Openpolis - Argomento: relazioni industrialihttps://www.openpolis.it/2012-11-02T00:00:00ZPietro ICHINO: Sui 19 della Fiat anche il giudice ha commesso un errore - INTERVISTA2012-11-02T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it656699Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
In nessun altro Paese al mondo un caso di discriminazione come questo sarebbe stato sanzionato con l'ordine giudiziale di costituzione di 19 nuovi rapporti di lavoro. La sanzione più appropriata ed efficace è costituita dal risarcimento del danno.
<p><b>Diciannove messi in mobilità per rispettare una sentenza dello Stato: non pensa che quello di Fiat sia una ritorsione?</b>
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Sul piano strettamente giuridico non lo è. Un effetto indiretto del provvedimento giudiziale è una eccedenza di personale; e il nostro ordinamento consente all’impresa di risolvere il problema con il licenziamento collettivo. Il punto è che non possono essere licenziati i 19 della Fiom neo-assunti, poiché sarebbe una reiterazione della discriminazione ai loro danni; ma sarebbe evidentemente inaccettabile che venissero licenziati al loro posto altri 19, che con lo scontro tra Fiat e Fiom non hanno nulla a che fare. Sono questi gli effetti velenosi di un provvedimento giudiziale sbagliato.
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<b>Perché sbagliato? Che cosa avrebbe dovuto fare il giudice in questo caso?</b>
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Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro Paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno: non dimentichiamo che qui non si tratta di licenziamento discriminatorio, ma di mancata assunzione, che è cosa assai diversa. L’esperienza statunitense mostra come un risarcimento salato possa costituire un deterrente efficacissimo contro un comportamento discriminatorio di questo genere. E non determina le situazioni assurde a cui assistiamo oggi a Pomigliano.
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<b>I sindacati nutrono dubbi sul fatto che Pomigliano possa riassorbire tutti i lavoratori come da accordi sindacali firmati a suo tempo; e nel frattempo all’interno della fabbrica il clima – comprensibilmente – si è fatto rovente. È ancora convinto che lo stabilimento campano sia un modello per l’Italia?</b>
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Guardi che anche i sindacalisti della Fiom riconoscono che lo stabilimento di Pomigliano è un gioiello sul piano tecnologico e produttivo. Chiunque conosca l’industria automobilistica lo riconosce. Altro è il problema della ripresa della produzione di auto a pieno ritmo negli stabilimenti italiani della Fiat: questo dipende da molti fattori, la maggior parte dei quali sfugge al controllo della stessa Fiat.
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<b>Quali strade possono essere intraprese oggi – da tutte le parti – per evitare che il rispetto di una sentenza della magistratura porti al licenziamento di diciannove persone?</b>
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Se fossi il ministro del lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. Farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo così il riconoscimento dei propri rappresentanti in azienda; e per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva, che speriamo non si faccia attendere troppo.
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<b>L’accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil del giugno 2011 ha aumentato il peso della contrattazione aziendale in maniera considerevole. Non pensa che l’insistenza di Fiat nel chiamarsi fuori da questa intesa indichi una volontà di sottrarsi a un quadro di regole comuni e che la decisione di ieri di rispondere con una rottura a una sentenza dello Stato ne sia una conferma?</b>
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Se è per questo, anche la Fiom se ne chiama fuori, pur essendo parte della Cgil: altrimenti, dopo l’accordo interconfederale del giugno 2011 avrebbe firmato gli accordi aziendali Fiat, che ne hanno anticipato il contenuto. Quanto alla Fiat, che essa abbia inteso sottrarsi al sistema sindacale interconfederale è evidente. Ma quel sistema non è legge dello Stato. Il nostro ordinamento garantisce il pluralismo sindacale non soltanto sul versante dei lavoratori, ma anche su quello degli imprenditori. E il pluralismo serve perché modelli di relazioni industriali diversi possano confrontarsi e competere tra loro. In modo che i lavoratori e gli imprenditori stessi possano scegliere quello che ritengono produca i risultati migliori. Naturalmente, sempre nel rispetto della legge: su questo non può esserci alcun “pluralismo”.
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<b>Come mai un’azienda che si presenta come alfiere della modernizzazione industriale non è in grado di proporsi oggi alla platea dei suoi lavoratori in una logica di condivisione delle scelte? È solo un problema di comunicazione?</b>
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Per litigare occorre sempre essere in due. Sia Fiat sia Fiom hanno qualche ragione per accusarsi a vicenda. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi iscritti nelle assunzioni; ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio – primavera 2010 – contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale.
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<b>Il partito di cui fa parte non ha mai avuto negli ultimi anni una posizione univoca sul caso Fiat. Oggi è possibile trovare una sintesi tra le varie anime dei democratici?</b>
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Sarebbe preoccupante che in un grande partito di centrosinistra tutti avessero la stessa posizione su di una vicenda complessa come questa, originata dagli accordi Fiat del 2010. L’unità del partito si deve esprimere nel voto, alle elezioni e negli organi elettivi; non certo nell’appiattimento di tutte le opinioni su quella del segretario. Sta di fatto che, da quarant’anni a questa parte, le mie opinioni non sono “fuori linea”: hanno il solo difetto di essere in anticipo di qualche anno rispetto a quelle del mio partito.<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.pietroichino.it/?p=23825&print=1">Secolo XIX | Salvatore Cafasso</a>Pietro ICHINO: «Non ho cambiato idea, la svolta di Marchionne era giusta» - INTERVISTA2012-09-18T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it650426Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
<b>Il mondo politico e sindacale, quasi al completo, rimprovera a Marchionne scarsa chiarezza: e lei?</b>
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Non cambierei di una virgola le opinioni espresse negli ultimi due anni sulla vicenda dei contratti aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Sia sotto il profilo giuridico, perché quelle pattuizioni erano e restano pienamente legittime, sia sotto il profilo dell’opportunità sindacale e industriale di votare ‘sì’ ai relativi referendum.
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<b>Ma è un modello che di fatto rischia di venire meno se proprio la Fiat rinuncia ai suoi investimenti.</b>
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Innanzitutto, non dimentichiamo che nel 2003, quando Marchionne ha assunto la guida del Gruppo, la Fiat era in stato fallimentare. Aggiungo, poi, che quegli accordi hanno una parte rilevante del merito della svolta nel nostro sistema delle relazioni industriali che si è concretata l’anno successivo, con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche dalla Cgil. Senza la vicenda Fiat, probabilmente quella svolta non ci sarebbe stata. E senza gli accordi aziendali del 2010 non ci sarebbero stati neppure gli investimenti in essi previsti; non vedo, dunque, che cosa i lavoratori interessati avrebbero guadagnato col respingere quegli accordi, come la Fiom li invitava a fare.
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<b>Ma la Cgil e la Fiom denunciavano il limite di quel piano.</b>
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È vero che il piano industriale lasciava aperti alcuni interrogativi sul futuro, ma che cosa mai avrebbero guadagnato i lavoratori e il nostro Paese dal respingerlo in limine? Oltre tutto quando quegli accordi sono stati discussi e sottoposti a referendum, non era ancora sorta la questione della esclusione della Fiom dalle rappresentanze sindacali riconosciute in azienda: esclusione che è avvenuta solo dopo la sottoscrizione, proprio in conseguenza del rifiuto di firmare da parte della stessa Fiom, in applicazione di quanto previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dal referendum del 1995.
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<b>Crisi di mercato a parte, secondo lei c’entra anche lo scontro giudiziario con la Fiom nella revisione dei piani Fiat per l’Italia?</b>
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Ero e resto dell’idea che la guerra senza esclusione di colpi condotta dalla Fiom contro il piano industriale della Fiat è stato un gravissimo errore, oltre che un fatto incompatibile con un sistema di relazioni industriali moderno ed efficiente. Certo non è questa guerra la causa della crisi che oggi gli stabilimenti Fiat stanno attraversando, ma altrettanto certamente essa non ha giovato né all’impresa, né ai lavoratori, né alla nostra immagine di fronte agli operatori economici di tutto il resto del mondo, come giustamente osserva <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1KF10M">Alessandro Penati sulla Repubblica</a>.
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<b>Difficile però convincere oggi i lavoratori che il futuro è lo stesso.</b>
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Ho ben presente l’ansia, più che giustificata, che i lavoratori della Fiat oggi provano per la crisi attuale della nostra industria automobilistica; e sono ben convinto della necessità di una politica industriale che elimini le ragioni di quest’ansia. Ma questa politica non può che consistere nell’aprire il nostro Paese agli investimenti stranieri, facendone un luogo ospitale e attraente per chi vuole insediarvi le proprie iniziative economiche; non mi sembra che a questo scopo sia di aiuto il continuare a dipingere e trattare, qui da noi, come un demonio quello stesso Sergio Marchionne che i sindacati e i lavoratori americani considerano invece un grande capitano d’industria.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1KH2QQ">Il Mattino | Nando Santonastaso</a>Elsa Fornero: Che cosa chiedo alla Fiat2012-09-17T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it650427Alla data della dichiarazione: Ministro Welfare<br/><br/><br />
La Fiat è ormai una multinazionale. Ma è anche una grande industria italiana. Per questo, Marchionne ha il dovere di spiegarci quali sono le sue strategie per l’Italia. Aspettiamo sue notizie nei prossimi giorni. Io ho molte cose da chiedergli. E l’attesa non può essere eterna…».
<p> Elsa Fornero è molto preoccupata. E lancia l’ultimo appello al Lingotto: «Il governo non può imporre le sue scelte a un’impresa privata. Non possiamo “convocare” l’amministratore delegato al ministero. Ma all’amministratore delegato abbiamo chiesto un impegno preciso: ci dica come intende cambiare i contenuti del piano Fabbrica Italia. Ci dica se e come sono state modificate le strategie di investimento del gruppo nel nostro Paese. Ci dica se e come sono mutati gli impegni occupazionali negli stabilimenti attivi sul territorio nazionale. Marchionne non può tirarsi indietro. Lo deve non tanto e non solo al governo e ai suoi azionisti, ma soprattutto ai lavoratori della Fiat, e a migliaia di famiglie che vivono grazie alla Fiat. E lo deve anche all’Italia… ».
<p>Dunque, per il ministro del Welfare non bastavano l’Alcoa e l'Ilva. Non bastavano il Sulcis, Taranto e i 150 tavoli aperti su altrettante crisi aziendali, a rendere ancora più caldo il solito autunno che sta per cominciare. La crisi della Fiat chiude il cerchio. In tutti i sensi: da quello pratico a quello simbolico. Fornero ne parlerà in serata al concerto di gala del “Prix Italia” di Torino: quasi un mezzo consiglio dei ministri informale, con i “colleghi” degli Interni Anna Maria Cancellieri e dell’Istruzione Francesco Profumo. In quella che fu la capitale dell’auto quasi non si parla d’altro. La “ritirata” del Lingotto. Il “tradimento” di Sergio l’Amerikano.
