivi di grandi multinazionali si fanno più secondo la logica degli appetiti speculativi che secondo quella di piani industriali veri e propri.
Tutto questo è alla base della crisi odierna. Perché far soldi con i soldi nel lungo periodo è impossibile. Si può scommettere sulle scommesse a lungo. E indebitarsi molto al di sopra delle proprie possibilità, creando così una crescita completamente virtuale. Ma alla fine se si fanno soldi, da qualche altra parte nel mondo per quanto lontano esso sia o non si veda, ci deve pur essere qualcuno che crea, con il lavoro, il valore sul quale si fonda quello dei soldi. Il giorno che si scopre che quel valore non è stato creato o, come è successo pochi mesi fa, non è scambiabile trasformando il valore della merce in danaro, perché l’acquirente che si è impegnato a comprarlo non è in grado di pagarlo, tutti i titoli di quelli che hanno scommesso sulle scommesse di quelli che hanno investito su una previsione sbagliata perdono di valore. E il sistema crolla. Si può salvarlo per un periodo, semplicemente immettendo nel circuito, e dandoli proprio ai responsabili del disastro, soldi garantiti e non virtuali, da parte degli stati. Con buona pace dei mille liberisti che lo sollecitano contraddicendo ogni loro principio. Distogliendo quei soldi, invece, proprio dalle altre cose su cui andrebbero impiegati. Si tenta, cioè, di rimettere con i piedi per terra lo stesso identico castello speculativo che è caduto rovinosamente. Sapendo che si potrà reggere in piedi sempre per un minor tempo, però. Perché il libero mercato e la libera finanza se non vengono impediti con regole e vincoli, ed anche con la coercizione, vanno alla bolla speculativa come una falena alla luce di notte. Con una sempre maggior velocità.
In Europa, proprio nella culla del “circolo virtuoso”, questo processo neoliberista si sviluppa in modo contradditorio. Un modello economico e sociale che ha accompagnato la ricostruzione dopo la guerra e che ha garantito sviluppo e crescita generale per tutti (nonostante gli enormi problemi e squilibri) non si cancella dalla sera alla mattina. Cominciano a crescere le tendenze di fondo neoliberiste, a partire dalla Gran Bretagna che non a caso all’inizio degli anni 80 sarà la prima ad applicare durissimamente le dottrine neoliberiste, ma esse convivono con gli istituti del welfare, con una forte presenza della stato in economia, ed anche con politiche monetarie comunitarie ancora parzialmente ispirate dallo spirito di Bretton Woods. Per esempio, mentre nel mondo le monete fluttuavano liberamente in Europa viene creato il Serpente Monetario Europeo, che nel 78 diventerà Sistema Monetario Europeo (SME), dal quale la Gran Bretagna rimarrà fuori. Sostanzialmente, non senza problemi, dentro il Mercato Comune i paesi con alta produttività ed esportatori si assumevano il costo, operando sul mercato valutario, di impedire che la bilancia commerciale si squilibrasse eccessivamente con i paesi a bassa produttività ed importatori. Perché alla lunga avrebbe limitato le esportazioni e la stessa crescita dei paesi più forti. Ma, nel corso, del tempo, come era del resto successo con il sistema di Bretton Woods, gli squilibri permisero alla Germania di dominarlo, utilizzandolo sempre più unilateralmente e, data la sua propensione sempre più esportatrice, iniziò fin da subito ad applicare, soprattutto con la sua Banca Centrale, una politica economica neoliberista. Vale la pena di soffermarsi, anche se brevissimamente e aprendo una parentesi, su un fatto praticamente sconosciuto ai molti che parlano a vanvera della Linke e dell’esperienza tedesca. L’unico tentativo di invertire la rotta neoliberista tracciata dalla Banca Centrale Tedesca fu messo in atto nel 98 dal Ministro delle Finanze Oskar Lafontaine, quando insieme al governo francese tentò di avviare una “dialogo macroeconomico” europeo per cambiare gli assi fondamentali delle politiche economiche e monetarie europee, ormai ultraneoliberiste. La Banca Centrale e la Confidustria tedesca lo sconfissero, con l’attivo contributo di gran parte del suo partito a cominciare dal primo ministro Schroder, e dei Verdi. Perciò si dimise dal governo a dalla Presidenza (che equivale alla carica di segretario generale per i partiti italiani) della SPD.
La traiettoria neoliberista seguita nella costruzione europea nel corso di tre decenni richiederebbe una lunghissima trattazione. Non è possibile farla qui. E comunque è stata oggetto di grandi discussioni in occasione della creazione dell’Euro e del tentato varo del Progetto di Costituzione, bocciato nel referendum francese e reiterato come Trattato di Lisbona. Dovrebbe essere patrimonio di qualsiasi persona di SINISTRA. Dovrebbe.
Mi limito a ricordare che dal tentativo di salvaguardare lo “spirito cooperativo” per la stabilità monetaria, che abbiamo lungamente descritto, e di temperare, correggendoli, gli squilibri che in Europa produceva il mercato e la sua logica spontanea, si passa esattamente al contrario. Sul piano mondiale l’Europa diventa, anche in concorrenza “controllata” con gli USA una delle punte di diamante dell’offensiva neoliberista. Infatti adotta una linea, più per responsabilità della Commissione che dei singoli governi, aggressiva e ultraneoliberista verso i paesi del terzo mondo. Apre i mercati finanziari a qualsiasi speculazione e transazione senza alcun controllo. Sul piano interno adotta politiche ispirate da un puro dogmatismo neoliberista, con trattati (Maastricht) che palesemente implementano unicamente la finanziarizzazione, gli interessi dei paesi e delle regioni forti e, naturalmente delle grandi multinazionali, a scapito dei paesi e delle zone deboli. A queste ultime vengono imposti tagli draconiani alla spesa sociale e provvedimenti che trasformano i loro territori in terra di conquista della speculuzione immobiliare e finanziaria.
L’ultimo tema sul quale vorrei soffermarmi, nella descrizione parziale e sommaria della restaurazione neoliberista è quello della guerra.
Come abbiamo detto esiste un legame fra le politiche neoliberiste che negli anni 70 e 80 si affermano, e il crollo dell’Unione Sovietica, del COMECON e del Patto di Varsavia. E’ un punto che andrebbe approfondito. Non è nelle mie capacità farlo. Ma certamente, nel pieno della restaurazione neoliberista che investe l’occidente e di conseguenza tutto il mondo, la fine del socialismo e di economie e sistemi sociali che, per quanto piene di problemi, erano fuori dal mercato capitalistico e dal sistema fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, pone al sistema geopolitico enormi problemi.
In estrema sintesi, gli USA, che come abbiamo visto, hanno mantenuto la loro egemonia politico-militare nel corso dei tre decenni precedenti, scelgono ed impongono a tutti dopo l’89, prima con Bush padre e poi soprattutto con la presidenza democratica Clinton, una linea che si prefigge obiettivi ben precisi. Impedire che l’ONU (altro attore che Keynes e i paesi socialisti avevano sperato diventasse decisivo) si democratizzi e soprattutto, venuta meno la guerra fredda, diventi protagonista, come del resto vorrebbe il suo Statuto, soggetto promotore di pace e di soluzione politica delle controversie internazionali. Impedire che l’ONU e le sue agenzie, come quella sul commercio e lo sviluppo, sulla sanità ecc. possano agire per disturbare gli interessi del capitalismo finanziarizzato. Lo fanno, ottenendo fortissima collaborazione da parte dell’Europa, sia trasformando gli incontri informali del G7, poi G8, in un vero direttorio che sovrasta lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che indica la strada sulla quale tutti devono marciare dal punto di vista economico, politico e militare. Lo fanno trasformando la NATO, che a stretto rigor di logica non avrebbe più motivo di esistere, nel gendarme del mondo che, come succede per la guerra contro la Repubblica Federale Yugoslava, può intervenire militarmente fuori dei propri confini, sulla base di una decisione propria e senza nemmeno che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU abbia discusso di alcunché. Sanno bene i governi degli USA e quelli europei, che gli enormi squilibri che produce e produrrà il modello neoliberista nel mondo non possono che essere “governati” senza democrazia e con la coercizione militare. Del resto i teorici del neoliberismo lo teorizzano apertamente da tempo in sede accademica. Con una minima approssimazione credo si possa dire che tutte le guerre, dalla caduta del muro di Berlino in poi, hanno la caratteristica di produrre instabilità generale e in aree sensibili (balcani e medio oriente per esempio) al fine doppio di giustificare una crescente presenza militare della NATO e dei paesi ricchi e di ristrutturare le relazioni geopolitiche in modo coerente con il dominio del mercato e del sistema capitalistico.
Oggi, nel pieno della crisi, si vede ancor meglio quanto fosse importante strategicamente per gli USA, in gravi difficoltà economiche prodotte dalla incessante tendenza all’indebitamento e dalla forte esposizione alle conseguenze delle bolle speculative connaturata alla concezione dello stato debole in economia, mantenere la propria egemonia politico-militare per se stessi e per il sistema capitalistico mondiale. Le contraddizioni che emergono con forza nella crisi dovrebbero, o potrebbero, produrre la creazione di un ordine mondiale fondato sul multipolarismo (da non confondere con il multilateralismo clintoniano che è solo l’unilateralismo concordato fra i paesi ricchi). Ma lo scontro di civiltà ricercato in ogni modo, e teorizzato due decenni fa da Huntigton come sostitutivo del confronto fra est e ovest e della lotta di classe, e la reiterazione ancor più estremista dei dogmi neoliberisti e della primazia degli organismi come il FMI, dominato politicamente degli USA, unitamente al rilancio della NATO, tendono ad impedire un simile approdo o processo. Tendono, perché in America Latina è aperta la possibilità che si aggreghi un polo geopolitico dotato di un modello economico e sociale non neoliberista e dichiaratamente, in diversi paesi, anticapitalista. E’ la dimostrazione che un altro mondo è possibile. Che dalla crisi irreversibile e strutturale del sistema di può uscire a sinistra. Perciò gli USA e l’attuale governo Obama vogliono eliminare questa possibilità, non esitando ad alimentare la guerra civile in Colombia allo scopo di installare numerose basi militari e a schierare nuovamente (era stata disattivata nel 1950) la IV Flotta al largo delle coste del Venezuela.
Queste 20 pagine riassumono certamente in modo del tutto insufficiente anche i soli tratti salienti dell’enorme processo di ristrutturazione capitalistica nella fase neoliberista. Non avevo, del resto, la presunzione di poterlo fare bene. Ma sono, spero, sufficienti per passare ad analizzare alcuni processi politici e il cambio di significato delle parole che mi sta a cuore chiarire.