<p>La conferma del declino industriale di un Paese che, a dispetto di qualche ottimismo di troppo profuso in questi ultimi giorni dal governo, resta ancora piantato dentro al tunnel. E se si intravede qua e là una flebile luce — come del resto aveva avvertito pochi giorni fa proprio l'amministratore delegato della Fiat con il suo consueto e profetico cinismo — «forse non è il tunnel che finisce, ma è solo il treno che ci sta per travolgere». Ora la profezia si autoavvera. Il «treno che ci sta per travolgere » è la fine troppe volte annunciata del grande sogno di Fabbrica Italia.
<p> Al suo posto, ora c’è l’incubo dell’ennesima disfatta industriale. La “fuga” della Fiat dal Belpaese. La chiusura di almeno due dei cinque stabilimenti superstiti (Pomigliano, e chissà, magari anche Mirafiori). La ricaduta occupazionale potenzialmente devastante sui quasi 25 mila dipendenti diretti del gruppo (senza considerare l’indotto).
<p> L’addio definitivo a un altro settore produttivo, l’automobile, che prima e soprattutto dopo la guerra ha rappresentato il cuore del Miracolo Economico. Smantelleremo anche quello, dopo aver alzato bandiera bianca sulla chimica e l’informatica, la siderurgia e l’alimentare?
<p>La Fornero non si rassegna. «A noi sta a cuore che la Fiat difenda e rilanci la sua produzione e i suoi investimenti in Italia». Se questo non accadesse, il danno sarebbe enorme. Non solo per gli “stakeholder”, come li chiama il ministro del Welfare, ma per l’intera nazione.
<p> Il problema è che Marchionne finora non ha dato nessuna spiegazione, e nessuna garanzia. Per questo la Fornero rilancia: «Io ho parlato più volte con Marchionne. Ci avevo parlato prima dell’estate, e ci ho parlato di nuovo nei giorni scorsi. Dopo l’annuncio di venerdì, all’amministratore delegato ho chiesto un incontro urgente. Gli ho comunicato una serie di date. Mi ha risposto che era in partenza per gli Stati Uniti, e che mi avrebbe fatto sapere al suo rientro. Ma finora il mio telefono non ha ancora squillato. Sto aspettando sue notizie. Me le aspetto nei prossimi giorni, e non mi faccia dire di più…».
<p>Il ministro evita gli ultimatum: anche perché quelli timidamente abbozzati finora, con il numero uno del Lingotto non hanno prodotto nessun risultato. Sarebbe rovinoso se lo schema si ripetesse ancora una volta: il governo che fa la voce grossa, il “ceo” che fa spallucce e va avanti per la sua strada. La strada che porta a Detroit, dove Marchionne sta lavorando anche in questi giorni. Per questo, evidentemente, non ha tempo per alzare il telefono, e dare una data alla Fornero che gliela chiede.
<p>«E’ vero — ammette il ministro — finora le nostre richieste non hanno raggiunto risultati concreti. E questo è un problema che avvertiamo, mi creda. Ma con la stessa sincerità le dico che il governo, in questi mesi e in queste ore non è stato con le mani in mano. Contatti ci sono stati e ci sono, con il Lingotto. Corrado Passera si sta facendo carico del confronto sulle strategie industriali, io delle ricadute occupazionali. Le assicuro che ci stiamo muovendo…».
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Fornero ha un lungo elenco di domande, da rivolgere all’amministratore delegato. Il ministro è il primo a riconoscerlo: «La crisi dell’auto — osserva — è globale e strutturale». Ma perché la Fiat perde molto più del mercato? E perché l’Italia continua ad essere l’area di maggiore criticità? Il nostro Paese diventerà solo uno dei tanti sbocchi di commercializzazione, o resterà ancora uno dei centri nevralgici di produzione automobilistica? Quali e quanti stabilimenti potrebbero chiudere? Ci sono progetti alternativi di reimpiego o di reindustrializzazione? La lista delle richieste potrebbe continuare. Purtroppo, finora, quello che manca drammaticamente sono le risposte. Ma anche se i fatti di questi mesi e di queste settimane non le danno ragione, Fornero nega che il governo sia stato inerte, se non addirittura “insensibile” di fronte agli allarmi che arrivavano lungo la rotta Torino-Auburn Hill. Non si sente un «ministro inesistente uscito da un libro di Italo Calvino», come ha scritto giustamente Luciano Gallino su questo giornale. «No, a questa rappresentazione non ci sto — obietta — e posso garantirle che sul caso Fiat il governo ha le idee molto chiare, e si sta impegnando in modo unitario e molto deciso. Nei prossimi giorni lo vedrete… ».
<p>Il problema è capire i termini di questo «impegno unitario e deciso». Se cioè Monti e i suoi ministri possano limitarsi ad ottenere una semplice “informativa” da Marchionne, oppure se vogliano inchiodarlo ad un vincolo più stringente sul piano delle scelte strategiche. Fornero, sia pure con cautela, accredita la seconda ipotesi: «L’epoca dello Stato Padrone è finita da un pezzo, per fortuna. Il governo non può decidere dove una grande industria privata deve allocare le sue risorse. Ma la Fiat, che ha fatto tanto per l’Italia, ha anche delle responsabilità verso questo Paese. Vorremmo che ne tenesse conto, e che desse un segnale al più presto… ».
<p>Il monito è rivolto a Marchionne: il suo silenzio non può durare ancora a lungo, e comunque non certo fino al consiglio di amministrazione Fiat fissato per il 30 ottobre: il chiarimento deve avvenire molto prima. Ma il monito sembra rivolto anche a John Elkann: la famiglia Agnelli non può tacere a sua volta, riparata dietro al suo manager. Fabbrica Italia era un progetto faraonico: 20 miliardi di investimenti, che rappresentavano un volano potenziale per l’intera economia nazionale. Se ora svaniscono, o si dirottano altrove, l’azionista deve pur assumersi le sue responsabilità. Stavolta è in ballo qualcosa di più del destino di un glorioso marchio tricolore. <br />
La posta in gioco è uno degli ultimi “pezzi” del Sistema-Paese.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1KF16M">la Repubblica | Massimo Giannini</a>Pier Luigi BERSANI: La manovra alternativa del Pd2011-08-14T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it590928Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Contro una manovra depressiva e ingiusta, le 7 proposte del Pd. Paghi chi non paga mai.
<p>Le decisioni prese dal Consiglio dei ministri sono inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte anche sul piano internazionale e fortemente inique sul piano sociale e fiscale.
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Gli esempi più eclatanti riguardano in particolare l’anticipo della delega sull’assistenza, che facilmente si tradurrà in un drastico taglio degli sgravi fiscali, scaricando sulle famiglie una parte rilevante dell’intera operazione di riduzione del disavanzo pubblico, colpendo in modo particolare i nuclei meno abbienti. La mancata precisazione degli interventi da inoltre all’anticipazione di questa delega un carattere generico e di incertezza che non corrisponde all’esigenza di credibilità della manovra. L’intervento sugli enti locali è ancora insufficiente sul piano del riordino istituzionale, ma fortemente incisivo sul livello dei servizi, livello che invece va mantenuto e in alcuni casi irrobustito. Il contributo di solidarietà incide sui ceti popolari e sui ceti medi che pagano le tasse. In sostanza paga chi già paga. L’intervento sul Tfr dei dipendenti pubblici non porta efficienza, ma rappresenta un peso sui ceti medi e bassi. Gli interventi sulle relazioni industriali e sui rapporti di lavoro rappresentano una notevole intromissione nei rapporti e nell’autonomia delle parti sociali. Molte di queste misure dovranno essere abolite o fortemente alleggerite.
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In sostanza, la manovra del governo scarica il costo del rientro dal deficit pubblico sui ceti popolari e sugli onesti che pagano le tasse. E’ inoltre un intervento destinato a deprimere l’economia invece di rilanciarla e non prevede nulla di significativo per la crescita.
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Il Partito Democratico ritiene dunque che debbano essere adottare soluzioni più efficienti e più eque, che facciano pagare non chi paga già, ma chi non paga mai, che portino allo stesso risultato sul piano dei saldi di bilancio, ma che siano anche in grado di fornire un sostegno selettivo alla crescita.
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Il Pd non si sottrae dunque alla sfida che il paese ha di fronte e mette a disposizione il proprio contro piano, un progetto responsabile e alternativo per il bene del paese. Per l’abolizione o il forte alleggerimento delle inique misure del governo noi dunque proponiamo:
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<b>1.</b> Per affrontare l’emergenza si prevede un prelievo straordinario una tantum sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e scudati, in modo da perequare il prelievo su questi cespiti alla armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20 per cento e di adeguare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati. Gran parte di questi 15 miliardi dovrà essere utilizzata per i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno così da consentire immediati investimenti da parte dei comuni.
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<b>2.</b> Un pacchetto di misure efficaci e non solo di facciata contro l’evasione fiscale, tali da produrre effetti immediati, consistenti e concreti. Si propongono dunque alcuni interventi, tra i quali figurano le misure anti-evasione che in parte riprendono quelle dolosamente abolite dal governo Berlusconi:
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<b>a)</b> tracciabilità dei pagamenti superiori a 1.000 euro (pensare a somme più elevate significa lasciare di fatto tutto come è oggi) ai fini del riciclaggio e soglie più basse, a partire dai 300 euro, per l’obbligo del pagamento elettronico per prestazioni e servizi;
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<b>b)</b> obbligo di tenere l’elenco clienti-fornitori, il vero strumento di trasparenza efficiente;
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<b>c)</b> descrizione del patrimonio nella dichiarazione del reddito annuo con previsione di severe sanzioni in caso di inadempimento.
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<b>3.</b> Introduzione di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni e che inglobi l’attuale imposta comunale unica sugli immobili, in modo di ricollocare l’Italia nella media e nella tradizione di tutti i maggiori paesi avanzati del mondo.
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<b>4.</b> Un piano quinquennale di dismissioni di immobili pubblici in partenariato con gli enti locali (obiettivo minimo 25 miliardi di euro).
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<b>5.</b> Liberalizzazioni. Il Pd propone di realizzare immediatamente almeno una parte delle proposte di liberalizzazione che il partito ha già preparato e presentato: ordini professionali, farmaci, filiera petrolifera, RC auto, portabilità dei conti correnti, dei mutui e dei servizi bancari, separazione Snam rete gas, servizi pubblici locali. Il Pd è contro la privatizzazione forzata, ma non contro le gare e la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Tutto questo si può fare immediatamente senza bisogno di riforme costituzionali.
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<b>6.</b> Politiche industriali per la crescita. Il Pd propone di adottare subito misure concrete per alleggerire gli oneri sociali e un pacchetto di progetti per l’efficienza energetica, la tecnologia italiana e la ricerca, con particolare riferimento alle risorse potenziali e sollecitabili del Mezzogiorno. Sarebbe un errore imperdonabile intervenire sul controllo dei conti pubblici senza mettere in campo, sia pure limitatamente alle risorse disponibili, un pacchetto di stimoli alla crescita e per l’occupazione. In questo contesto rientra anche l’implementazione dei più recenti accordi tra le parti sociali senza intromissioni che ledano la loro autonomia.
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<b>7.</b> Pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. In Italia la riduzione della spesa deve riguardare non tanto sulla spesa sociale, ma l’area della Pubblica Amministrazione, le istituzioni politiche e i settori collegati. A Cominciare dal Parlamento: il primo passo è il dimezzamento del numero dei parlamentari. Il Pd ha presentato da tre anni proposte specifiche su questo punto.
<p>Su sollecitazione dei gruppi parlamentari del Pd la discussione su questi progetti è stata calendarizzata in Parlamento per settembre. Si agisca immediatamente. Da lì in giù, bisogna intervenire su Regioni, Province, Comuni con lo snellimento degli organi, l’accorpamento dei piccoli comuni, il dimezzamento o più delle province secondo l’emendamento presentato dal Pd e dall’Udc alla manovra di luglio o, in alternativa, riconducendole ad organi di secondo livello, accorpamento degli uffici periferici dello Stato, dimezzamento delle società pubbliche, centralizzazione e controllo stretto per l’acquisto di beni e servizi nella pubblica amministrazione. In più: la ripresa di un vero lavoro di spending review, interrotto dal governo Berlusconi, dal punto di vista di una politica industriale per la pubblica amministrazione. Il Pd ha proposte specifiche su ciascuno di questi punti. In particolare sui costi della politica il riferimento è il programma contenuto nell’ordine del giorno presentato due settimane or sono in Parlamento.
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La manovra economica che il paese si appresta ad applicare rappresenta un passaggio necessario, ma molto severo. Il Pd eserciterà tutta la propria responsabilità di partito nazionale e alternativo. Ma oggi non si può tacere che se il paese si trova più esposto di altri sul fronte della crisi questo si deve alla responsabilità politica del governo e della sua maggioranza. L’Italia è un grande paese. Ha risorse e capacità. Tre anni fa il debito pubblico era al 104 per cento del Pil, la spesa pubblica era meno forte, le banche non avevano investito somme ingenti nei derivati e nei prodotti finanziari più fragili. Sarebbe bastato non bruciare inutilmente le risorse disponibili, riconoscere la crisi ed avviare un pacchetto di interventi per sostenere la crescita. Per tre anni, pur di fronte agli avvertimenti, all’allarme e alle proposte dell’opposizione, il governo ha negato la crisi e non ha fatto irresponsabilmente nulla.
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Il Partito Democratico, responsabile e alternativo, si carica oggi di questa sfida e si propone per offrire al paese un’alternativa credibile, più efficiente, più giusta, in modo che l’Italia possa voltare pagina e riprendere il suo cammino di crescita.
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Sulla base di questi primi ed altri elementi di proposta, conclude il segretario nazionale del Pd, dal 20 agosto in poi, una volta esaminato il testo presentato dal Consiglio dei ministri, ci rivolgeremo alle forze sociali e alle opposizioni per aprire un confronto volto a perfezionare una più compiuta proposta alternativa agli interventi del governo, a presentare gli emendamenti in Parlamento ed a sollecitare il sostegno dell’opinione pubblica per il cambiamento di una manovra depressiva, poco credibile e ingiusta. <br />
<br/>fonte: <a href="http://beta.partitodemocratico.it/doc/214890/primi-elementi-per-una-manovra-alternativa-del-partito-democratico.htm?utm_source=MailingList&utm_medium=email&utm_campaign=20110813+-+Democratica+-+contro+manovra">sito web ufficiale </a>Pietro ICHINO: La linea "chiara" del Pd non è il "pensiero unico"2011-06-28T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it589448Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Caro Direttore, <br />
Federico Orlando vuole scrivere un pezzo sul tema "Perché l`intellighenzia critica il suo partito quando vince?" e decide di creare una lettera fittizia che gli dia l`occasione per scriverlo (Europa, 24 giugno).<br />
Niente di male. Senonché questa idea - dice ora Orlando (Europa, 25 giugno) - gli è venuta leggendo «le affermazioni di Ichino nella tavola rotonda con Fassina e Alleva sull`ultimo numero di Micromega», che poi ha confuso con l`editoriale di Ricolfi sulla Stampa. Ma come è possibile costruire una polemica sulla confusione
fra le 30 pagine di una tavola rotonda in tema di politica del lavoro pubblicate in una rivista mensile, con l`editoriale pubblicato in prima pagina da un quotidiano, dedicato a tutt`altro argomento (l`esito dei referendum)? La cosa più curiosa di tutte, poi, è che in quella tavola rotonda ora pubblicata da Micromega non esprimevo alcuna critica nei confronti del Partito democratico: perla precisione, né il Pd né alcun suo atto o documento è mai nominato, in alcuno dei tre interventi che ho svolto in quel dibattito. Mi limitavo a discutere molto pacatamente con il responsabile dell`Economia dello stesso Pd e con un giuslavorista molto vicino alla Cgil sul modo migliore per superare il dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. Che senso ha indicare nella mia partecipazione a quel dibattito la manifestazione di una «troppo frequente insoddisfazione di alcuni intellettuali verso il proprio partito»? O dobbiamo pensare che secondo Federico Orlando la disciplina di partito vietidi discutere le opinioni del responsabile dell`Economia del partito stesso?
<p>Per pura coincidenza venerdì scorso stavo partecipando alla Direzione del Pd, nel corso della quale, poco dopo aver letto su Europa la "risposta` di Federico Orlando all`immaginario lettore, ho sentito Cesare Damiano concludere il suo intervento con la stessa frase con la quale egli aveva commentato pochi giorni prima le conclusioni dell`Assemblea programmatica del Pd sul lavoro e le relazioni industriali: «C`è stato un dibattito aperto, ma ora sulla politica del lavoro il partito ha deciso la sua linea e tutti devono farla valere con una voce sola; non deve accadere che il giorno dopo leggiamo la solita intervista su di una linea diversa».
<p>Mi è parso di percepire, in questa conclusione dell`ex-ministro del Lavoro, il significato serio dell`intervento un po` sgangherato di Federico Orlando su Europa: basta con questi intellettuali saccenti e permanentemente insoddisfatti, il partito ha bisogno di più unità e più disciplina da parte di tutti! Ma nell`intervento di Orlando c`è qualche cosa di più rispetto a quello di Damiano: ora che il partito ha vinto le elezioni, viene meno il motivo del discutere. E un avvertimento implicito: comunque il partito, ora che ha vinto, ha anche la forza per far valere quella disciplina.
<p> Se è così, non posso che dissentire da questa istanza di Federico Orlando (e di Cesare Damiano): a norma dello statuto, oltre che di un elementare buon senso democratico, la disciplina di partito vincola soltanto nel momento del voto, non nel momento dello studio, dell`elaborazione e del dibattito, anche di quello che si svolge pubblicamente sulle pagine dei giornali.
<p>Sono convinto di quel che ho detto in apertura del mio intervento all`Assemblea di Genova: l`unità che rende forte il Partito democratico non è quella che nasce da un "pensiero unico", secondo il modello del partito monolitico del secolo scorso, ma è quella che nasce dalla volontà di stare insieme di persone con idee e retroterra culturali diversi.
<p>Il partito ha bisogno di una linea chiara, certo, ma anche di una attività di elaborazione e dibattito continuo, fonte di un patrimonio di idee e materiali programmatici che guardino anche al di là del politicamente possibile oggi, per costruire fin d`ora anche il politicamente possibile domani. Dell`utilità di questo patrimonio, del resto, proprio in materia di politica del lavoro abbiamo una prova evidente proprio in questi giorni: il partito dovrà pur aggiornare rapidamente il suo programma su questo terreno, dopo che le due parole d`ordine principali approvate dall`Assemblea di Genova due settimane fa - in materia di parificazione della contribuzione previdenziale e in materia di apprendistato - sono state immediatamente fatte proprie dal governo.
<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=11K8DS">Europa</a>Pietro ICHINO: Chi ha paura del modello tedesco ?2011-06-20T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it585181Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Caro Direttore, <br />
sono in molti ad attendersi che i giudici del <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=11C0YI"><b>lavoro</b></a>, cui la Fiom ha fatto ricorso contro gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori, decidano la sorte del contratto collettivo nazionale di lavoro e dei suoi rapporti con la contrattazione aziendale. Comunque vadano i giudizi, quelle attese andranno deluse. A Torino l’altro ieri il giudice ha avvertito le parti in causa che i contratti stipulati sono in sé legittimi: dunque produrranno i loro effetti quale che sia la sentenza, la quale verterà soltanto sul punto se ci sia stata o no una violazione procedurale ai danni della Fiom e quali debbano essere le procedure sindacali da seguire per l’attivazione dei nuovi stabilimenti.
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La questione della struttura della contrattazione collettiva devono dunque risolverla Confindustria e sindacati, che si incontrano domani per discuterne. E, se a quel tavolo non si arriverà a un grande accordo interconfederale sottoscritto da tutti – come riuscì a ottenere nel luglio 1993 il ministro del Lavoro Giugni, con un’opera di sapiente tessitura e cucitura – questa volta tutti concordano che debba essere il legislatore a sciogliere il nodo. <br />
Anche il protocollo firmato nel 1993 da tutti i sindacati, del resto, prevedeva la necessità di un intervento legislativo in materia di rappresentanza sindacale e di efficacia dei contratti collettivi di diverso livello.
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Se ne è discusso a Genova nei giorni scorsi, nell’assemblea programmatica del Pd, con la partecipazione anche dei segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e del direttore generale di Confindustria. Uno spettatore non esperto di politichese e di sindacalese avrebbe stentato a cogliere le differenze di orientamento negli interventi che si sono susseguiti su questo punto. Tutti – anche il rappresentante degli industriali ‑ hanno sottolineato l’irrinunciabilità del contratto collettivo nazionale. Per un motivo molto semplice e da tutti condiviso: due terzi dei lavoratori italiani non sono coperti dalla contrattazione aziendale.
<p>Se dunque non ci fosse il contratto nazionale, questi due terzi dei rapporti di lavoro resterebbero senza regole sulle materie riservate alla contrattazione collettiva (soprattutto retribuzione e inquadramento professionale).
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La questione cruciale – sulla quale però il dibattito e il documento conclusivo dell’assise di Genova sono stati molto vaghi ‑ è se, a quali condizioni ed entro quali limiti il contratto aziendale possa sostituire la disciplina contenuta in quello nazionale. È la questione che la vicenda Fiat ha posto bruscamente all’ordine del giorno delle relazioni industriali italiane, strappando la tela non soltanto del protocollo del 1993, ma anche dell’accordo del 2009 con cui Cisl, Uil e Confindustria, al costo di uno scontro durissimo con la Cgil, avevano molto timidamente aperto alcuni spazi di derogabilità del contratto nazionale.
<p>Se si toglie la Fiom, che si batte per il ripristino integrale del vecchio assetto della contrattazione collettiva, oggi l’opinione che va per la maggiore nelle organizzazioni sindacali, Cgil compresa, e nel Pd è che si debba andare in direzione di uno “snellimento” del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità, per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale. Senonché, se “snellimento” significa riduzione del contenuto del contratto, in tutta la vasta area dove la contrattazione aziendale ancora non riesce ad arrivare questo necessariamente riduce la protezione dei lavoratori.