Già negli anni 70, all’inizio della restaurazione e della cancellazione progressiva delle esperienze di “circolo virtuoso”, nella SINISTRA italiana avvengono molte cose. Ho già detto della contraddittorietà delle scelte del PCI degli anni 70. Il PSI non ha dubbi e non fa scelte contraddittorie. Decide chiaramente di sposare gli interessi dei settori emergenti del capitalismo finanziario, dedito alla rendita fondiaria moderna. Propugna una modernizzazione del paese, che in realtà non è altro che la riforma complessiva del “sistema italia” affinché possa competere nella giungla-mondo. Lo fa, avendo mantenuto fino ad allora un insediamento e perfino una simbologia operaia, compresi i riti di un partito di SINISTRA. Un lungo saggio del nuovo segretario del PSI, Bettino Craxi uccide Marx e Lenin e rivaluta un incolpevole Proudhon (che si sarà certamente rivoltato nella tomba). Si vedrà bene, nel corso degli anni, quale fosse la vera natura del “socialismo libertario” e contrapposto al vecchiume autoritario comunista. La svolta anticomunista e libertaria del PSI non gli costa nessuna scissione politica. Anzi, una parte dei dirigenti del movimento del 68 (soprattutto di Lotta Continua) ne diventano entusiasti sostenitori. E il PSI sebbene non aumenti molto i propri consensi elettorali riesce a sostituire con nuovi sostenitori l’esodo silenzioso che investe parte della sua base storica. Soprattutto riesce a “pesare” sempre più nella politica italiana. Una vulgata vuole che la tattica di “ALLEARSI” indifferentemente col PCI o con la DC a livello locale e quella di essere partito di GOVERNO e ALLETATO ormai strategico della DC, gli abbia permesso pur con un terzo di voti rispetto al PCI di contare tre volte più di un PCI sempre più isolato ed emarginato sulla scena nazionale. Ma questa è, secondo me, solo una piccola parte della verità. La vera base della forza del PSI, della sua crescente centralità nella vita politica e del suo “peso” risiede, a dispetto della quantità di consensi, nella rappresentanza diretta di interessi emergenti nel capitalismo italiano. Perché leggere i fenomeni politici senza indagarne i nessi con il sistema economico, con la rappresentanza di interessi e con le dinamiche sociali è foriero di gravi abbagli ed errori di valutazione. Il PSI “pesa” sempre più man mano che i settori emergenti del capitalismo crescono, grazie a tutto il processo che abbiamo descritto più sopra. Negli anni 80 siamo già nel pieno del processo di delocalizzazione di grandi fabbriche nei poli industriali. La produzione di merci nella società è stata soppiantata, nella funzione di centro gravitazionale, dalla finanza e dal “terziario avanzato” che è in gran parte legato al mondo della speculazione finanziaria e della rendita fondiaria moderna. Gli operai sono percepiti come una specie in via di estinzione da una opinione pubblica ubriacata dalla novità meravigliosa secondo la quale si possono fare soldi con i soldi. Milioni di persone (ho detto milioni!), anche delle classi meno abbienti, si fermano davanti agli sportelli delle banche ad ammirare i grafici dei listini della borsa sui video, che in tempo reale dicono quanto sta guadagnando il “risparmiatore” che ha investito i suoi soldi (magari l’intera liquidazione) nella speculazione. Il settore delle assicurazioni, delle finanziarie e la trasformazione delle banche in finanziarie dedite alla speculazione, nonché quello della pubblicità, dei mass media televisivi privati e così via, e la cementificazione legata alla rendita fondiaria assorbono buona parte della disoccupazione che ha cominciato a prodursi. La società cambia devvero. Sembra che il nuovo modello modernizzante sia la soluzione di tutti i problemi. Si afferma un “senso comune” secondo il quale la modernizzazione si lascerà alle spalle il vecchio sistema industriale. I suoi difetti come l’inquinamento, i lavori faticosi e ripetitivi, la massificazione della società, la lotta e il conflitto saranno sostituiti da un sistema più moderno, efficiente, si potrà cambiare lavoro cambiando il posto migliorando le proprie condizioni salendo individualmente la gerarchia sociale e non più dovendo lottare per strappare un aumento salariale insieme ad altre migliaia di lavoratori, facilmente si può fondare una piccola impresa commerciale o edilizia giacché il settore tira, nella società si conta non per ciò che si fa bensì per ciò che si consuma sempre più individualisticamente, la solidarietà necessaria fra sfruttati è sostituita sempre più dalla competizione in tutti gli scalini della gerarchia sociale. Ormai ci sono due SINISTRE. Una rappresentata dal PCI che sembra sempre più vecchia e strategicamente perdente (anche agli occhi di una parte del suo gruppo dirigente) perché legata ad una classe che già non ha più la forza contrattuale della fase del “circolo virtuoso” e che diventerà sempre meno importante socialmente e quindi politicamente. E ce ne è un’altra moderna, dinamica, vincente. Che cresce in importanza e che, sebbene le sue dimensioni non dovrebbero permetterglielo, è in grado di contendere alla DC la direzione del sistema politico. Certo, altri piccoli partiti borghesi e parti sempre più grandi della DC si adeguano. Ma gli uni non hanno il vantaggio di coniugare una storia di SINISTRA con le più disinvolte ALLEANZE sul piano degli interessi da rappresentare e gli altri appartengono ad un partito grande, interclassista, cattolico e conservatore e quindi poco coniugabile con i nuovi paradigmi tecnocratici e con “l’edonismo reganiano” sul quale è virato velocemente il progetto ideologicamente “libertario” del PSI. Ancora una volta nella storia è una forza considerata di SINISTRA ad essere la punta di diamante di una restaurazione borghese. E’ proprio un rovesciamento totale del significato delle parole.
Le RIFORME di cui parla il PSI sono in realtà CONTRORIFORME. La SINISTRA incarnata dal PSI è socialmente e anche ideologicamente la DESTRA del pensiero capitalistico dominante. La LIBERTA’ è solo quella individuale competitiva e quella di impresa, non una LIBERAZIONE della classe o delle masse. L’isolamento del PCI non si da solo nel quadro politico, cioè nelle relazioni fra le forze politiche e nella possibilità di ALLEARSI. E’ un processo molto più complesso che ha le sue cause nella perdita di centralità da parte del sistema produttivo e quindi della classe operaia, nella perdita di ALLEATI da parte della classe a causa del trasmigrazione di parti del mondo del lavoro nel settore legato ai settori emergenti e rapaci del capitalismo finanziario e dedito alla speculazione e alla sua galassia di piccole e micro imprese. Culturalmente il PCI ormai fatica a sviluppare “egemonia” in una società nella quale si affermano valori individualistici, competitivi e consumistici fino all’ossessione. Anche perché penetrano nella sua stessa base sociale, fra gli operai, nei quartieri popolari e fra i suoi stessi iscritti.
Già all’inizio degli anni 80 il PCI si era trovato davanti ad un bivio. Ormai il fallimento della politica di “unità nazionale” era chiaro. L’offensiva della FIAT evidenzia due cose precise: a) la volontà del padronato di riconvertire i rapporti di forza facendo della famosa vertenza, anch’essa cominciata con licenziamenti politici come l’ultima di Melfi, il simbolo e la prova che ormai è il capitale all’offensiva e che la classe operaia deve difendersi; b) la classe è isolata, ha perso una parte dei suoi ALLEATI. La famigerata marcia dei 40mila colletti bianchi lo dimostra.
Berlinguer e formalmente, ma solo formalmente, il gruppo dirigente del PCI imboccano la strada a sinistra del bivio. Va ai cancelli della FIAT a condividere fino in fondo le sorti della lotta e della classe. Dichiara finita l’esperienza di “unità nazionale”. Propone la prospettiva dell’alternativa, in netta contrapposizione con l’alternanza già allora teorizzata da Craxi (seppur come semplice avvicendamento fra partiti laici e DC alla guida del governo). Denuncia la degenerazione del sistema politico ponendo la famosa “questione morale”. Ci sono ancora le energie per combattere. Forse ci si può difendere contrattaccando. Ma ci sono due freni che lo impediscono chiaramente dentro il PCI. E’ questo uno dei punti più dolenti da analizzare. Negli anni 70 (come ho detto a torto o a ragione) il PCI sceglie quella strada che abbiamo descritto. Ma su quella strada, essendo un corpo vivo, cambia molto di se stesso. Se la “CULTURA DI GOVERNO” è sempre più legata al “senso di responsabilità” da dimostrare per “salvare il paese”… Se la “difesa delle istituzioni democratiche” diventa difesa astratta dello “STATO” quale esso è, comprese le decisioni autoritarie più inaccettabili sul piano repressivo… Se bisogna mantenere ed estendere i governi locali comunque, indipendentemente da ciò che si può fare di buono, date le nuove condizioni che man mano il superamento del “circolo virtuoso” producono (come succede nella prima giunta di sinistra di Milano del 75 quando il PCI cambia due assessori che fanno una politica invisa a Berlusconi e Ligresti per sostituirli con altri due che finiranno nelle inchieste sulla corruzione e del sacco di Milano)… Insomma se succedono tutte queste cose e decine di migliaia di quadri politici immersi nelle istituzioni si immaginano come classe dirigente e in procinto di cimentarsi con la prova di GOVERNO, proprio nel momento in cui comincia la controffensiva capitalistica, non è difficile capire che cresca l’idea POLITICISTA per cui, senza sentirsi di tradire alcunché, molti pensano che tutto dipenda dalla POLITICA UFFICIALE, dai voti elettorali e dalla capacità di fare ALLEANZE per governare nelle istituzioni. Infatti, all’epoca, nella discussione si parla apertamente del “partito degli amministratori” come della vera anima del PCI.
Queste cose sono freni che agiscono dentro la svolta a SINISTRA del PCI dei primi anni 80. Con silenzi significativi, non applicando e sostenendo le decisioni che si votano, dissentendo sempre più apertamente su riviste di corrente (come “il Moderno”, dei miglioristi lombardi). Berlinguer, che nessuno contesta come segretario, ha una maggioranza reale nel gruppo dirigente ben più risicata di quanto appaia. Forse non l’ha nemmeno più.