<p>Logica vuole, dunque, che il contratto collettivo nazionale conservi la sua capacità di regolare compiutamente il lavoro in quella vasta area; ma questo implica che la contrattazione aziendale possa più largamente sostituire la disciplina nazionale. Quanto largamente? Molto.
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Nell’era della globalizzazione, il sindacato deve poter negoziare a 360 gradi su piani industriali anche fortemente innovativi in materia di organizzazione del lavoro, di struttura delle retribuzioni, di distribuzione dei tempi di lavoro. E deve poterlo fare in azienda; perché è al livello aziendale, non a quello di un intero settore, che l’innovazione si presenta nella fase iniziale della sua diffusione. È vero che non tutta l’innovazione è buona; ma se per paura di quella cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, il Paese continua a non crescere. E gli investimenti stranieri si fermano alle Alpi.
<p>Nella Germania che è stata per decenni la patria del modello della contrattazione centralizzata, da diversi anni si è introdotta la regola che consente al contratto aziendale di sostituire il contratto nazionale in parte o anche del tutto. Perché mai ciò che sta dando buona prova in Germania dovrebbe essere impraticabile in Italia?
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D’altra parte, sindacati e Confindustria possono benissimo accordarsi per mettere briglie più strette alla contrattazione aziendale. Ma non possono impedire a un imprenditore di tenersi fuori dal loro gioco. Se dunque essi vogliono evitare che la riforma della contrattazione la facciano di fatto le imprese non associandosi a Confindustria, faranno bene a guardare con più attenzione e meno chiusure mentali al modello tedesco.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=11C03D">Corriere della Sera</a>Nichi VENDOLA: «Alleanza Sel, Pd, Fli, Udc, Api? No, è contro natura: vogliono far fuori Di Pietro e usarlo come vittima sacrificale» - INTERVISTA2011-02-06T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557800Alla data della dichiarazione: Pres. Giunta Regione Puglia (Partito: CEN-SIN(LS.CIVICHE)) - Consigliere Regione Puglia<br/><br/><br />Con Fini no, con Casini nì.
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<b>Vendola, dopo giorni di sussurri, ora ci deve una risposta. La fa o no questa «santa allenza» con Pd e terzo polo?</b>
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Rispondo ma prima devo fare una premessa.
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<b>Prego.</b>
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Il partito democratico è il perno fondamentale di qualsiasi costruzione alternativa al berlusconismo e nessuno può immaginare di sfuggire a questo confronto che - prima di tutto - è necessario per l'Italia. E tuttavia al carattere «necessitato» di questo confronto non si può sacrificare l'esercizio di una critica seria.
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<b>Vendola, «santa alleanza» sì o no?</b>
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La proposta di «union sacrée» contro Berlusconi è strategicamente priva di qualsiasi fondamento ed è tatticamente un suicidio.
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<b>Un suicidio addirittura. Perché?</b>
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Perché è frutto di un non voler intendere la vera natura del progetto di Gianfranco Fini che è legata a una critica da destra della destra Berlusconiana. Il progetto di Fini propone la rifondazione di un campo politico che è proprio di una destra moderna e europea, segnata dagli ingredienti del liberismo economico e del laicismo culturale.
Una destra «per bene» tutto sommata ma sempre destra.<br />
Io rispetto molto i miei interlocutori politici e considero Fini un uomo degno di grande rispetto e attenzione. Non capisco perché debba manipolarne le idee e quell'impianto politico-culturale che sta tra una certa nostalgia dell'eleganza di Giorgio Almirante e la costruzione di una destra a la Chirac. Io prendo seriamente il suo progetto, ma quello resta il suo progetto. Io cosa possa fare con Fini? Posso cambiare la legge elettorale, posso fare una legge sul conflitto di interessi e regolare il sistema dell'informazione. Punto.
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<b>Fini è liquidato ma resta l'alleanza. Pd, Fli, Udc, Api. Non le sembra un po' troppo?</b>
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Infatti. Possibile che l'emergenza sia tale da essere costretti a comporre un quadro di alleanze contro natura con un solo agnello di dio, con una sola vittima sacrificale che verrebbe espunta da questo rassemblement? E la vittima è Di Pietro.
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<b>Già, perché Di Pietro no e Vendola sì?</b>
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Perché il disegno è quello di un terzo polo che ingloba il Pd, trascina in posizione subordinata e con la coda tra le gambe Vendola e offre a Casini anche lo scalpo dei cosiddetti giustizialisti.
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<b>Non è che i giustizialisti piacciono a tutti.</b>
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Il giustizialismo è un veleno della cultura e della politica che ha infettato tutte le case di tutti gli schieramenti. Contro il giustizialismo delle idee - che oggi ha un segno di classe che parla di contenimento e di galera per i poveri cristi - io sono disponibile a fare una battaglia. Non sono però disponibile a regalare uno scalpo a chi intenderebbe così portarsi a casa una dote ricca di significati.
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<b>Eppure il «Corsera» ieri dava per certa la sua apertura a Casini.</b>
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Io non ho mai esercitato un diritto di veto nei confronti di chicchessia. E non ho mai detto con Casini mai. L'unico problema che ho posto è quello dell'apertura di un cantiere in cui ci si possa confrontare «all'aperto».
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<b>Con Fini no, con Casini si discute. Ma col Pd che si fa, soprattutto rispetto al tema del lavoro, vedi Mirafiori?</b>
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Ho notato il turbamento di Fassino e Chiamparino rispetto ai nuovi annunci di Marchionne e spero almeno che da questo momento in poi si smetta di chiudere la discussione con un atteggiamento di saccenteria che non ha ragion d'essere. <br />
E' il Pd che ha sbagliato non vedendo il ricatto di Pomigliano e Mirafiori.
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<b>Un giudizio pesante. Sono pur sempre alcuni tra gli eredi del Pci.</b>
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Il Pd non ha capito il doppio movimento che in quelle vicende si è consumato. Di colonizzazione europea da parte della Chrysler - a cominciare dall'Italia - e di devastazione delle relazioni industriali costruite nel corso del '900. Non a caso il Pd non replica nel merito quando Berlusconi e Tremonti dicono di cambiare l'art. 41 della Costituzione. Come se quello fosse un terreno sul quale è possibile aprire una discussione.
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<b>L'articolo 41 non si tocca. E il Pd non si è proprio strappato le vesti per difenderlo.</b>
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Per Berlusconi si tratta di «scrivere» Marchionne là dove c'era «scritto» art. 41. <br />
Si tratta di costituzionalizzare il principio di irresponsabilità sociale e ambientale dell'impresa. Su questo terreno c'è fino in fondo il profilo culturale della destra. E la sinistra? Dov'è il lavoro? E i riformisti? esiste un riformismo possibile se non si aggancia alla terra di lavoro? Possibile che il riformismo si sia ridotto a una mediocre apologia del turbocapitalismo nella sua fase più disumana e più irrazionale?
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<b>Appunto, «e la sinistra?».</b>
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Noi abbiamo la necessità di mettere in campo un nuovo centrosinistra e di aprire subito il cantiere, quello di una ricerca programmatica che incontri le questioni nodali di questo passaggio d'epoca. In un cantiere programmatico abbiamo bisogno di trovare risposte condivise sul terreno decisivo della redistribuzione delle ricchezze e della lotta contro la povertà.
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<b>Una materia, quella del lavoro, in cui ultimamente più agguerrita del Pd sembra l'Idv. Non sarebbe meglio allearsi con chi le battaglie dei metalmeccanici le ha sostenute?</b>
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Io non voglio discutere di forze politiche, né di vincoli e paletti. Non voglio discutere di veti e di interdizioni ma dell'Italia, della sua crisi, del suo dolore, delle sue speranze. E tutti coloro che sono disponibili a mettere in campo un programma alternativo fondato sul primato dei beni comuni, sulla difesa del lavoro inteso non come merce, sugli investimenti nella cultura e nella pubblica istruzione, sulla lotta sociale contro il maschilismo e le sue patetiche performance dentro la scena pubblica.
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<b>Troppo di sinistra per il Pd. Non è che le stanno tendendo un tranello e che sotto alle lusinghe del Pd c'è il solito zampino di D'Alema?</b>
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Loro di due cose si devono convincere. Del fatto che difficilmente potranno determinare le condizioni perché il mio partito svolga un ruolo gregario.
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<b>La seconda?</b>
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L'idea che il senso della mia iniziativa sia quello di lanciare un'Opa sul partito democratico.
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<b>Ecco, l'Opa sul Pd. Tutti sono convinti che questo sia il suo obiettivo.</b>
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Altri l'hanno lanciata - non io - settori della borghesia d'impresa, centri del potere economico del nostro paese, per non parlare del fatto che anche una parte del disegno centrista è proprio quella di cannibalizzare il partito democratico. Sbaglio o Rutelli oggi è un leader del terzo polo?
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<b>Sì Rutelli è un leader del terzo Polo. E a molti non piacerebbe che lo diventasse anche Nichi Vendola.</b>
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Io sono leale e ho un'unica ambizione. Vorrei che il piccolo e meschino tirassegno nei miei confronti si interrompesse. Perché la mia ambizione non è quella di sovrapporre la mia carriera alle sorti del paese. Eviterei questo genere di torsioni polemiche perché si possono facilmente capovolgere su chi le promuove. Quindi se potessimo mettere al bando questo livello di meschinità - e parlo di alcuni leader Pd - ne guadagneremmo tutti quanti in stile e in salute politica.
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<b>Se ne approfitta. Dall'assemblea nazionale il Pd non ne è uscito molto bene.</b>
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Quell'assemblea descrive una condizione di sofferenza, una frammanentazione di lotte intestine portata a conseguenze catastrofiche. <br />
Ma è un problema del Pd.
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<b>E un altro problema del Pd sono le primarie.</b>
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Se il Pd non vuole rompersi la testa e non vuole andare a sbattere non può sgombrare il campo da uno strumento che in tutta evidenza risulta essere la dotazione di un'energia supplementare, l'apertura di un processa democratico e culturale che rende credibile la parola d'ordine dell'alternativa al berlusconismo. Chi gioca al depotenziamento, al sabotaggio o all'esorcismo del tema delle primarie sta giocando col fuoco.<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.facebook.com/note.php?note_id=191881930839298&id=107617112602504&ref=mf">Il Manifesto - Iaia Vantaggiato</a>Pietro ICHINO: Sulla Fiat e sul Pd. «Rompiamo con i tabù del lavoro» - INTERVISTA2011-01-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557513Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
<b>Lei ha detto che il vero problema del caso Fiat sono i mancati investimenti stranieri diretti. Ma è solo il nostro diritto del lavoro la causa del mancato arrivo?</b>
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No: le cause sono molte e di vario genere: in particolare, il difetto di efficienza delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, l’alto costo dei servizi alle imprese dovuto a difetto di concorrenza nei rispettivi mercati, la mancanza di una cultura della legalità diffusa. Ma tra le cause della chiusura del nostro Paese agli investimenti stranieri c’è anche la vischiosità e inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali. E io ci aggiungo l’ipertrofia, la complicatezza e la non traducibilità in inglese della nostra legislazione di fonte nazionale in materia di rapporto di lavoro.