Il PSI, dal canto suo, incrementa la svolta a destra. Il pentapartito è ormai l’espressione delle forze laiche totalmente identificate con il nuovo corso dell’economia e delle correnti democristiane che le seguono sullo stesso terreno. E’ una curiosa ALLEANZA strategica, molto competitiva all’interno e instabile circa la leadership della stessa, giacché la DC è riluttante a cederla a chicchessia. Ma questa competitività interna al pentapartito e gli scontri che ne derivano, nel nuovo contesto e data la reale aderenza di tutti al neoliberismo, monopolizzano la politica. È l’anticipazione, nel sistema proporzionale, di una dialettica politica anche molto aspra che però avviene sulla base di scontri personalizzati senza che nessun cardine della politica economica e sociale venga messo in discussione. Addirittura, apparendo le politiche neoliberiste come egemoni ed indiscutibili, per molti versi questa dialettica tende a sussumere perfino quella che dovrebbe esserci fra maggioranza ed opposizione. Il gioco politico si consumava ed esauriva li dentro. Craxi ne era cosciente. Molti a SINISTRA pensavano e dicevano: “speriamo che Craxi sconfigga la DC.” “Meglio Craxi che De Mita.” Tutto ciò oscurava la vera natura restauratrice del progetto craxiano. Se invece che analizzare i contenuti della politica praticata si giudicavano le forze secondo concetti e parole ormai dal significato cangiante era facile scambiare il PSI come la SINISTRA DI GOVERNO possibile. Del resto il PSI comincia a teorizzare il superamento della prima repubblica, è sempre più incline al Presidenzialismo, e decide di forzare la situazione con una spallata. La cancellazione dei 4 punti di scala mobile (pochissime migliaia di lire sulla busta paga) sancisce la sconfitta del movimento operaio, ne distrugge la forza contrattuale visto che da quel momento dovrà lottare non più per incrementare il salario bensì per difenderlo, chiarisce che il lavoro è una merce il cui prezzo è legato esclusivamente alla produttività e al profitto e non può in nessun caso essere considerato una “variabile indipendente” da questi fattori. Determina, infine, che nella competizione che comporta svalutazione della lira ed inflazione sul mercato interno a pagare il prezzo più alto dovranno essere i lavoratori. Ovviamente la discussione, da parte dei sostenitori del provvedimento, è inquinata dalla presunta “oggettività” e necessità dello stesso, da un falso minimalismo (ma come! Tutto questo casino per poche migliaia di lire!) e soprattutto dall’accusa al PCI di fare demagogia, di aver abbandonato il “senso di responsabilità” che pure era stato così apprezzato in passato. Sono gli stessi argomenti che sempre più fortemente vengono usati nella discussione interna al PCI. Dov’è finita la politica di UNITA’ DELLA SINISTRA? Dove il “senso di responsabilità”? Dove è sparita la CULTURA DI GOVERNO? Dove ci porterà questo scontro frontale con i socialisti? All’isolamento, senza più capacità di ALLEANZE! In alcune federazioni i gruppi dirigenti locali, invece che organizzare e promuovere i Comitati per il SI al referendum che sarà poi promosso dal PCI, raccoglievano firme di iscritti e personalità dell’area del PCI che dichiaravano il NO.
Basta leggersi il Programma di Licio Gelli per capire come da allora in poi, ogni volta che si parlerà di modernizzazione del paese, del sistema politico e delle istituzioni, ricorreranno le proposte in esso contenute. Fino ai giorni nostri. Ma non si trattava solo e nemmeno prevalentemente di un complotto, per quanto sia intrisa di manovre oscure ed inconfessabili la vicenda della P2. Il sistema italiano, il “circolo virtuoso”, il PCI come forza anticapitalista dotata di un vastissimo consenso, e soprattutto Costituzione, natura parlamentare della Repubblica, dovevano essere per forza rimossi per permettere il dispiegarsi delle politiche neoliberiste. Con qualsiasi mezzo.
Il PCI si tolse di torno da se. Già dopo la morte di Berlinguer e la sconfitta del referendum la maggioranza del gruppo dirigente fa un compromesso fortemente orientato a destra. Lo scontro con i socialisti continua, soprattutto per volontà di questi ultimi che alternano attacchi durissimi a profferte unitarie sulla base della loro egemonia, ma appare sempre più come una sorta di contrapposizione priva di contenuti che non siano la collocazione nel quadro politico. Oramai la separazione del PARTITO dalle sorti dei suoi referenti sociali è evidente nell’ansia di “GOVERNO” che un corpo politico di dirigenti nazionali e locali non nasconde più. I socialisti che per un decennio hanno attaccato, non a caso, Togliatti e chiesto al PCI una svolta ideologica cominciano ad ottenerla. Per quanto Occhetto parli di SINISTRA DIFFUSA, di COSTITUENTE di un NUOVO PARTITO DI SINISTRA, e sembri proporre svolte di SINISTRA come quella che dovrebbe farla finita con il “consociativismo” e quella “ambientalista”, in realtà si prepara solo la rimozione dei simboli e dei cardini sociali ed ideologici che avevano mantenuto sempre il PCI nell’ambito della opzione politica anticapitalista. Ma sulla fine del PCI, come sulla nascita di Rifondazione, non dirò più nulla. Sono temi che mi porterebbero fuori dalla strada che ispira queste riflessioni e comunque meritevoli di ben altri approfondimenti.
Seconda fase, parte seconda.
E’ così che si arriva alla cosiddetta SECONDA REPUBBLICA.
Dopo la caduta del Muro di Berlino il capitale trionfa. Non solo si espande in una parte del territorio del pianeta prima escluso dal mercato e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma si dimostra che non esiste alternativa al sistema. E che quindi la Storia è finita. E’ la fine delle ideologie, perché ha trionfato quella egemone nel mondo. Ci possono essere mille sfumature, ma solo nell’ambito dell’idelogia vincente, che non a caso i resistenti chiamano spregiativamente “pensiero unico”.
Il PDS non è il PCI che ha cambiato nome, separandosi dal vecchiume comunista che per giunta viene accusato di non essere certamente l’erede del meglio della tradizione del PCI, che subisce una rilettura revisionistica, fino alla tesi che in realtà il PCI non è mai stato comunista (sic!), bensì socialdemocratico. Il PDS aderisce all’Internazionale Socialista e al Partito Socialista Europeo proprio nel momento in cui diventano la punta di diamante politica dell’offensiva neoliberista in Europa e nel mondo. Sposa l’idea che è necessario “modernizzare” e rendere efficiente il sistema politico attraverso riforme elettorali maggioritarie. La Lega delle Coorperative ormai è un colosso capitalistico, che applica nelle proprie aziende relazioni sindacali perfino peggiori di quelle confindustriali, i suoi settori finanziari ed assicurativi fanno parte del vorace capitalismo speculativo, i settori edilizi partecipano al banchetto. Il sindacato decide di assumere in tutto e per tutto le compatibilità del sistema neoliberista. Non più solo contrattando difensivamente i “sacrifici necessari a salvare il paese”, che non finiscono mai, ma partecipando, con la concertazione a renderli istituzionali, permanenti e praticamente indiscutibili nella contrattazione aziendale. In dieci anni siamo passati dal taglio di “poche migliaia di lire” all’accordo secondo il quale i sindacati si impegnano a contenere le richieste di aumento salariale nell’ambito dell’inflazione programmata, e cioè molto al di sotto della inflazione reale. Non si può nemmeno più lottare per conservare il potere d’acquisto del salario. In seguito accetteranno la riforma pensionistica e la conseguente istituzione dei fondi pensione, che nel mondo stanno diventando una leva immensa della speculazione finanziaria. La competizione esasperata ha prodotto un maggior disequilibrio fra i diversi paesi europei, e l’ingresso dei nuovi paesi è voluto, si dice per motivi politici, ma “permesso” solo se questi ultimi prima di entrare si ristrutturano trasformandosi in terra di conquista per le multinazionali, ma anche per le piccole imprese italiane, e soprattutto per il capitale finanziario e speculativo. All’interno dei singoli paesi cresce lo squilibrio fra zone che competono e zone che non reggono la competizione. Essendo i mercati liberi la funzione di mediazione e di riequilibrio dello stato si riduce fortissimamente. Per questo, e solo per questo, diventano tutti federalisti. PDS in testa. Tutta la retorica dell’autogoverno locale, dei rappresentanti più vicini ai cittadini, della democrazia moderna ed efficiente, riposa su una idea di riforma dello stato che deve accompagnare e implementare l’uccisione di quel che resta del “circolo virtuoso” per permettere ai “sistemi impresa” locali delle zone ricche di competere con le zone ricche in Europa e nel mondo, e alle zone deboli di competere con le zone deboli, mettendo a disposizione del mercato tutto al fine di attrarre investimenti. Povero Altiero Spinelli!
Ma nel sistema politico italiano il PDS è considerato di SINISTRA. Qualcuno mi vuol dire cosa c’entra quello che il PDS ha teorizzato e fatto negli anni 90 con la SINISTRA, sempre che la SINISTRA sia quella di cui abbiamo parlato nel corso di questo scritto?
Io, come si vede, non parlo nemmeno del fenomeno della destra italiana e della ristrutturazione del sistema politico nel periodo di tangentopoli. Sarebbe necessario, per la completezza del ragionamento, ma la trattazione sarebbe così lunga che non finirei più. E comunque sono abbastanza scontati perché molto discussi e trattati. Mi sta a cuore approfondire alcuni elementi che secondo me sono quasi totalmente sottovalutati o volutamente omessi dalla discussione attuale.
Il PDS compete con la destra? Si, certamente. Ma non per migliorare le condizioni di vita degli operai, degli impiegati, dei pensionati, degli studenti e così via. O meglio, dice di volerlo fare. Come del resto lo dice la destra. O forse che Berlusconi che promette posti di lavoro e la Lega che promette che cacciando gli immigrati ci saranno risorse per gli italiani, non lo fanno? Ma il PDS attacca la destra accusandola di fare demagogia. Dice esplicitamente che è il tempo dei sacrifici, dei tagli di bilancio per ridurre il debito pubblico e per stare negli accordi di Maastricht. Dice che il sindacato deve “concertare” e non configgere. Dice che per competere bisogna rendere “flessibile” il mercato del lavoro. Dice che bisogna privatizzare tutto. Dice che bisogna aumentare la spesa militare e partecipare alle missioni militari (cioè alle guerre) per continuare ad essere un paese “importante”. Dice che bisogna “modernizzare” la Costituzione. La GOVERNABILITA’ diventa il tutto! E dice che senza fare queste cose, ed altre che ometto per brevità, non è possibile ricreare le condizioni affinché dello “sviluppo” tornino ad avere qualche vantaggio anche le masse popolari. E’ la politica dei due tempi. Ma il secondo tempo non viene mai, e non può venire per il semplice motivo che il primo tempo distrugge sempre più i presupposti del secondo.
Torno a chiedere: è di SINISTRA tutto questo? Sfido chiunque a dirmi e dimostrarmi che ho esagerato.
E’ ispirato dal SETTARISMO descrivere così questa realtà, in sede analitica? Io penso di no. Però penso che sia SETTARIA l’idea che basti dire che il PDS non era di SINISTRA, dando vita ad una disputa nominalistica, per fare e possibilmente vincere una battaglia politico-culturale. Tuttavia senza avere chiaro in testa cosa sia veramente di SINISTRA e cosa no è facile fare un errore madornale. Pensare, cioè, che la politica delle ALLEANZE nella sfera della politica unifichi nella società un blocco sociale che accumulando forze diventi in grado di produrre nuove conquiste e di cambiare, anche solo minimamente, la realtà.