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<b>A sinistra è forte l’opinione sui contratti Fiat che infrangono la legge ed addirittura la Costituzione.</b>
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La vera questione non sta in un contrasto tra quei contratti e il nostro ordinamento: la vera questione sta nel fatto che essi derogano al contratto collettivo nazionale. Questo è il vero tabù che è stato violato.
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<b>Perché lei è radicalmente contrario a chi sostiene la tesi della sostanziale intangibilità del CCNL?</b>
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“Radicalmente” è forse un avverbio eccessivo. Ma mi sembra che chi sostiene quella tesi confonda il ruolo del contratto collettivo con quello della legge. Solo la legge ha la funzione di sancire diritti tendenzialmente stabili nel tempo e uguali per tutti; il contratto, invece, serve proprio per consentire una modulazione del regolamento in esso contenuto, in relazione alle circostanze e ad equilibri di interessi che mutano nel tempo.
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<b>Il dibattito sul contratto Fiat mostra l’arretratezza delle relazioni industriali del nostro Paese. Bisogna dare più autonomia alle parti sociali o nuove regole legislative?</b>
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Occorrono entrambe le cose. L’autonomia contrattuale ha bisogno, per potersi espandere al massimo, di una buona cornice di regole semplici, non intrusive e stabili nel tempo.
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<b>Il caso Fiom Fiat ha mostrato un posizionamento incerto della nuova segretaria Camusso, prima distaccatasi dalla Fiom, poi invece l’ha seguita.</b>
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Probabilmente c’è un po’ di tattica in questo comportamento. Ma, conoscendo Susanna Camusso da trent’anni, non dispero che riesca a tirare fuori la Cgil dal vicolo cieco in cui si è cacciata.
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<b>Da tesserato Cgil lei pensa che la sua organizzazione possa esprimere una maggioranza riformista?</b>
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Certo che sì! Una larga maggioranza degli iscritti percepisce la necessità di uno svecchiamento della cultura sindacale e industriale della Cgil.
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<b>Si sente isolato nella sua battaglia politico culturale di innovare il centrosinistra lavoro? Ha notato un progresso o un arretramento dalla sua discesa in campo in politica, a partire dalla mancata attenzione ai veri scandali del mondo del lavoro, finte partite Iva in testa?</b>
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Isolato proprio no: i miei due disegni di legge più importanti, quelli per il nuovo Codice del lavoro semplificato, sono stati firmati dalla maggioranza dei senatori del Pd e sono stati fatti propri dal Movimento Democratico di Veltroni. Il 10 novembre scorso, poi, il Senato ha votato a larghissima maggioranza una mozione che impegna il Governo a varare un nuovo Codice del lavoro semplificato modellato proprio sul <a href="http://www.pietroichino.it/?p=4896"><b>disegno di legge n. 1873</b></a>. E sono quotidianamente assediato dai giornalisti che mi chiedono interviste, mediamente una al giorno; e dalle federazioni e i circoli del Pd di tutta Italia che mi chiedono di organizzare incontri pubblici con me: dall’inizio della legislatura ne ho fatti quasi trecento. Tre anni fa, quando accettai la candidatura al Senato, non speravo certo di arrivare a tanto in così breve tempo.
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<b>Lei è tra le personalità più prestigiose candidate da Veltroni nel 2008. Da allora è cambiato molto, e parecchie persone hanno abbandonato il PD. Come valuta la segreteria Bersani, troppo poco riformista secondo lei come sostengono alcuni dei suoi critici?</b>
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Il Pd ha difficoltà a esprimere scelte chiare e nette sulle questioni cruciali: c’è indubbiamente, per questo aspetto, un difetto di leadership, che però non è certo imputabile soltanto a Bersani. D’alta parte, dobbiamo anche abituarci all’idea di un grande partito nel quale convivono molte anime, molte componenti. E poi è ancora un partito molto giovane, che deve ancora farsi un po’ le ossa ed esprimere un nuovo gruppo dirigente. Certo, sarebbe stato meglio che questo processo di maturazione fosse stato più rapido. Ma l’impazienza, in politica, è cattiva consigliera.
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<b>Vendola ha parlato di schiavismo riferendosi a Marchionne. Un’alleanza con il suo partito è compatibile con un centrosinistra riformista?</b>
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Un grande partito di centrosinistra “a vocazione maggioritaria”, quale il Pd vuole e deve essere, deve essere capace di ospitare al suo interno anche minoranze di sinistra che la pensano come Vendola. Ma se quel modo di pensare diventasse in qualche modo dominante nel partito, vorrebbe dire che la vocazione maggioritaria è stata sostituita da una vocazione minoritaria.
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<b>Le elezioni potrebbero essere a breve. Quali sono le sue priorità programmatiche per il programma del Pd?</b>
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I <a href="http://www.pietroichino.it/?p=12350">cinque punti enunciati da Veltroni</a> al Lingotto sabato scorso:<br />
abbattimento del debito dal 120 all’80 per cento del Pil in cinque anni; nuove relazioni industriali per favorire la scommessa comune di lavoratori e imprenditori sui piani industriali innovativi e l’apertura del nostro Paese agli investimenti stranieri; flexsecurity contro l’apartheid nel mercato del lavoro; detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile per produrre uno shock positivo sul tasso di occupazione femminile e un fisco più friendly verso il lavoro autonomo di nuova generazione; investimenti su istruzione, ricerca e bellezza del Paese.<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.giornalettismo.com/archives/111117/pietro-ichino-bisogna-rompere-con-i-tabu-del-lavoro/">Giornalettismo.com - Andrea Mollica</a>Cesare DAMIANO: Salviamo il contratto2011-01-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557385Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Federmeccanica sbaglia. Non è sostituendo il contratto nazionale di lavoro con il contratto aziendale che si forniscono alle imprese gli strumenti per essere competitive. Nel tentativo di rincorrere Marchionne e convincere la Fiat a rientrare in Confindustria, l'idea degli industriali metalmeccanici serve solo a scardinare il sistema contrattuale. Con gravissimo danno per i lavoratori e senza vantaggi per le imprese.
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Gli effetti pratici della proposta sono facili da individuare. Nelle imprese poco sindacalizzate verrebbero meno le tutele minime, con un peggioramento delle condizioni di lavoro e un incremento delle disuguaglianze, soprattutto salariali. Ma anche nelle aziende di più grande dimensione assisteremmo a una progressiva fuga dal contratto nazionale per stipulare accordi aziendali al ribasso. Un far west in cui le retribuzioni finirebbero per essere inferiori rispetto a quelle attuali. E il tutto senza che le imprese abbiano benefici di prospettiva.
<p> Non è comprimendo il sette per cento di costo del lavoro (tanto pesa mediamente la retribuzione di un operaio sul valore di un'automobile) che si possono ottenere i risparmi necessari per battere la concorrenza. E non è con la corsa al ribasso che si vince la sfida della qualità e dell'innovazione. La Germania insegna.
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Ciò non significa che sul piano delle relazioni industriali le cose vadano bene così. Ma è un'altra la strada da battere. Il contratto nazionale, soprattutto quello dei metalmeccanici, andrebbe riformato, non cancellato. Oggi non è niù un contenitore adeguato a rispondere alle esigenze delle imprese e dei lavoratori. E' insieme troppo grande e troppo piccolo. E' troppo diversificato al suo interno. Disciplina allo stesso modo, sia sotto il profilo salariale che normativo (flessibilità, turni ed orari compresi), attività spesso con esigenze profondamente diverse.<br />
Dall'operaio della catena di montaggio e dello stampaggio a caldo, all'ingegnere aerospaziale.
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Per questo i contratti vanno trasformati in "contratti cornice" che si limitino a tratteggiare le linee essenziali del rapporto di lavoro, dentro i quali possano trovare posto diverse normative di settore (auto, siderurgia ecc.), per ciò che riguarda i temi della competitività e della produttività, ritagliati sulle esigenze specifiche dei mercati entro i quali le diverse aziende operano. In questa direzione esiste una consolidata tradizione del sindacato dei chimici con i contratti di comparto. <br />
Di pari passo va rilanciata la contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, oggi in difficoltà.
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Soprattutto, però, la nuova dimensione settoriale va collocata in un ambito internazionale. In prospettiva, il punto d'approdo per settori in cui operano grandi imprese multinazionali non può che essere il contratto europeo. Per aziende come la Fiat le clausole riguardanti l'utilizzo degli impianti e le prestazioni lavorative devono essere simili (non uguali) per gli stabilimenti italiani, serbi, polacchi o turchi. In caso diverso, il nostro destino è segnato. <br />
Ma buttare a mare il contratto nazionale sarebbe una sciocchezza. <br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=X0SWK">Europa</a>Nichi VENDOLA: «Nessun veto sulle alleanze. Ma Walter sbaglia su Marchionne» - INTERVISTA2011-01-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557256Alla data della dichiarazione: Pres. Giunta Regione Puglia (Partito: CEN-SIN(LS.CIVICHE)) - Consigliere Regione Puglia<br/><br/><br />
Per lui l´ad della Fiat è sinonimo di modernità, per me di autoritarismo. Per me le primarie sono un valore aggiunto. Cancellarle renderebbe molto debole la figura del candidato premier. Governo di transizione? Piuttosto si torni presto alle urne: questa è una vera necessità democratica.
<p> «Veltroni apre nei miei confronti. Dice: "Tu sei un alleato necessario, svolgi un ruolo prezioso, quello di coprire con la tua radicalità la parte della sinistra"».<br />
Nichi Vendola, il leader di Sel, al "Lingotto 2" è stato una sorta di convitato di pietra.
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<b>Vendola, veramente Veltroni ha marcato la distanza tra i Democratici e lei. Ha giudicato del tutto sbagliato il suo giudizio negativo su Marchionne e fuori luogo paragonare Carlo Giuliani a Falcone.</b>
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«Poiché Walter pensa che questa sinistra debba essere in posizione subordinata indica due questioni su cui svolge una critica di merito. Su Marchionne. Per Veltroni è <i>un'icona</i> della modernità; per me propone un capitalismo autoritario. Faccio notare che un giornalista prestigioso come Galli della Loggia di fronte alla vicenda Mirafiori ha detto che è ormai tempo di riconoscere che i diritti sociali sono incompatibili con la globalizzazione dei mercati e perciò cambiare la Costituzione.<br />
È questo che vuole Veltroni? Non è ultraconservatore non affrontare il tema della mobilità sostenibile? Da sei anni governo una grande regione come la Puglia, non sopporto le etichette di riformista o radicale. Su Carlo Giuliani. Controlli su internet, non l´ho mai paragonato a Falcone. Non buttiamoci tra i piedi trappole politico-mediatiche».
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<b>Non si sente tenuto fuori dalla porta?</b>
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«I punti di divergenza riguardano la nostra idea di modernità. Ma sulla costruzione di un´alleanza larga non pongo veti. Però ci vuole una bussola e la questione morale ne è il primo punto. L´involgarimento della politica produce pervasività; le dinamiche corruttive sono una problema anche del centrosinistra. E poi al centro dobbiamo avere i temi di un paese che deve riconvertire il proprio modello di sviluppo. Nessuno è proprietario di una ricetta salvifica. Ma tanti cedimenti alle cultura liberista hanno prodotto danni alla sinistra e al paese. Ci vuole una contesa delle idee, avendo noi il coraggio di dire basta: si metta punto alla crisi del paese e si torni alle urne perché questa è una necessità democratica».
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<b>Non è d´accordo su un governo di transizione?</b>
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«Finora non andare alle urne ha acuito la crisi e il degrado. A Walter poi dico: sei sicuro che Marchionne rappresenti gli interessi del sistema d´impresa? E la fuoriuscita da una lunga storia di relazioni industriali rischia di diventare una fatale crisi dell´autonomia del sindacato che è stato garante del compromesso tra capitale e lavoro. Perché la modernità non è mai un miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone?».
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<b>Torniamo alle alleanze. Niente veti vuol dire che le starebbe bene un patto anche con Casini e Fini?</b>
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«Fini credo che abbia conclusivamente recintato il proprio partito dentro al centrodestra. Non mi pare il caso di produrre ulteriore confusione nel marasma della politica italiana. Affrontiamo il problema di come si salva l´Italia, di come si esce da questo vergognoso pantano».
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<b>Unione sepolta?</b>
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«L´Unione, in quanto faticosissimo condominio in cui ciascuno sventolava la propria bandierina, è inadeguata a questo passaggio d´epoca».
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<b>In questa fase di emergenza, potrebbero saltare le primarie: forse con qualche ragione.</b>
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«Le primarie sono un valore aggiunto e aiutano un pezzo grande del paese a ritrovare il filo rosso della speranza. Cancellarle renderebbe molto debole la figura del candidato premier del centrosinistra».
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<b>Preferirebbe sfidare Veltroni o Bersani?</b>
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«Mi piace discutere delle loro idee, piuttosto che dare giudizi sbrigativi come qualche volta il Pd fa nei miei confronti».<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WXYM6">la Repubblica - Giovanna Casadio</a>VALTER VELTRONI: Al Lingotto2011-01-22T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it557210Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
"Berlusconi faccia un passo indietro e si dimetta nell'interessa dell'Italia". Così Valter Veltroni ha aperto la convention del movimento democratico al Lingotto di Torino. Quelle dette da Berlusconi "sono parole agghiaccianti". "Abbiamo visto un uomo di Governo che minaccia i giudici e la cosa più grave è che lo fa davanti al tricolore.
Quel tricolore per il quale molti magistrati hanno dato la vita".
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Se il Pd vuole "tornare a conquistare il cuore degli italiani", dovrà avere il coraggio di abbandonare strategie che si sono rivelate fallimentari. "Tre sono le condizioni" affinchè il partito democratico possa essere "protagonista del futuro", ha detto l'ex segretario del Pd. <br />
"La prima è liberarsi dalla tentazione di un populismo di sinistra", ha detto, "il populismo di Berlusconi si batte con il riformismo". Poi, "dobbiamo affrancarci dall'illusione frontista, dalla coazione a ripetere, a costruire schieramenti eterogenei solo contro gli avversari e poi non capaci di reggere la prova del governo. Non si vince senza una credibile coalizione". <br />
Terzo, "bisogna avere il coraggio dell'innovazione. Il motto dei democratici deve essere non difendere ma cambiare. Il Pd deve orientare il cambiamento".
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Il Pd deve "proporre agli italiani una visione del futuro, un progetto coraggioso di cambiamento ed una proposta di Governo autorevole". Solo così il Partito Democratico "può tornare a crescere a riconquistare le menti e i cuori degli italiani, fino a rendere realistico l'obiettivo di diventare il primo partito del Paese, il promotore ed il protagonista di quel ciclo riformatore solido e duraturo che l'Italia non ha mai conosciuto nella sua storia".
<p>"Usciamo insieme da questa paralisi pericolosa, le stesse persone più avvedute del centrodestra non vedono l'ora che finisca. Saranno giorni difficili perchè Berlusconi non ha alcuna idea di cosa significhi il senso dello Stato. Penso che in questa delicata fase della vita parlamentare, le forze di opposizioni dovrebbero trovare più stabili forme di coordinamento e di consultazione che, nel rispetto dell'autonomia di ciascuno e senza prefigurare alcunchè, consentano di evitare forzature o violazioni nel ruolo del Parlamento. E mostrino tutta intera la forza delle opposizioni".
<p> MIRAFIORI
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Ai lavoratori che hanno detto sì ai referendum di Pomigliano e Mirafiori, un "sì contrastato e sofferto", deve andare "il rispetto, l'ammirazione, la gratitudine di tutti gli italiani. Così come occorre comprendere le ragioni del no e con esse dialogare". "Il successo dell'operazione Fiat-Chrysler è di importanza strategica per il futuro del Paese. E per questo, abbiamo espresso un convinto consenso ai pur difficili e dolorosi accordi di Pomigliano e su Mirafiori". Veltroni riconosce che sono accordi che chiedono un supplemento di impegno, di fatica e di disciplina, a lavoratori che già vivono condizioni di lavoro pesanti, in cambio di retribuzioni certamente inadeguate ma senza gli accordi non ci sarebbe stato l'investimento: Napoli, Torino, l'Italia avrebbero visto ridimensionata una presenza industriale che deve invece essere conservata e rilanciata".
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"Con gli accordi Fiat ora è chiamata a confermare ed estendere il suo radicamento in Italia. Ed è chiamata a mostrare la sua forza inventando prodotti competitivi sui mercati. Con gli accordi, per i sindacati, la cui unità non dobbiamo mai smettere di cercare e promuovere, per le imprese e per la politica, si è aperta una fase nuova, una stagione paragonabile a quella in cui si affermò una nuova legislazione del lavoro, ormai decine di anni fa".
<p>In Italia è necessario stabilire "nuove relazioni industriali" e "ridefinire, in questo contesto, le regole della rappresentanza, per fare non meno, ma più contrattazione collettiva, in un contesto sicuro di diritti e doveri per ciascuna organizzazione". "La via maestra è quella dell'accordo interconfederale, eventualmente tradotto poi in norma di legge. Ma sono 13 anni che se ne parla. Ha quindi ragione Pietro Ichino, quando propone, in carenza di accordo, di approvare una legge, che attribuisca alla coalizione sindacale maggoritaria il potere di negoziare con efficacia per tutti e al sindacato minoritario, anche se rifiuta di firmare, non il potere di veto, ma il diritto alla rappresentanza in azienda".
<p>"In Italia può vincere un'alleanza di centrosinistra, è molto più difficile che possa farlo un'intesa solo di sinistra. Il Pd ha il compito di riprendere il suo cammino, recuperando la direzione di marcia che gli aveva consentito di guadagnare un consenso mai raggiunto nella storia dai riformisti italiani".<br />
"Il partito deve essere ambizioso perchè consapevole che se i sondaggi oggi gli attribuiscono il 24%, altre rilevazioni dicono che siamo il partito con il più alto elettorato potenziale: oltre il 42%", ambizioso e convinto di poter parlare a tutti gli italiani forte delle sue idee e con un solo linguaggio, senza una suddivisione di compiti tra riformisti di centro e riformisti di sinistra destinati a ritrovarsi esclusivamente in un'alleanza di Governo".<br />
"Come tutte le forze riformiste può trovare alleanza anche con chi ha posizioni diverse", ha detto. Ma nessuno, neppure Nichi Vendola, può arrogarsi l'esclusiva del riformismo.<br />
"Penso che nessuno debba essere più radicale nel cercare il cambiamento dei riformisti", ha sottolineato, "lo dico al mio amico Nichi Vendola, la cui sfida va seguita non con ostilità e paura ma con rispetto e interesse. Lo dico come si fa tra chi vuole sinceramente andare verso un incontro. Ma ad una condizione: che si costruisca questo incontro per rispondere davvero a un bisogno di stabilità e cambiamento. Ogni riedizione dell'unione sarebbe un suicidio politico".
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Veltroni ha bacchettato Vendola anche per avere definito l'accordo Fiat "una delle pagine più nere della democrazia italiana" e per avere paragonato "con una scivolata retorica" Carlo Giuliani a Giovanni Falcone. "Le nostre diversità devono coniugarsi ad una sincere intenzione, non cercare di sottrarre consenso l'uno all'altro, ma estendere quello sociale e politico di un nuovo centro sinistra possibile, che non ripeta gli errori del '94, come quelli della caduta di Prodi e quelli dell'Unione.
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<br/>fonte: <a href="http://www.liberazione.it/news-file/Al-Lingotto-il-veltroni-pensiero---LIBERAZIONE-IT.htm">Liberazione</a>Cesare DAMIANO: Basta opacità. Il Pd deve scegliere da che parte stare.2011-01-13T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it556977Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Sulla Fiat i democratici hanno discusso, come deve avvenire in un partito aperto. <br />
Ma poi bisogna arrivare a sintesi chiare e condivise su questi che sono i veri contenuti, altro che alleanze. Oggi e domani si svolge a Torino il referendum tra i lavoratori Fiat sull’accordo di Mirafiori. Nel Pd, attorno a quest’intesa, si è sviluppato un dibattito forte che ha visto emergere un arco di posizioni, alcune delle quali contrapposte.
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In un partito democratico è normale che questo avvenga. Non è normale, invece, che non si arrivi ad una posizione di sintesi riconosciuta.<br />
Su questo tema la direzione del partito si deve esprimere. Definendo il proprio giudizio sui contenuti dell’intesa, sul rispetto dell’esito del referendum e, soprattutto, delineando un indirizzo chiaro su temi come la rappresentanza sindacale messa in discussione nell’accordo di Mirafiori e sul diritto di sciopero, a proposito del quale vanno chiarite tutte le possibili ambiguità interpretative: il suo esercizio non può essere impedito al singolo lavoratore.
<p>Al di là della questione Fiat, il punto è che il Pd si trova oggi in una posizione di difficoltà - confermata dai sondaggi che non lo vedono decollare nonostante il fallimento del centrodestra e di Berlusconi - perché sconta, a mio avviso, un grave errore dall’inizio, quando ci siamo cullati nella convinzione che l’unità interna potesse essere raggiunta cancellando le identità di partenza. Abbiamo fatto arbitrariamente coincidere il richiamo alle radici con la volontà di ritornare al passato, mentre nessuno lo propone. Sarebbe un’idea anacronistica.
<p> Ciò che accade, come conseguenza di quella scelta, è sotto gli occhi di tutti.<br />
Ciascun esponente del partito si sente autorizzato a esprimere le proprie opinioni al di fuori delle sedi appropriate, dimenticando la necessità di trovare, sempre e comunque, una sintesi. In queste ultime settimane abbiamo assistito alle più svariate prese di posizione: una richiesta di congresso anticipato, poi smentita;<br />
la convocazione di una direzione parallela promossa dai cosiddetti “rottamatori”; <br />
l’annuncio preventivo di un voto di dissenso rispetto al partito sul tema del biotestamento;<br />
la candidatura a sindaco di Torino di Roberto Tricarico con primarie “fai da te”, nonostante una decisione sulle regole assunta dal PD provinciale.