E’ il grande equivoco degli anni 90. Noi decidemmo, giustamente, di stare ai contenuti e di non diventare SETTARI, per non cadere nell’illusione che la denuncia delle contraddizioni e l’accusa al PDS di non essere di sinistra potesse risolverci il problema. I nostri referenti sociali erano piegati, sconfitti, le loro condizioni di vita erano peggiorate e continuavano a peggiorare, le loro organizzazioni sociali, come il sindacato, stavano sempre più fra quelli che gli predicavano sacrifici e che giustificavano sconfitte, nel mondo trionfava il capitalismo, il senso comune era ormai degenerato in individualismo, razzismo, xenofobia. Bisognava parlare di contenuti, di lotte. E bisognava farlo sapendo di non essere un partito di massa. Né per la quantità degli iscritti e dei voti né, tanto meno, per i legami diretti con la classe, con la società, sempre più isolata e indebolita l’una e sempre più disarticolata e atomizzata l’altra. Alcuni credevano che bastasse alzare una bandiera, perché pensavano che l’isolamento della classe e l’egemonia della destra nella società fosse soprattutto il prodotto di un fatto politico: la scomparsa del PCI. Mentre, come abbiamo visto, era vero esattamente l’opposto. Era il PCI ad essere stato cancellato per effetto della controffensiva del capitale che gli aveva tagliato le gambe nella società e che aveva messo di fronte ad un secondo bivio il suo gruppo dirigente. O resistiamo e ci scordiamo per un lungo periodo il GOVERNO e la nostra ascesa a “classe dirigente” o ci adeguiamo, separiamo il nostro destino da quello della classe e diventiamo una opzione realisticamente in grado di GOVERNARE il sistema dato, come esso è, circoscrivendo la nostra alternatività alla destra sui metodi di gestione del sistema, sui tempi e anche sullo “stile” di GOVERNO, ma non sulla sostanza. E’ abbastanza difficile pensare che se il gruppo dirigente del PCI avesse, diciamo così, tenuto duro e continuato a sviluppare una politica anticapitalista, avrebbe avuto davanti una strada in discesa. Molto sarebbe cambiato, certo. Ma non l’essenziale. Perché nelle condizioni internazionali e con la fine del socialismo reale, con la ristrutturazione capitalistica e la competizione totale, si sarebbe aperta una fase difensiva. E quando ci si difende, magari per decenni, in condizioni sempre più difficili, si finisce con l’indebolirsi. E alla fine si diventa sempre più isolati e percepiti come inutili al fine di migliorare le condizioni di vita della gente in carne ed ossa. Nella storia bisogna sapere quando si può avanzare e quando si deve resistere. Se si pensa di avanzare senza aver prima resistito, o se si pensa di avanzare invece che resistere quando resistere è imprescindibile, è matematico che ci si trova dall’altra parte della barricata. Parimenti, quando stai in una trincea a difenderti e vedi disertare una buona parte dello stato maggiore e della truppa, per quanto tu gli gridi “traditori” e loro ti rispondano dall’altra trincea “vieni anche tu che così non ha perso nessuno” tu sei più debole e quelli che vuoi difendere dietro di te, per quanto ti dicano “meno male che ci sei” o “almeno tu sei coerente” e pensino che tu sei uno di loro percepiscono che perderai. Con onore, ma perderai. E questo, in politica, è esiziale.
Ciò che devi fare è resistere, si. Combattere, si. Ma devi avere una strategia per uscire dalla resistenza sempre più passiva, per contrattaccare e possibilmente per vincere qualche battaglia. Al fine di tornare ad accumulare forze.
Magari devi passare alla guerra di movimento. Alla guerriglia. Fuor di metafora, se sei un partito di massa, con profonde radici nella classe e legami sociali, e se combatti su un terreno favorevole come il “circolo virtuoso” a tua volta instauri un “circolo virtuoso”. Conquisti parti importanti per un blocco sociale alternativo e sei in grado di fare una ALLEANZA con altri perché l’unità quando si avanza e si vincono battaglie importanti è relativamente facile costruirla. Mentre quando si arretra e perde, si deve resistere per un lungo periodo in condizioni difficili e si fatica a vedere una via d’uscita, è molto difficile. Molto.
Rimandiamo, per il momento, il tema di come si possa resistere e passare alla controffensiva. Perché in realtà la metafora che ho usato è incompleta e può essere perfino fuorviante.
Negli anni 90 oltre alla ristrutturazione del sistema economico e a tutto il processo di modificazione del modello sociale che abbiamo solo parzialmente descritto, in Italia, proprio per l’alto tasso di incompatibilità del sistema politico parlamentare e dei poteri reali del governo con la “necessità” imposta dalle nuove condizioni economiche l’attacco alla democrazia politica è stato furibondo. In Italia, al contrario di altri paesi che hanno già sistemi politici pronti per essere usati alla bisogna nella nuova fase capitalistica, il sistema politico deve essere cambiato radicalmente. Nei paesi retti da bipartitismi già interni alla pura logica della gestione e del governo dell’esistente come gli USA, o in paesi con sistema bipartitico dove uno dei due partiti ha una storia e un insediamento di SINISTRA come la Gran Bretagna, i sistemi politici possono tranquillamente rimanere come sono. Anzi, diventano dei modelli a cui ispirarsi proprio perché, nonostante abbiano sistemi elettorali immutati da quando votavano solo poche centinaia di migliaia di persone perché erano nei fatti la classe dirigente del paese, sono più congeniali a incanalare il consenso unicamente dentro il GOVERNO dell’esistente con la rapidità e il grado di autonomia delle istituzioni dal conflitto sociale necessari a prendere tutte le misure imposte dalla competizione globale delle imprese e della finanza. In Gran Bretagna basta che il Labour Party si trasformi. Non c’è bisogno di cambiare il sistema. Infatti il Labour abbandona, oltre a qualsiasi riferimento alla lotta di classe ecc. anche la sua idea proporzionalista della riforma elettorale. Così è in molti altri paesi, che hanno leggi proporzionali, fortemente proporzionali, o sostanzialmente proporzionali, ma dove la storia ha creato un bipartitismo di fatto. Spagna e Germania, per esempio. Anche qui basta che uno dei due partiti diventi anch’esso neoliberista e il gioco è fatto. In Italia no, non è così. Qui c’è un sistema parlamentare. Le leggi si fanno in parlamento. La rappresentanza è eletta sulla base della scelta da parte dei cittadini, motivata dal complesso di fattori che identificano una proposta politica, sociale, culturale e anche ideologica. La rappresentanza degli interessi, per quanto mediata dai fattori appena detti, è ben visibile e si riflette, almeno per tre decenni e più, direttamente nella linea di condotta dei partiti in parlamento. Soprattutto il gioco politico delle ALLEANZE e degli scontri fra le forze politiche si fanno a valle del voto popolare, proprio nella attività parlamentare. Il che rende deboli i GOVERNI, e cioè esposti a ciò che si muove nella società e si riflette nella rappresentanza istituzionale. Le ALLEANZE sono sempre a geometria variabile perché la realtà sociale che cambia influisce. Come ha fatto l’Italia a diventare la sesta potenza economica del mondo pur cambiando due tre o anche quattro volte il GOVERNO nel corso di una legislatura? Da un punto di vista strettamente strumentale la fase del “circolo virtuoso” si sarebbe bloccata con la legge truffa. Con un parlamento stabilizzato dentro il bipolarismo le lotte non avrebbero avuto la possibilità di incidere, magari determinando la caduta di governi e nuove ALLEANZE fondate sulla base dei nuovi equilibri sociali. E quelle lotte sconfitte avrebbero bloccato il “circolo virtuoso” perché in assenza di aumenti salariali indiretti e garantiti dallo stato (welfare) il mercato interno si sarebbe bloccato. E con esso il sistema. In realtà la stabilità di governo intorno alla DC c’è sempre stata. Il ricambio continuo dei governi, al contrario di tutta la litania cantata per giustificare il maggioritario in Italia (come si fa ad avere un paese che cambia governo due volte all’anno?), è stato proprio uno dei fattori che ha permesso una sostanziale stabilità del sistema, perché la politica e i governi si adattavano e seguivano le mutazioni sociali continuamente. Perché, altrimenti, il popolo italiano avrebbe votato così tanto ad ogni elezione, ben al di sopra della media di tutti gli altri paesi dell’OCSE? Perché con il voto si contava, si sapeva che si influiva sulla realtà economico-sociale del paese e sulla propria condizione di vita. Non si votava per un leader e per le sue promesse demagogiche, tanto meno per orientare il gioco delle ALLEANZE e degli scontri fra partiti nelle istituzioni. Quella dimensione c’era, ovviamente. Ma dipendeva strettamente dal legame della politica e di quella stessa dialettica a tutto ciò che si muoveva nella società. Ed infatti, nonostante tutto, era una dialettica seria, rigorosa, e sebbene molto tecnica e sofisticata, infinitamente più chiara e comprensibile da parte dei cittadini e delle classi sociali rispetto al teatrino spettacolare dei giorni nostri. Le grida e gli insulti, le curve contrapposte, i leader, la demagogia e le “speranze” che sono in grado di suscitare, non hanno reso la POLITICA più chiara e comprensibile, in modo da permettere ai cittadini di scegliere, al momento del voto, sulla base di ragionamenti e di interessi precisi, e sulla base della vicinanza a idee e proposte. Al contrario li hanno fatti diventare sempre più spettatori passivi del “gioco politico” riservando a loro solo il diritto di poter fare il tifo per uno dei due contendenti. Anche per il più tifoso il grado di partecipazione alla formazione delle decisioni e dei veri contenuti delle scelte politiche è stato ridotto quasi a zero. Ma torniamo alla STABILITA’ di GOVERNO. Alla GOVERNABILITA’. Essa diventa il mantra ripetuto ossessivamente per anni e anni. Bisogna, infatti, con una tipica operazione mistificatoria, accompagnare l’indebolimento della funzione di governo, molte delle cui prerogative nella fase del “circolo virtuoso” sono fuggite semplicemente verso le pure dinamiche di mercato, verso organismi internazionali a-democratici e sovrastanti i governi nazionali, verso i privati ai quali si sono vendute le imprese statali, verso la banca centrale europea, verso la finanza (“i cittadini votano ogni tanto ma la borsa vota tutti i giorni” ha detto un noto premier italiano) e così via, al rafforzamento dei poteri del GOVERNO nei confronti del parlamento e in generale della società. In realtà questo rafforzamento del GOVERNO non serve ai “politici” per darsi più importanza. Al contrario di quel che credono molti neofiti adoratori del potere in quanto tale che si mettono la parola GOVERNO e GOVERNABILITA’ in bocca ogni frase che dicono e qualsiasi tema affrontino. Il rafforzamento del GOVERNO è proprio una necessità oggettiva del capitalismo e del modello sociale neoliberista. Esattamente, mi si permetta il paragone, come la guerra lo è per GOVERNARE il mondo trasformato in un grande mercato. Nel sistema del “circolo virtuoso” il compromesso sociale cui era stato costretto il capitalismo, come ho già detto, prevedeva una forte funzione di governo politico e pubblico dell’economia. Ora la funzione è rovesciata. L’economia comanda sulla politica, la orienta la dirige. Quindi c’è bisogno di un esecutore. Di un “amministratore” politico. Non di un luogo di decisione nel quale si media fra interessi anche contrapposti recependo, seppur in forma spesso squilibrata, i rapporti rapporti di forza sociali. Bensì di un luogo dove si amministrano le conseguenze di decisioni “oggettive” ed indiscutibili. I rapporti di forza sociali, le domande, le proteste, le rivendicazioni, sono da tenere fuori dalla porta. Sono incompatibili con la funzione di GOVERNO. E quando le decisioni applicate dal GOVERNO sono talmente stridenti (e cioè capaci di incrinare il consenso elettorale) con la coesione sociale si allargano le braccia e si indicano con l’indice i veri responsabili che impediscono al GOVERNO di ascoltare la società: “l’ha detto il FMI! L’ha detto la Banca centrale europea! L’ha detto la borsa! l’ha detto Marchionne!”. Di più, le rivendicazioni sociali, le lotte, devono diventare impolitiche. Devono cioè, essere impedite di pretendere una qualsiasi cosa che metta in discussione l’economia e le decisioni che il GOVERNO amministra. Per questo gioco il bipolarismo e il sistema elettorale maggioritario sono perfetti. L’alternanza (e non l’alternativa ovviamente) dei governi che condividono le compatibilità del sistema riduce lo spettro delle decisioni cui i cittadini, con le lotte e con il voto, possono partecipare alla mera scelta di chi amministrerà le decisioni del FMI. Dentro questo spettro c’è spazio per scontri epici nei talk show, per contrapposizioni mortali, per colpi bassi di ogni tipo. La realtà sociale deve essa conformarsi a questo spettro, non può pretendere di allargarlo a scelte che possano mettere in discussione il sistema. Se qualcuno tenta di farlo basta dirgli che farebbe cadere il governo in carica favorendo l’altro schieramento. Lo si mette fuori dalla POLITICA in quanto la POLITICA ufficiale ormai è solo la cosa che si occupa di chi amministra l’esistente e delle mille manovre e scontri per sedersi al GOVERNO. Le ALLEANZE non sono sociali fra classi e ceti e settori e categorie che trovano nella ALLEANZA delle rappresentanze e in decisioni proprie del GOVERNO un coronamento politico e la realizzazione di obiettivi concreti. Le ALLEANZE sono coalizioni capaci di conquistare il GOVERNO. Se per caso, come è successo in Italia, per conquistare il GOVERNO è necessario ALLEARSI anche con una forza che propugna il cambiamento e che palesa una CULTURA DI GOVERNO incompatibile con il governo dell’esistente questa viene massacrata. Non dimenticherò mai quando dal 96 al 98 in Europa ci fu un fenomeno per cui tre governi contenevano forze che ponevano una anche solo timida inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberiste. Il governo francese pose problemi al trattato di Maastricht, varò la legge delle 35 ore, solo per dire due cose. Nel governo tedesco il ministro dell’economia che era anche il Presidente della SPD e vice primo ministro tentò di mettere in discussione, in accordo con il sindacato (beato lui), le politiche monetariste della banca centrale tedesca ed europea, e noi chiedemmo al governo che viveva grazie ai nostri voti poche e limitate cose. Nel volgere di pochi mesi Lafontaine fu scaraventato fuori dal governo, noi pure con l’accusa che i lib<br/>fonte: <a href="http://ramonmantovani.wordpress.com/2010/09/05/perche-dovremmo-dividerci-fra-settari-e-governisti-ovvero-una-lunga-dissertazione-sul-senso-delle-parole-e-delle-azioni-2/">Blog Ramon Mantovani</a>Maria Rosaria CARFAGNA: «Ho fatto la presentatrice e non me ne vergogno. Qualcuno, invece, dovrebbe vergognarsi di aver fatto il funzionario del Pci»2010-02-14T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it477970Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: FI) - Ministro Pari opportunità (Partito: PdL) <br/><br/><br />
«Io non mi vergogno di aver fatto la presentatrice, che è un bellissimo mestiere. Qualcuno, invece, dovrebbe vergognarsi di aver fatto il funzionario del Pci».