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E potremmo continuare. Avanti così e siamo alla frutta. La sintesi è essenziale per l’azione politica di un partito pluralista, ma richiede la disponibilità al confronto. Il Pd non lo deve temere, anzi lo deve ricercare anche quando è duro ed esplicito. Lo scontro è benefico se porta a una sintesi di maggioranza riconosciuta da tutti come vincolante.
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Il nemico è l’ambiguità, l’indeterminatezza, la fumosità delle schermaglie di schieramento. In sintesi, l’opacità del nostro profilo. In quest’ottica si deve anche prendere atto che, dall’ultimo congresso, si sono rimescolati gli equilibri a livello nazionale e territoriale. È giunto il tempo di ridefinire un nuovo patto unitario tra le diverse sensibilità politiche per uscire dall’impasse.
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Per perseguire quest’obiettivo il partito deve impegnarsi in una riflessione che abbia al centro non formule astratte ma temi concreti. Prima della discussione sulle alleanze è necessaria quella sui contenuti. Le priorità da affrontare si chiamano occupazione, rilancio dell’economia, fisco, politica industriale, sostenibilità del welfare, diritti. Il Pd, però, non possiede ancora la bussola necessaria per orientare il proprio cammino.
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C’è una crisi economica, ancora non risolta, da fronteggiare. Dobbiamo sciogliere il nodo delle relazioni industriali nell’era della globalizzazione e acquisire competitività. Ma quali sono i nostri riferimenti? Io guardo con interesse alla (controversa) riscoperta di Keynes e non amo gli economisti liberisti della scuola di Chicago. Sostengo Crouch, il teorico della concertazione, e non condivido Olson che ha fornito negli anni Ottanta, su questo tema, l’argomento intellettuale a sostegno del liberismo e della deregolazione.
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Che idee abbiamo per la ricomposizione del conflitto capitale- lavoro? Di questo vorrei discutere. Anche gli strumenti di cui finora il Pd si è avvalso - come le primarie - rischiano di degenerare diventando sempre più un fine utile soltanto per l’affermazione individuale anziché strumento di democrazia e di iniziativa politica.
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Su tutti questi temi urgono risposte e decisioni, anche perchè il tempo stringe.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WOMCJ">l'Unità - Cesare Damiano</a>SERGIO CHIAMPARINO: Fiat «Temo il voto dei carrozzieri» - INTERVISTA2011-01-12T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it556956Alla data della dichiarazione: Sindaco Comune Torino (TO) (Partito: PD) <br/><br/><br />
Si sente forte per il sondaggio del Sole 24 ore che lo colloca al secondo posto dopo Renzi tra i sindaci più amati con il 66% di consensi. È contento di essere arrivato alla fine dei suoi 10 anni di governo di Torino («4 mesi all'alba») con la coscienza «a posto». Chissà quale sarebbe il consenso tra i 5.300 operai che domani e venerdì voteranno sul diktat di Marchionne e che lui invita a mettere la croce sul sì. Con Sergio Chiamparino chi scrive ha un'antica amicizia che può giustificare il tono poco formale dell'intervista.
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<b>Torino città operaia, di Gramsci e dei consigli, si ritrova con un sindaco uscente e uno che potrebbe entrare (Piero Fassino) in rotta di collisione con la Fiom e quel che rappresenta. Bell'affare.</b>
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La Fiom non è il «nucleo storico» della classe operaia a Mirafiori ma una minoranza, mi pare il 15% in Carrozzeria (è il 22% e glie lo ricordiamo, ndr). Io sindaco rappresento l'80%, se devo risponderti provocatoriamente, non una piccola parte ma l'interesse generale. Voi predicatori della sinistra che verrà parlate di ricatto di Marchionne, ma io e te abbiamo un'età e ci ricordiamo molti passaggi. Per esempio gli accordi del '92-'93 a colpi di biglie e carciofi, con Trentin contestato che firma l'accordo e si dimette. Io, con Treu e Tarantini la svolta l'avrei fatta molto prima, nell'84, ai tempi della scala mobile. Invece i duri si opponevano a ogni cambiamento delle relazioni industriali. Se si fosse cambiato prima le cose sarebbero andate meglio e l'Italia sarebbe più vicina alla Germania che alla Grecia. Oggi di nuovo i duri della Fiom, per calcolo politico, si oppongono ai cambiamenti,ripetono gli stessi errori. Votare sì darebbe forza per battersi in fabbrica sul versante sindacale e in Parlamento su quello legislativo per migliorare l'accordo. Se vincesse il no precipieteremmo in un Limbo senza certezze e prospettive.
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<b>Invece Marchionne te le dà? Nell'accordo è chiaro quel che gli operai perdono, diritti, qualità del lavoro, dignità, libertà sindacale, mentre sugli investimenti non ci sono numeri, né impegni definiti.</b>
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Prima dell'attuazione del piano passeranno 18 mesi, utilizzabili per porre rimedi sul versante della rappresentanza. L'appesantimento delle condizioni di lavoro andrebbe di pari passo con gli investimenti: ti pare che la Fiat possa fare la Newco senza investimenti? Ammetto che invece il progetto Fabbrica Italia è più aleatorio. Ma questa è una ragione in più per votare sì per un sindacato lungimirante, per avere titolo per migliorare l'accordo. Tu citi Gramsci e io ti ricordo uno scritto di Garavini del '55, in cui diceva: il padrone vuole fregarci? Allora noi firmiamo per fermare il piano del capitale.
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<b>Non solo la Fiom ha torto, ma è anche l'unica parte in causa ad aver torto. Dici che è il sindacato dei veti quando, Fiat a parte, firma accordi in tutte le fabbriche.</b>
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Conosco bene la Fiom, e non è un caso che intervenga anche su questioni non sindacali come in Val di Susa contro la Tav. Non condivido i suoi veti. Del resto, anche nel 2009 non firmò il contratto e non si può dire che la colpa fosse della Fiat.
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<b>Furono Federmeccanica, Fim e Uilm a disdire il contratto unitario</b>
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E la Fiom non firmò. Inoltre, gestire una multinazionale non è uno scherzo: i ricatti ce li pone la globalizzazione non Marchionne che ci trasferisce il mondo com'è, brutture comprese.
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<b>Marchionne ha detto: il piano è mio, lo gestisco io. Aggiunge che se gli operai non si piegano se ne va da Torino. Ci sarebbe di che rispondergli per le rime, visto che come Enti locali avete sborsato un sacco di soldi su Mirafiori.</b>
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Nel 2005 dicemmo: questo è l'ultimo atto per salvare Mirafiori, il prossimo tocca ai sindacati.
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<b>Profetico. Quale esito prevedi per il referendum di Mirafiori?</b>
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Non capisco chi diffonde ottimismi a piene mani e non sono sicuro del risultato positivo per i sì. Quegli operai sono stati sempre contro i cambiamenti, anche in occasione di accordi unitari. Lo so anch'io, mica solo Landini, che appesantire le condizioni di lavoro non è piacevole. Ma pensare di continuare così, in un mondo cambiato, è privo di logica. Il gioco prima o poi finisce.
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<b>Il gioco? Alla catena? Insisto che le tue critiche sono indirizzate solo contro la Fiom a cui, in caso di vittoria dei sì, verrebbe negata ogni pratica sindacale. E a tutti gli operai è negato il diritto di eleggersi i propri rappresentanti.</b>
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È lo Statuto dei lavoratori a non escludere questa possibilità. Ci sono 18 mesi per intervenire, anche a livello legislativo e c'è una proposta firmata da Ichino e molti altri che va in questa direzione. Marchionne sbaglia quando tenta di trasferire in Italia un sistema di relazioni industriali di tipo Usa, meglio sarebbe guardare con attenzione il sistema partecipativo tedesco. Il suo progetto Fabbrica Italia è fumoso, ma la colpa è anche del governo che non ha una politica industriale.
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<b>Vuoi spiegare ai «predicatori della sinistra che verrà» quale altra sinistra hai in testa?</b>
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In Italia c'è una sinistra dei veti che non porta da nessuna parte, ma è forte e condiziona il Pd. Io penso a una sinistra coerentemente riformista. E che non passi il tempo a contrattare accordi con Fini e Casini.
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<b>Con Marchionne invece sì?</b>
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Certo, con Marchionne sì.
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<b>Perché non convochi un consiglio comunale aperto sulla Fiat?</b>
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Non compete al sindaco ma al consiglio. E io penso che i consigli aperti non servano a niente.
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<b>E domani (oggi per chi legge) non andrai alla fiaccolata Fiom...</b>
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Sono a Roma. La fiaccolata conferma il braccio di ferro politico della Fiom, tra la sinistra dei veti e il resto della città.
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<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WNKKF">Il Manifesto - Loris Campetti</a>Giorgio NAPOLITANO: Ci attendono prove molto impegnative. Occorre tenere aperto il confronto sul futuro dell'Italia»2011-01-05T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549570Alla data della dichiarazione: Pres. della Repubblica<br/><br/><br />
"Ci attendono prove molto impegnative. Occorre uno scatto, una mobilitazione. E occorre soprattutto tenere aperta la linea di <b>comunicazione con le generazioni piu' giovani</b>, i cui problemi sono esattamente quelli del futuro dell'Italia". Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposto ad alcune domande dei giornalisti a margine di una visita al Pio Monte della Misericordia a Napoli.
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<b>Sulla situazione dei rifiuti</b> nel capoluogo campano, il Presidente Napolitano ha richiamato gli incontri e i contatti di questi giorni con i rappresentanti delle autorità locali: "Ho trovato molto impegnati il Sindaco e il Presidente della Regione rispetto le competenze di ogni istituzioni al di là di ogni schermaglia, pare che ci sia un clima in questo momento molto costruttivo che lascia ben sperare. Ne ho ricavato il senso di un impegno realmente comune sentendo per telefono anche il Presidente della Provincia, Cesaro. Le tre istituzioni sono su posizioni comuni, sulla stessa linea per quanto riguarda la gestione completa dell'emergenza rifiuti e poi la messa a regime del sistema di smaltimento dei rifiuti".
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Il Presidente Napolitano ha risposto anche a una domanda sul difficile <b>confronto tra Fiat e parti sociali:</b><br />
"Credo che nessuno possa negare che esiste un problema di bassa produttività nel lavoro. Però non è una questione legata esclusivamente al rendimento lavorativo delle maestranze. La produttività dipende in larga misura anche dalla innovazione tecnologica, dalle scelte di organizzazione del lavoro e quindi ci deve essere un confronto e si deve assumere questo obiettivo. Tutte le parti in causa debbono riconoscere l'essenzialità di questo impegno ad aumentare la produttività del lavoro ai fini della competitività internazionale della nostra economia. Poi, il modo di affrontare questo problema, soprattutto il punto delle modifiche che ne possono derivare nelle relazioni industriali sono oggetto di contenzioso. Mi auguro che si trovi di nuovo un modulo più costruttivo di discussione".