<p> Lo ha detto il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, parlando a Napoli, ad un convegno elettorale con il candidato presidente del Pdl, Stefano Caldoro, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, facendo un riferimento indiretto al passato politico del candidato del centro sinistra per la Regione Campania, Vincenzo De Luca.<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.ilmessaggero.it/stampa_articolo.php?id=91269">Il Messaggero.it</a>Marco PANNELLA: Radicali? «Siamo solo noi» - INTERVISTA2009-06-03T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it391442Alla data della dichiarazione: Deputato Parlamento EU (Gruppo: ALDE) <br/><br/><br />
Si incazza Marco Pannella perché il palco copre la statua di Giordano Bruno, si incazza e poi si avvolge in un lungo discorso sull`attualità del gran nolano.<br />
Ieri pomeriggio a Campo de` Fiori. Pannella fa una scena delle sue, dice che è costretto a interrompere il comizio perché deve correre da Emma Bonino che tutta sola sta occupando la Rai a Saxa Rubra. Parlava già da quasi un`ora. Spiegava a un paio di centinaia di persone l`azione di Emma che ieri mattina, dopo aver registrato il messaggio elettorale dei radicali, aveva deciso di non andarsene più dallo studio tv. E non se ne vuole andare «fino a che non sarà riparato l`attentato ai diritti civili dei cittadini».<br />
I radicali attendono che la tv pubblica obbedisca al garante delle telecomunicazioni che ha ordinato un «riequilibrio» in favore della lista «con specifiche interviste di riepilogo informativo». <br />
E per questo ottanta militanti del partito stanno facendo lo sciopero della sete e della fame. <br />
Pannella no, Pannella ha appena finito. Da tre giorni ha ripreso a mangiare e bere, è stato in tv, si è messo a girare per comizi puntando a un difficilissimo 4%. Stella gialla sul taschino della giacca, 79 anni, tira tardi nella sede al terzo piano di via Torre Argentina dove la sera di lunedì abbiamo tentato di intervistarlo.
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«Prima della prima domanda vorrei dire io una cosa eccessiva. E cioè: ci troviamo in condizioni storiche nelle quali noi con la nostra esperienza e la nostra resistenza di questi decenni abbiamo il diritto e il dovere di chiudere il sessantennio partitocratico.<br />
Proprio noi, senza radicamento, con percentuali molto basse, ci candidiamo a succedere e per questo chiediamo il voto».
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<b>Cominciamo?</b><br />
«Cominciamo. E però vorrei avvertire che questa volta non è come la volta scorsa quando abbiamo accettato - e io con grande tormento - di andare col Pd dovendo subire il veto di Veltroni che ha permesso a Di Pietro di fare la lista e a noi no. <br />
Questa volta magari il 4% non lo prendiamo però abbiamo già fissato una Chianciano 2 a fine giugno dove abbiamo invitato tutti i partiti. <br />
Non crepiamo manco stavolta. Magari non riusciamo a mantenere questa unica sede che abbiamo, la paghiamo dal 1985. <br />
Noi non abbiamo mica i problemi di Rifondazione che quando si è spaccata si è dovuta dividere migliaia di sedi».
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<b>Non sarà che fare tutta la campagna elettorale battendo solo sullo squilibrio dell`Informazione tv non paga?</b><br />
«Ma quando mai, sfido a trovare anche fuori dall`Italia discorsi di qualità europea come quelli che fa il nostro Aldo Loris Rossi. Lui è l`unico euromeridionalista. E noi siamo gli unici a parlare dei corridoi europei dei trasporti.<br />
In Normandia stanno costruendo una ferrovia che in 22 giorni arriva a Pechino. <br />
E ti saluto Italia, non ci vogliono più i 43 giorni navali. Dicono che in aereo le merci si trasportano prima? <br />
Ma il treno non inquina. Certo non ci fanno andare in televisione a spiegarle queste cose».
<p>
<b>Ma quando in pochi giorni lei è stato prima da Santoro e poi da Floris ha parlato dl nuovo di informazione negata.</b><br />
«Io sono stato felice che il presidente della Repubblica non abbia fatto il mediatore e l`arbitro com`è nella mia visione liberale, ma il garante perché ha riconosciuto che se a 20 giorni dal voto solo il 3% degli italiani era a conoscenza della lista Bonino-Pannella non era più un problema nostro, del partito. Ma della democrazia italiana che si stava andando a fare fottere. Poi io da partigiano colgo le occasioni che ho. <br />
E sono andato a denunciare alcuni fatti oggettivi, incontestabili. E cioè che la prima repubblica ha distrutto la democrazia e la costituzione in termini reali.<br />
È tutto scritto nel documento la Peste italiana che abbiamo fatto noi. E abbiamo potuto farlo perché non siamo masi stati soci partitocratici, ma solo e sempre l`opposizione della maggioranza e l`opposizione dell`opposizione».
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<b>Siete stati anche maggioranza con la maggioranza, e con Berlusconi.</b><br />
«Abbiamo vissuto anche dall`interno e con grande coerenza. Noi lì abbiamo fatto un tentativo per tre anni, dal`93 al `96, così come abbiamo tentato sempre con il Pci quando c`era il Pci: Non è che ci siamo alleati con Berlusconi, abbiamo avuto un`iniziativa verso di lui così come l`abbiamo avuta anche con la Lega se è per questo e verso tutti i fenomeni sociali. <br />
Ma siamo sempre stati autonomi, era lui che firmava i nostri referendum. Io gli ho scritto cinque lettere, con questa Olivetti qui, e lui si lamentava che non riusciva a leggere ma io continuavo sadicamente, per ricordargli guarda che non hai ancora firmato...».
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<b>Alla fine è stato un errore?</b><br />
«Siete voi che non avete capito niente di Mediaset. Bisogna leggerlo il libro 'Il baratto'. <br />
I socialisti erano solo gli stronzi che coprivano il vero accordo Pci-Mediaset. <br />
E Veltroni era il garante di tutto questo. Berlusconi è un prodotto della continuità partitocratica, è l`ultimo del sessantennio».
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<b>Cioè non è così pericoloso?</b><br />
«Altro che se è pericoloso. Altrimenti me ne andrei in giro con la stella gialla?<br />
Stiamo dicendo che questa è la classica situazione in cui può succedere di tutto, anche quello che è già successo ma in forme nuove.<br />
Siamo alla metamorfosi del male fascista. Berlusconi è straordinario ma non è il genio del male. Si muove nel vuoto della democrazia, ha l`improvvisazione populista e ignorante ma non ha originalità. Insegue gli istanti e in questo momento è in difficoltà. <br />
La stella gialla significa sei milioni di morti ebrei ma anche undici milioni di morti tedeschi tra i quali il capo, Hitler, che ha fatto la fine del topo».
<p>
<b>Se la situazione è questa com`è che non fate fronte con nessuno? Litigate con tutti invece di cercare alleanze?</b><br />
«E con chi mi dovrei alleare, con le frattaglie? Con i compagni socialisti che nelle ultime sette elezioni hanno cambiato sette alleanze. <br />
Con Nichi Vendola che è stato lui a dire che siamo `incompatibili`? <br />
Il regime si scegli l`opposizione di comodo. L`altra volta avevano scelto Bertinotti, per dieci anni, e infatti è andato 71 volte a Porta a Porta e io 5.<br />
Stavolta si sono scelti Di Pietro. Tonino non fa paura». <br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=MDF3P">Il Manifesto - Andrea Fabozzi</a>Francesco COSSIGA: «La sinistra non c`é più, ora rischiamo» - INTERVISTA2009-05-19T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it391279Alla data della dichiarazione: Senatore a vita<br/><br/><br />
Sfida al segretario del Pd: «È meglio che ti ricolleghi presto con gli extraparlamentari»
<p><b>Presidente emerito Francesco Cossiga, so che mi aspetta al varco.</b>
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«Lei vorrebbe che dicessi: l`avevo detto... Non mi faccia così stupido o vanesio. Era nelle cose.
Ma è sempre giusto ricordare che il terrorismo cominciò così magari con una spallata, giocando alla cacciata di un Rinaldini anche se adesso tutto è diverso.
E la minaccia riguarda solo l`ordine pubblico».
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<b>Consigli a chi di dovere?</b>
<p> «No, mi pare che la tattica di contenimento che stanno seguendo le forze dell`ordine sia giusta. Altrimenti si aggiungerebbe violenza a violenza».
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<b>Però lei a Bologna, dopo la contestazione al segretario della Cgil, Luciano Lama, mica ci andò giù leggero.</b>
<p>
«Le ripeto, tutto è diverso. Allora io e Ugo Pecchioli cercammo di convincere Lama a non andare...
Lui, socialista in origine e di gran lunga il più bravo, pensò che il suo ascendente e il suo prestigio sarebbero stati una buona corazza. E invece...».
<p>
<b>Invece subì uno choc.</b>
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«Non se l`aspettava. Neppure salì sul palco che se lo sarebbero mangiato...».
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<b>E lei, da ministro dell`interno, il giorno dopo...</b>
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«... mandai i "cingolati": polizia e carabinieri, senza creare gelosie. Così furono sfondati i cancelli della cittadella universitaria occupata».
<p>
<b>L`Autonomia del `77 non è l`Onda di oggi.</b>
<p>
«No, però ha visto? Sono comparsi gli stranieri, i<i> no global</i> e i <i>black bloc</i>, un segnale preoccupante.
Attendo con ansia l`intervento del cardinal Tettamanzi o di quel monsignore di simpatie rifondarole, come si chiama...
don Gallo».
<p>
<b>Anche Rinaldini non è Lama.</b>
<p>
«La cosa singolare, se vogliamo, è che uno dei leader più accesi, più estremisti... Guardi il filmato che ho scaricato da <i>Youtube</i>...
Lo vede, gli urlano: "Ven-duto-ven-du-to"...».
<p>
<b>Però non sembra un`azione premeditata e militare. Certo sono molto arrabbiati... Colpa dei sindacato, forse.</b>
<p>
«Certo, un sindacato i cui iscritti sono soprattutto i pensionati non ha più, come dire, una grande rappresentanza».
<p>
<b>Gli operai licenziati forse hanno qualche ragione.</b>
<p>
«Ci credo, c`è una grave crisi...<br />
E non possiamo chiedere ai metalmeccanici di accettare che l`erede del grande movimento operaio nato a Torino, del partitone che dava la coscienza rivoluzionaria alle masse, oggi sia il giovane democristiano Dario Franceschini... Come dar loro torto?».
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<b>Poi dice che uno si incavola.</b>
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«Voglio bene a Franceschini, uno della nostra nidiata. Un bravo giovane... <br />
Voglio dargli un consiglio: si ricolleghi presto con tutti gli extraparlamentari, tanto i furbetti democristiani che stanno con lui perché hanno sul gozzo Berlusconi gli resteranno vicino. Prenda lui in mano la bandiera rossa e riaccenda la fiamma della lotta di classe».
<p>
<b>Ironia a parte, è una nemesi per la sinistra: due opposizioni capeggiate da ex dc, Di Pietro diceva di votare Dc, un governo che si richiama alla destra dc e al Ppe... Avete stravinto.</b>
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«Un attimo, però. Molti si meravigliano a pensare che l`Udc possa considerarsi un partito di destra.
In realtà, va precisato che si tratta di una destra illuminata, così illuminata da consentirsi di candidare Ciriaco De Mita e l`erede di una Casa reale che ha concesso lo Statuto e fatto l`Unità d`Italia...».
<p>
<b>Cerchiamo di capire qualcosa di questo malcontento senza sbocchi.</b>
<b>Possibile che nessuno di sinistra riesca più a cavalcare la classe operaia?</b>
<p> «La sinistra non esiste più.
Quella radicale, son quattro gatti».
<p>
<b>Passi per Bertinotti, accusato di tradimento dei popolo per aver incarnato le istituzioni (non senza qualche compiacimento di troppo). Ma come mai neppure Ferrero o chi diavolo sia riesce più a incantare un operaio? È cambiato in profondità anche il mondo del lavoro?</b>
<p> «Sicuro. Gli ultimi comunisti poi sono malati di frazionismo, come si diceva un tempo... Ma la grande crisi di rappresentanza nasce all`interno e dalla lenta agonia del gruppo dirigente del Pci. Chi pensa che abbia organizzato il grosso del consenso a Prodi, qualche anno fa? Ciò che rimaneva del partitone... I cui eredi oggi evitano accuratamente di pronunciare anche solo il termine "classe operaia" e sono guidati dai ragazzi della giovanile democristiana».
<p>
<b>Una vera macchina da guerra della rappresentanza, il vecchio Pci, altro che quella gioiosa (e perdente) di Occhetto.</b>
<p>
«Un episodio minimo ne dà l`idea: quando ero presidente del Consiglio e presentai un decreto di natura economica, il cosiddetto "quattro per mille", in Senato si alzò l`amico Gerardo Chiaromonte per dire che dovevo guardarmi bene dal raggirare il Pci, che aveva l`unica e vera rappresentanza della classe operaia».
<p>
<b>Altri tempi. Ma da ultimo qualcuno ha fatto il «lavoro sporco» prima che arrivasse Franceschini, recidendo tutti i legami possibili...</b>
<p>
«A chi pensa? A quel segretario mai stato comunista pur avendo la tessera del Pci che ha fatto di tutto per far dimenticare persino che il Pci fosse mai esistito?».
<p>
<b>Forse abbiamo in mente lo stesso nome.</b>
<p>
Lui. Non stia a preoccuparsi:
se ne hanno notizie... Uòlter torna, forse è già tornato».
<p>
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=M1NKN">Il Giornale - Roberto Scafuri </a>Cesare SALVI: Pd «Il divorzio? Magari. Ma lo diranno le europee» - INTERVISTA2009-01-07T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it384926<br />
Non ci crede. Non ci spera nemmeno, dice, «perché se avviene una cosa del genere significa che c’è stato un cataclisma». Però, sotto sotto, Cesare Salvi, ex capogruppo della Quercia al Senato e fondatore della Sinistra democratica...<br />
<b>Presidente, la nostalgia per i Ds dilaga. Come lo vede un divorzio tra ex Pci ed ex Dc?</b><br />
«E lo chiede proprio a me? Magari! È una cosa auspicabile però altamente improbabile».<br />
<b>Eppure ci sono diversi segnali. Le parole di D’Alema sul Pd che non decolla, Sposetti che riorganizza le fondazioni con il vecchio marchio, i Ds che continuano ad esistere e che hanno addirittura un segretario, Piero Fassino, che ha firmato la carta del Pse...</b><br />
«È vero, bisognerebbe chiedersi del perché della sopravvivenza delle vecchie strutture quando ce n’è una nuova. Il fatto è che nessuno dei nodi è stato sciolto, dal collegamento europeo al patrimonio alla questione socialista. E il Pd non riesce a radicarsi. Anzi, come dimostra Napoli, perde autorevolezza e non riesce nemmeno a imporre la linea a livello locale. Cacciano Villari, poi in periferia ognuno fa quello che gli pare».<br />
<b>
E la rabbia cresce.</b><br />
«Non voglio fare come Ugo La Malfa, però sta accadendo tutto quello che avevo previsto e che mi ha portato a non partecipare. L’esito di questa fusione era chiaro in partenza. Vedo che D’Alema, secondo me giustamente, parla di alleanze con l’Udc. Ma io dico, se la sinistra ha bisogno di allearsi con il centro, perché fondersi con un pezzo di quel centro? Non sanno che uniti si raccolgono meno voti?».<br />
<b>Qual è allora la soluzione? Una separazione?</b><br />
«Eh, magari. Bisognava pensarci prima, ora mi pare difficile rimettere indietro l’orologio. Sono stati fatti dei passi, messi in moto dei processi...».<br />
<b>
Sì, ma se alle Europee il Pd subirà un altro tracollo?</b><br />
«Ecco. Ovviamente spero che i sondaggisti sbaglino e che in primavera il Pd tenga, altrimenti sarebbe un disastro per tutti: già c’è la sinistra alternativa fuori del Parlamento, ci mancherebbe solo una sconfitta di quella di governo. Però, se dovesse avvenire, la sinistra imploderebbe e può accadere di tutto e di più».<br />
<b>
Cosa c’è di sbagliato nel progetto di Veltroni?</b><br />
«Innanzitutto la perdita di contatto. Capisco l’idea del partito leggero, ma questo è troppo evanescente. Vuole il rinnovamento a Napoli ma non riesce a ottenerlo. Vuole seguire una linea ma gli alleati che si è scelto glielo impediscono».<br />
<b>
Un problema di leadership? Veltroni è troppo debole?</b><br />
«Se fosse solo questo, basterebbe sostituirlo. No, qui la leadership non c’entra, la questione è strutturale, sistemica. Un partito nato con delle (false) primarie, che punta sulla gente e la partecipazione, e che poi in realtà è verticistico. Che ruolo hanno avuto le strutture locali del Pd nel caso Napoli, quale è stato il livello di partecipazione popolare nelle scelte? Zero».<br />
<b>
E il partito dei sindaci? C’è chi parla di un Pd del nord alleato in qualche modo alla Lega.</b><br />
«È un altro indice del grande sbandamento. C’è un’incompatibilità fortissima, per fortuna Chiamparino ha preso un’altra strada».<br />
<b>La sinistra non sa più fare l’opposizione, visto il gradimento di Berlusconi...</b><br />
«Paradossalmente sì. Noi dopo tre mesi, con il governo dei 103, l’indulto e la Finanziaria, eravamo già con l’acqua alla gola. La sinistra deve sfruttare questi 4 anni abbandonando la polemica quotidiana e concentrandosi negli scenari di prospettiva. Ci vorrebbe un colpo d’ala...»<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=KDH6D">Il Giornale - Massimiliano Scafi</a>Antonio POLITO: «Rompere con Tonino. Serpe in seno» - INTERVISTA2008-12-20T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it383131<br />
<b>Direttore Antonio Polito, il suo «Riformista» ha lanciato un Sos: «Salviamo il Pd». E Veltroni, va salvato?</b><br />
«Ma guardi che qui non è più una questione di leadership, il rischio è ormai mortale per l’intero partito».<br />
<b>«Rinnovarsi o perire», come l’espressione nenniana che Craxi considerava menagramo. E che Veltroni, temerario, ha riecheggiato nel suo discorso.</b><br />
«La superstizione non c’entra. Il problema è che dopo le parole dure ascoltate, dopo le critiche esplicite rivolte al leader, non è emersa alcuna linea alternativa, né c’è stata alcuna conta...».<br />
<b>Allora a che cosa è servita la direzione?</b><br />
«Me lo chiedo, perché tutte le questioni sono rimaste aperte. È stata una seduta di autocoscienza, impressionante... Ma poi ha prevalso lo spirito di stringere i denti. Si è avvertito, credo, un rischio di fallimento totale. Mai così forte».<br />
<b>Non c’è alternativa a Walter?</b><br />
«Temo che nessuno ambisca più a sedersi su una sedia così scomoda».<br />
<b>Forse ha ragione D’Alema, quando dice che ci vorrebbe un «partito vero».</b><br />
«Certo che ha ragione. Non si capisce più che tipo di partito sia questo...».<br />
<b>L’insostenibile leggerezza dell’essere (Walter) s’è trasfusa nell’anima piddì.</b><br />
«Sono un noto critico di Veltroni, ma non mi sembra che attorno a lui spicchino altre personalità. Quando s’è fatta l’alleanza con Di Pietro, gli altri dov’erano? Tutti pronti a scaricare le colpe sul segretario, poi però non si fanno conte e votano tutti lo stesso documento».<br />
<b>
Chi si rivede, lo spirito del vecchio Pci.</b><br />
«Però nel Pci, dopo essersele dette, ed essersi presentati compatti all’esterno, poi le linee cambiavano davvero...».<br />
<b>Al Pd «manca l’amalgama» è stato anche detto. Viene in mente il «dove gioca, quanto costa, compriamolo!» del vecchio presidente del Catania calcio...</b><br />
«Non è il problema cruciale. Le linee di frattura sono più contorte: magari ci fossero le correnti ex ds ed ex dc...».<br />
<b>Magari c’è tanta confusione perché in tanti pensano a progetti alternativi.</b><br />
«Su questo ha ragione Walter: se qualcuno pensa a farsi una scialuppa di salvataggio, sappia che finiranno tutte sugli scogli. Se i topi scappano, affonda la nave ma muoiono pure loro».<br />
<b>La nave sembra sempre troppo in balia delle onde, per non pensare alla fuga.</b><br />
«Walter ha avuto un documento che accresce i poteri. Ora deve fare un po’ lui e sciogliere i nodi: ha tutta la forza per farlo. Guai se tra 6 mesi stiamo ancora a discutere... Il Pd non è morto, ma bisogna spicciarsi a fare delle scelte».<br />
<b>Via da Di Pietro, prima che sia tardi.</b><br />
«Sì, perché l’alleanza con lui ti costringe al massimalismo, ti fa naufragare equilibri faticosamente raggiunti, non ti rende credibile davanti agli elettori...».<br />
<b>Di Pietro è un cappio al collo del Pd?</b><br />
«Sì, più ci si muove più ci si strozza. Una serpe in seno».<br />
<b>Non una mantide religiosa?</b><br />
«No, quella ti mangia dopo un accoppiamento. Prima almeno c’è un po’ di piacere... qua invece è solo dolore».<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=K91E7">Il Giornale - Roberto Scafuri</a>Francesco COSSIGA: Quando ho fatto picchiare a sangue gli universitari che hanno cacciato via Lama [1977], il Gruppo del Partito Comunista alla Camera, in piedi, mi ha tributato un'ovazione2008-10-29T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it381813Alla data della dichiarazione: Senatore a vita<br/><br/>Dall'intervento nella seduta n.80 del Senato in occasione dell'approvazione del decreto gelmini.
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"Speravo di sentire il glorioso grido degli studenti del movimento che il servizio d'ordine del PCI e della CGIL ci hanno aiutato a picchiare di santa ragione. Quando ci fu un 5 maggio, ci mettemmo d'accordo con il servizio di vigilanza della CGIL e ci mettemmo d'accordo così: prima quelli del movimento li picchiavano loro, poi ce li davano in braccio e li picchiavamo noi. Gloriosi tempi di Lama! (Vivaci e reiterate proteste dai banchi dell'opposizione). Sì, perché io sono stato il Ministro dell'interno di tre Governi di solidarietà nazionale! (Vivaci proteste dai banchi dell'opposizione).
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PERDUCA (PD). Hanno ammazzato Giorgiana Masi!
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PRESIDENTE. Colleghi, vi prego di consentire al presidente Cossiga di concludere il proprio intervento.
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COSSIGA (UDC-SVP-Aut). Speravo di sentire il famoso grido: «Se vedi un punto nero, spara a vista: o è un carabiniere o è un fascista». Siccome nel partito obamiano ci sono molti cattolici (cattolici adulti o cattolici democratici, ma pur sempre cattolici), naturalmente veniva espunta dalla suddetta frase la parola «prete». (Ilarità dai banchi della maggioranza).
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Questo tocco di illegalità dato alla manifestazione sarebbe stato utile anche per il Paese, perché il partito veltroniano avrebbe acquistato credibilità nei confronti del "movimiento", nel suo deciso evolversi in forme proprie dall'«Autonomia Operaia» alla «Lotta Continua» e - non dimentichiamolo - al FUAN. A Milano gli studenti di estrema destra hanno manifestato con quelli di estrema sinistra. Va bene che c'è una certa captatio benevolentiae in modo che uno di loro possa essere il Presidente della Repubblica al prossimo turno, c'è la proposta di erigere un monumento dell'Olocausto a Predappio, e questo mi sembra giusto.
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I baldi, coraggiosi marcianti..."<br/>fonte: <a href="http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=hotresaula&id=1&mod=1225283106000&part=doc_dc-ressten_rs-ddltit_sddeadddl1108ieu-trattazione_ddvf-intervento_cossigaudcsvpaut&parse=no">Senato della Repubblica</a>Goffredo Maria BETTINI: Giuliano è un profondo antifascista Una scelta infelice quel sì ad Alemanno. - INTERVISTA2008-09-09T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it359154<br />
«Non voglio strumentalizzare le dichiarazioni di Alemanno e La Russa... però, davvero, non mi piacciono nemmeno un po’». <br />
<i>(Goffredo Bettini ha sempre quel suo modo di parlare diretto, senza giri di parole: ex senatore dei Ds, coordinatore del Pd, consigliere fidato di Walter Veltroni. Un uomo colto, ironico, astuto, rapido. Non casualmente assai temuto dai suoi compagni di partito).</i><br />
<b>E’ preoccupato, Bettini, perché?</b><br />
«Perché Alemanno non è uno storico, non può permettersi di esprimere un giudizio analitico e distaccato sul periodo fascista. Alemanno è un politico...» <br />
<b>
Quindi?</b><br />
«Da lui mi aspetto una condanna del fascismo netta, senza se e senza ma».
<br />
<b>Alemanno ha parzialmente modificato certe sue dichiarazioni: ora condanna l’esito liberticida del regime di Mussolini.</b><br />
«Alemanno non può condannare solo il fascismo delle leggi razziali, e sa perché? Perché quella violenza era già intrinseca nel primo fascismo, quello che bonificava la pianura pontina, quel fascismo sul quale Alemanno pare avere tanta indulgenza e che però già covava ferocia... sopprimendo la libertà di stampa, chiudendo partiti politici, sequestrando il Parlamento, confinando gli intellettuali e poi...». <br />
<b>Bettini, senta: come sa, non ci sono soltanto le dichiarazioni di Alemanno, ma anche quelle del ministro La Russa, che rende omaggio ai soldati della Rsi.</b><br />
«Ai fascisti di Salò...». <br />
<b>La Russa dice che «dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della Patria».</b><br />
«Ecco, vede? La verità è che un po’ tutta An non ha saputo svolgere una riflessione davvero profonda sul fascismo.. voglio dire che io, ad esempio...».<br />
<b>Lei che viene dal Pci...</b><br />
«Appunto, io che vengo dal Pci non mi metto a salvare lo stalinismo condannando i Gulag. So, ho capito che i Gulag furono del tutto organici al sistema dittatoriale». <br />
<b>Veltroni, intanto, ha deciso di dimettersi dal comitato per il museo dello Shoah, dove siede anche Alemanno.</b><br />
«Decisione giusta. Alcuni incarichi vanno assunti condividendo con chi ti è accanto anche un certo genere di sensibilità...». <br />
<b>Lei crede che questo diverso genere di sensibilità possa creare problemi morali pure a Giuliano Amato, che ha accettato l’invito di Alemanno di presiedere la commissione bipartisan, nota ormai come la «Attalì del Campidoglio?».</b><br />
«Non do consigli ad Amato, di cui conosco la profonda coscienza antifascista...».<br />
<b>Però...</b><br />
«Vuol sapere se... Beh, le dico la verità: l’aver accettato quell’incarico da Alemanno m’è sembrata subito, politicamente, una scelta infelice».<br />
<b>Lei è complessivamente severo nei giudizi su Alemanno.</b><br />
«Detto che essere severi è compito dell’opposizione, noto che, da sindaco, finora ha lavorato solo per togliere alla città». <br />
<b>Può essere più preciso?</b><br />
«Voleva abbattere l’opera che protegge l’Ara Pacis, è contrario al parcheggio del Pincio, ha abolito la "Notte Bianca" e...». <br />
<b>E poi, soprattutto, le ha tolto la presidenza della Festa del Cinema, affidandola a Gian Luigi Rondi. Lei, Bettini, sarà per caso ancora un po’ arrabbiato?</b><br />
«Guardi, Alemanno non mi ha tolto proprio niente. Sono io che ho lasciato in modo, come dire? consensuale... per evitare che la Festa chiudesse. Quanto a Rondi, scriva pure che ha avuto subito il mio consenso...».<br />
<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=J68CO">Corriere della Sera - Fabrizio Roncone</a>Fabio RAMPELLI: RAMPELLI (PDL): SU FASCISMO, ATTENDIAMO VERTICI EX PCI IN VISITA A GULAG E FOIBE2008-09-08T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it359130Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: FI) <br/><br/>"E' difficile per la sinistra rifarsi una verginità. Vorremmo ascoltare da questi soavi cantori della libertà una chiara, inequivocabile professione di fede al sistema liberal-democratico. Non basta infatti dichiararsi antifascisti per essere anche antitotalitari. Il popolo italiano, infatti, aspetta ancora dai vertici dei partiti post-comunisti le indispensabili visite di pentimento negli ex Gulag sovietici, di fronte ai resti dell'ex Muro di Berlino, sulle decine di Foibe dove sono state sterminate innocenti famiglie italiane, sui luoghi del martirio di preti e persone qualunque nel triangolo emiliano, rosso sangue. Per riconoscersi nei valori fondamentali dell'Occidente, non basta dichiararsi kennediani o trepidare per Obama. La sinistra è e resta antidemocratica: lo dimostra l'ennesimo assalto scomposto alla destra e ad Alemanno per un'affermazione che - oltre a essere stata chiarita a parole - è accompagnata da quotidiani gesti che contano più di qualunque elucubrazione. Nel terzo millennio è semplicemente ridicolo tagliare la storia con l'accetta e far prevalere lo spirito di fazione su valori e sentimenti condivisi dal 99,9 % del popolo italiano. Chi lo fa finisce nel ridicolo perché tutti condanniamo le leggi razziali, la persecuzione degli ebrei, la limitazione e l'eliminazione delle libertà fondamentali, la dittatura, il partito unico, la guerra, il militarismo, lo squadrismo. Il livello di radicamento della democrazia è solido al punto che possiamo permetterci di giudicare i totalitarismi senza diventarne vittime, capendo le ragioni per le quali milioni di persone hanno donato la propria anima e, in molti casi, anche la vita. Coloro che si sono sacrificati, piaccia o meno, lo hanno fatto per la propria Patria ed è profondamente ingiusto che ci si ostini a considerarli dei traditori. Resta il fatto che da Alemanno e La Russa i militanti e gli elettori di destra si aspettano una capacità di governo capace di suscitare orgoglio ed entusiasmo da vivere ed esibire in questo tempo".E' quanto dichiara il deputato romano del PdL, Fabio Rampelli, artefice della battaglia sul pluralismo dei libri di testo e contro la faziosità di alcuni volumi in uso nelle scuole dell'obbligo.<br/>fonte: <a href="http://rampelli.it">Comunicato Stampa</a>Massimo D'ALEMA: «Praga ’68 così diventammo antisovietici» - INTERVISTA2008-08-15T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it358764Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Un viaggio nel tempo. Una riflessione a cavallo della testimonianza personale di chi visse in presa diretta quelle drammatiche giornate di quarant’anni fa e le riflessioni maturate nel corso del tempo da quel ragazzo allora diciottenne divenuto un leader politico e di governo: Praga ’68 nelle considerazioni di Massimo D’Alema. Considerazioni che partono dall’oggi e dal conflitto che, quarant’anni dopo, vede ancora impegnati i carri armati russi.<br />
<b>Quarant’anni dopo l’agosto di fuoco a Praga, di nuovo un conflitto armato, quello con la Georgia, vede protagonista la Russia. Qual è la tua valutazione di una crisi che non può dirsi ancora conclusa?</b><br />
«Innanzitutto speriamo che l’iniziativa politica e diplomatica riesca effettivamente a fermare la violenza e ad evitare un’escalation del conflitto. È evidente che i conflitti di oggi hanno una natura fondamentalmente diversa. Allora fu determinante l’elemento ideologico, e cioè la volontà di stroncare sul nascere un esperimento di socialismo democratico che avrebbe potuto destabilizzare l’impero sovietico e i Paesi dell’Est. Oggi è la difesa di una sfera d’influenza russa in aree geograficamente ed economicamente strategiche, in particolare nell’Asia centrale. E rimane una forte carica nazionalista che è anche il lascito di una lunga stagione imperiale.<br /><br />
Naturalmente non si può accettare una politica di ingerenza e l’uso indiscriminato della forza da parte della Russia. L’Occidente è stato, in realtà, sostanzialmente passivo anche di fronte alla tragedia della Cecenia. Tuttavia anche il nazionalismo georgiano non può essere sostenuto in modo acritico. È stato un errore dare la sensazione di una politica di allargamento della Nato che portava con sé forzature come quella del sistema antimissile che hanno accentuato la sensazione di un accerchiamento della Russia, rafforzando le posizioni più militariste e antioccidentali al suo interno. In una regione che è un mosaico di nazionalità e luogo di potenziali (e in parte già in atto) terribili conflitti religiosi, l’unica politica ragionevole è quella del dialogo e del rispetto di tutte le minoranze, sia da parte deLla Russia che dei nuovi Stati ex sovietici».<br />
<b>
Gli sforzi diplomatici in atto per dare soluzione alla crisi tra Mosca e Tbilisi vedono l’Italia in una posizione defilata. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in vacanza alle Maldive, si difende sostenendo che durante la guerra in Libano, due estati fa, l’allora premier Romano Prodi anche lui era in ferie...</b><br />
«Con buona pace del ministro Frattini, non mi pare che il governo Berlusconi possa assumere un ruolo di primo piano né una qualche iniziativa politico-diplomatica paragonabile a quella che l’Italia assunse durante la crisi israelo-libanese. Allora vi fu certamente anche una situazione di difficoltà in cui si trovava la Francia e una presidenza dell’Unione Europea affidata alla Finlandia, abbastanza estranea alla vicenda mediterranea. Giocò positivamente anche la credibilità che il centrosinistra aveva non solo nei confronti di Israele ma anche verso il mondo arabo. Per tornare alle vicende in questione, non si possono dimenticare le parole con cui Berlusconi - durante il semestre di presidenza italiana dell’Ue - giustificò senza alcuna remora la repressione russa in Cecenia. Suscitando l’indignazione di tanta parte dell’opinione pubblica europea... <br />
In ogni caso voglio sottolineare il ruolo positivo che il presidente Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner stanno svolgendo per conto dell’Europa».<br />
<b>Torniamo a quei giorni di quarant’anni fa. Quando i carri armati sovietici e del Patto di Varsavia entrarono a Praga tu eri lì...</b><br />
«Era il 1968, ero un ragazzo, e, dopo aver concluso una sessione d’esami particolarmente faticosa, perché veniva dopo una stagione di lotte (era l’anno accademico 67-68), andai a Praga attratto dal mito di quello che lì stava accadendo. C’era per la prima volta nel mondo il socialismo dal volto umano: ricordo la gente che discuteva nelle strade, partecipe di uno dei più grandi eventi di quell’anno straordinario. Tempo dopo abbiamo ragionato, riflettuto sul significato che aveva avuto quella rottura storica, la sconfitta della speranza di fare vivere il socialismo diversamente dal modello sovietico. Ma in quei momenti così emozionanti e drammatici, a prevalere fu il dolore, lo shock. Quando tornai in Italia, ricordo che rimasi alcuni giorni senza parlare per quello che era accaduto, per quella tragedia. Praga fu la ragione per la quale la mia generazione divenne "antisovietica", per quanto lo si potesse essere come membri di un Partito comunista. Certamente maturò una frattura incolmabile nei confronti dell’Urss».<br />
<b>
Cosa ha rappresentato per quella generazione la fine traumatica della Primavera di Praga?</b><br />
«Sicuramente fu un discrimine epocale. Ricordo che a fine settembre ’68 andai, stavolta come membro di una delegazione della Fgci guidata da Giulietto Chiesa, a Francoforte ad assistere al congresso di scioglimento della Lega degli studenti socialisti tedeschi. Fu un congresso drammatico. Dentro la Lega c’erano diverse componenti: una più estremista (che aveva tra i suoi leader Rudi Dutschke, che aveva subito un attentato, e Wolfgang Lefewre), una componente comunista, una socialdemocratica. La Lega si spaccò proprio sulla Cecoslovacchia, perché i comunisti rifiutarono di condannare l’intervento del Patto di Varsavia. La Lega cessò di esistere travolta dal ’68: dalla rivolta giovanile e dai i fatti di Praga».<br />
<b>Praga, il ’68 e il Pci...</b><br />
«Il Pci fece fatica a rapportarsi a quell’esperienza. Nel ’68, all’interno del partito, si aprì un dibattito faticoso. In realtà il rapporto con l’Unione Sovietica, malgrado la cesura del ’68, continuò a trascinarsi in un modo abbastanza ambiguo per almeno un decennio. Fu solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, con la famosa questione dell’"esaurimento della spinta propulsiva", che si completò lo strappo. Oggi si potrebbe dire che in effetti Praga poteva rappresentare l’occasione per lo strappo, perché con Praga la speranza di un’autoriforma del comunismo si era definitivamente esaurita. Questa è la verità. Insomma, a mio parere, le ragioni del nostro legame erano venute meno».<br />
<b>Guardando a quell’esperienza con gli occhi dell’oggi. Di quel tentativo portato avanti da Dubcek di un socialismo dal volto umano, che cosa resta?</b><br />
«Rimane il rapporto essenziale tra il socialismo e la democrazia. La verità, in definitiva, è che noi dopo Praga arrivammo faticosamente a inventarci una Terza via tra socialismo reale e socialdemocrazia. In realtà il nesso tra socialismo e democrazia c’era già nell’esperienza della socialdemocratica europea. Questo è il punto vero, questo fu il passo ulteriore che mancò. A noi mancò la forza di prenderne atto in quel momento. D’altra parte l’unica Terza via che ha funzionato e che ha saputo costruire il socialismo reale è quella tra capitalismo economico e dittatura, non tra economia statale e democrazia. Oggi resta una domanda: era possibile una riforma del socialismo reale in senso democratico? È difficile dirlo, la Storia non si fa con i se. Tuttavia non è neanche vero che tutto ciò che è reale è razionale. Non bisogna essere hegeliani fino al punto di pensare che se il ’68 praghese fallì è perché non poteva essere altrimenti. Non fu possibile dentro quei determinati rapporti di forza, che erano quelli della Guerra fredda. Anche perché se l’Unione Sovietica schiacciò la Primavera di Praga, di certo l’Occidente non la difese. La realpolitik prevalse sulle ragioni del popolo ceko. Da questo punto di vista, il destino di quella speranza, e il suo fallimento, erano scritti nella logica della Guerra fredda, per la quale da questa parte comandavano gli Americani e dall’altra parte i Russi. Se qui si muoveva qualcosa c’erano le "trame nere" e Gladio, di là più rozzamente i carri armati».<br />
<b>
Ma anche il movimento del ’68 di cui tu eri parte, non finì anch’esso per abbandonare Praga al suo destino segnato?</b><br />
«Il movimento si divise. Certo, un’ala stalinista considerò Dubcek e i suoi compagni dei revisionisti, mentre quella parte della generazione che s’innamorò di Praga finì soprattutto nella sinistra storica, nel Pci e anche nel Psi. Gli altri che dissero: "No, non è Praga il modello, il modello è invece la rivoluzione culturale cinese", finirono nell’estremismo extraparlamentare».<br />
<b>Alexander Dubcek, Michail Gorbaciov: posso essere definiti degli eroi tragici?</b><br />
«Ho incontrato Dubcek molti anni dopo. Siamo stati insieme un’intera serata, abbiamo parlato di quell’epoca. Era un uomo estremamente semplice, che affrontò con grande dignità una sorta di esilio in patria. Visse una condizione di emarginazione, con l’orgoglio di essere stato protagonista di una pagina importante della storia del mondo. Abbiamo rievocato quel tempo. Dubcek è stato certamente un eroe tragico, fino in fondo comunista anche nel modo come accettò la sconfitta. In fondo avrebbe potuto cercare rifugio in Occidente, magari un rifugio dorato, invece preferì tornare ad una vita modesta nel suo Paese...».<br />
<b>E Gorbaciov?</b><br />
«Una volta rivolsi a Gorbaciov una domanda assolutamente irrituale, durante una cena in forma privata con lui, Raissa Gorbaciova, Vladimir Zagladin e mia moglie. Raissa stava parlando molto male della Russia di Eltsin. Allora io feci una domanda impertinente a Gorbaciov, di quelle che non si dovrebbero fare. Gli chiesi: compagno Michail Sergeevic, visti i risultati, voi non siete pentito di avere abbattuto il comunismo in Russia?...».<br />
<b>E lui?</b><br />
«Lui, invece di prenderla a ridere come fosse una battuta, mi dette una risposta serissima: "Io - mi disse - ho riflettuto su questo. Ma guarda: qualsiasi cosa sia accaduta dopo, quel regime andava abbattuto, perché era mostruoso e perché la identificazione fra gli ideali della sinistra e quel regime era per noi un danno intollerabile».
<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.unita.it/view.asp?IDpag=13&IDcontent=78053">L'Unità - Umberto De Giovannangeli</a>