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Rispondendo a una giornalista, che gli ha chiesto se i tempi della concertazione siano ormai finiti, il Presidente ha detto: ''Ho appena letto un intervento del ministro del Lavoro il quale dice che nell'accordo del '93 erano sanciti diritti che bisogna fare salvi. Mi pare che questo sia un aspetto importante. Per quanto siano cambiate le cose e si possa vedere quanto dell'accordo del '93 rimanga valido, vi sono dei punti importanti che riguardano senza dubbio il <b>diritto di rappresentanza</b><b>:</b> è tutta una materia che ormai va affrontata''.
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Il Capo dello Stato è intervenuto nuovamente sugli attacchi alla comunità cristiana sollecitando una riflessione in sede europea: "Credo che sia giusto chiedere che in sede europea il tema della <b>libertà religiosa</b> diventi oggetto di discussione e iniziativa". <br />
Il Capo dello Stato ha osservato che "quello che è accaduto in Egitto è anche parte di una situazione interna del Paese, di grande tensione e preoccupazione". E ha ricordato che lo scorso 20 dicembre, incontrando al Quirinale il corpo diplomatico, aveva posto "con molta forza la questione della libertà religiosa" perché "parlando in generale del tema dei diritti umani, non si può ignorare questo aspetto specifico così significativo e rilevante".<br />
<br/>fonte: <a href="http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Notizia&key=13115">Il Quirinale.it</a>SERGIO GAETANO COFFERATI: «Innovazione Fiat? Vuole solo sfruttare di più gli operai» - INTERVISTA2011-01-04T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549555Alla data della dichiarazione: Deputato Parlamento EU (Gruppo: S&D) <br/><br/><br />
Sergio Cofferati ha espresso una critica severa al patto di Mirafiori dopo aver bocciato all'epoca l'accordo di Pomigliano.
<p> <b>Cofferati, in quale veste esprime la sua opposizione al piano Fiat?</b>
<p> «Sono nettamente contrario in tutte le vesti possibili: come iscritto alla Cgil, come iscritto al pd, come parlamentare europeo. È giusto quando si hanno opinioni divergenti da quelle dei gruppi dirigenti del partito e dell'organizzazione non nasconderle ma esplicitarle».
<p> <b>Lei afferma che la Fiom non può firmare nemmeno "tecnicamente" il patto di Mirafiori. Perchè?</b>
<p> «Il problema non si pone, la questione della firma è surreale. La Fiom non può firmare, glielo vieta lo statuto della Cgil. La delibera numero 4 attuativa dello statuto Cgil vieta all'organizzazione di presentare piattaforme o firmare accordi nei quali siano contenute lesioni ai diritti contrattuali o di legge come è nei casi di Pomigliano e Mirafiori».
<p> <b>Marchionne dice che se vincono i no, la Fiat non investe. Come se ne esce?</b>
<p> «La situazione è molto difficile, i problemi sono gravi e rilevantissimi. La questione oggi è politica: Marchionne ha un atteggiamento inaccettabile. Nega il confronto e la dialettica sui luoghi di lavoro, e devo dire che non è molto rispettoso di quelle organizzazioni che hanno firmato quando mette in dubbio che non siano maggioritarie in fabbrica. Il caso Fiat è politico perchè è lo spartiacque tra lavoratori e impresa, nella cultura del lavoro e nei diritti».
<p> <b>Ma Marchionne affascina anche i suoi colleghi del pd, c'è chi suggerisce di votare sì.</b>
<p> «Vuol dire che la sinistra è cambiata molto, in profondità. Sono sorpreso da certe dichiarazioni, da chi vede una "parte buona" in questo accordo. Ma dove? Agli operai di Mirafiori si promettono 30 euro lordi al mese perchè aumenta il loro sfruttamento. Si impone agli operai di lavorare di più, anche il sabato notte, con lo straordinario obbligatorio e il modesto aumento, una miseria, deriva dalle regole dei turni, non c'è altro. La Fiat punta solo ad aumentare lo sfruttamento. La politica, le istituzioni dovrebbero chiedere conto alla Fiat del piano industriale, ma Marchionne non vuole dare i dettagli. Le sue affermazioni sono gravissime e non vengono contestate.<br />
Marchionne non si permetterebbe questo comportamento arrogante negli Stati Uniti».
<p> <b>Cosa c'è di diverso negli Usa?</b>
<p> «L'atteggiamento delle istituzioni. Marchionne non si è permesso di dire a Obama "non ti dico cosa voglio fare della Chrysler", ha avuto aiuti sulla base di ipotesi discusse e condivise con l'amministrazione Usa».
<p> <b>In Italia, invece?</b>
<p> «In Italia Marchionne dice: faccio quello che voglio. Le istituzioni devono farsi carico delle conseguenze delle scelte Fiat. Tocca alle istituzioni occuparsi di Termini Imerese dopo che la Fiat ha incassato tutti gli incentivi possibili, dopo aver chiesto soldi, rottamazione, cassa integrazione. Quando una fabbrica non serve più la Fiat se ne libera, scarica le conseguenze sulla comunità, dà uno schiaffo alle istituzioni».
<p> <b>Ma la Fiat chiede una nuova organizzazione del lavoro per investire e recuperare competitività.</b>
<p> «La Fiat ha un modello di competizione che passa dalla sistematica, esclusiva riduzione dei costi. Non ci sono ricerca, innovazione, conoscenza sui prodotti e sui modelli organizzativi del lavoro. Chi nel pd e nel sindacato aveva sostenuto che l'accordo di Pomigliano andava firmato perchè era un'eccezione dovrebbe leggersi il documento di Mirafiori e riflettere. E dovrebbe confrontare la strategia Fiat con il documento di Lisbona 2000 e col piano europeo di sviluppo 2020: il modello Marchionne va contro le politiche europee sostenute dalla sinistra italiana. Il pd non può avere due teste: se stiamo con l'Europa non possiamo stare con Marchionne».
<p> <b>E gli industriali italiani cosa fanno?</b>
<p> «Il silenzio di Confindustria è fragoroso, sta accettando la distruzione dell'accordo 1993, un modello efficace di relazioni industriali. Le imprese pagheranno un prezzo alto dalle scelte della Fiat».
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<b>Cosa direbbe a un operaio di Mirafiori che si appresta a votare?</b>
<p> «Gli spiegherei perchè la Fiom è contraria, perchè l'accordo è sbagliato. L'operaio deve votare come meglio crede ma deve sapere che la Cgil è contraria. Le grandi organizzazioni sono autorevoli e rispettate quando difendono le regole e le loro posizioni sono trasparenti e credibili».
<p> <b>Cosa sarà della Fiat?</b>
<p> «Mi pare stia diventando un polmone della Chrysler, la Fiat è sempre più marginale. In Europa il mercato è andato male, ma la Fiat perde 15 punti in più degli altri. I numeri sono impietosi»<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WHF5G">l'Unita' - Gianola Rinaldo</a>Pietro ICHINO: Fiat. L'errore di restare fermi. La svolta necessaria a Mirafiori.2010-12-30T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549311Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Caro Direttore, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri sollecita una risposta chiara da parte del Partito Democratico a questa domanda: sul terreno delle riforme di cui il Paese ha urgente bisogno, da che parte sta la vostra opposizione all’azione del governo, in avanti o all’indietro? Panebianco indica diverse materie sulle quali la risposta deve essere puntuale, netta e concreta; una di queste è la materia del lavoro e delle relazioni industriali, nella quale la vicenda Fiat sta portando a una svolta epocale.
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Nello stesso giorno, su Repubblica due editoriali – quello di Stefano Rodotà e quello di Tito Boeri – sembrano dare, proprio in riferimento alla vicenda Fiat, due risposte di segno opposto: Rodotà denuncia l’accordo di Mirafiori come un “ritorno al Medioevo” delle relazioni industriali, Boeri denuncia l’inerzia del governo e del legislatore nel porre le regole necessarie perché non solo l’accordo di Mirafiori, ma cento altri analoghi possano consentire l’afflusso di quegli investimenti e di quei piani industriali innovativi ai quali il nostro Paese è oggi drammaticamente chiuso. Su questa materia, la domanda di Panebianco può tradursi così: il Pd sta con Rodotà o con Boeri?
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Non ho titolo per rispondere a nome dell’intero Pd (al cui segretario, comunque, tutti abbiamo titolo per chiedere una risposta molto più chiara di quella data finora su questo punto). Posso farlo, però, almeno a nome di quella larga parte dello stesso partito che si riconosce nel progetto di riforma del diritto sindacale contenuto nel disegno di legge n. 1872, presentato l’anno scorso da 55 senatori democratici. Quel progetto – che i lettori del Corriere ben conoscono – muove dalle stesse considerazioni proposte ieri da Tito Boeri. Tra le cause principali della chiusura del nostro Paese agli investimenti delle multinazionali sta anche, insieme ad altre cause strutturali e a una legislazione sul rapporto di lavoro complicatissima e intraducibile in inglese, l’inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali: un sistema nel quale non è chiaro chi abbia il potere di contrattare un piano industriale innovativo con effetti vincolanti per tutti i lavoratori interessati; e le minoranze sindacali hanno di fatto un potere di veto sulle scelte compiute dalle coalizioni maggioritarie. Occorre dunque dotare il Paese di regole semplici capaci di rispondere positivamente alle questioni poste dalla “sfida” di Marchionne, conciliando l’effettività del contratto con il pluralismo sindacale.
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Il progetto delinea un assetto nel quale il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi a tutte le aziende del settore, ma soltanto se non vi sia un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza dei consensi nell’impresa interessata. Contiene poi una definizione precisa dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati; sancisce il potere della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare il piano industriale a 360 gradi, compresa la clausola di tregua che impegna a non scioperare contro il contratto stesso, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti dell’azienda. Alla minoranza sindacale, a cui in questo modo viene tolto il potere di veto, viene però garantito il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando non abbia firmato il contratto: ciò che la legge oggi vigente non garantisce.
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Certo, sarebbe molto meglio se queste regole potessero essere fatte oggetto di un accordo interconfederale firmato da tutte le confederazioni maggiori. Ma questa prospettiva è purtroppo assai lontana: c’è pieno consenso, infatti, tra Cgil Cisl e Uil sui criteri per la misurazione della rappresentatività nei luoghi di lavoro, ma – come rileva il segretario della Uil Angeletti sulla Stampa di ieri – il consenso non c’è sul collegamento necessario tra rappresentatività e potere di contrattare in azienda, anche in deroga al contratto nazionale. <br />
Inoltre la Cisl teme che una riforma legislativa di questo genere irrigidisca, invece che fluidificare, il nostro sistema delle relazioni industriali, impedendo la contrattazione a chi si trova a essere minoranza (ma la nuova norma non impedirebbe a nessuno la stipulazione, a qualsiasi livello, di contratti che aumentino gli standard di trattamento; si limiterebbe a consentire, regolandolo, ciò che oggi in Italia non può fare nessuno in condizioni di sufficiente certezza del diritto: cioè stipulare contratti che deroghino al contratto nazionale).
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Il peggio che possiamo fare è stare fermi: il difetto delle regole necessarie rischia non soltanto di essere pericoloso per il principio del pluralismo sindacale, ma anche di essere paralizzante per progetti ambiziosi – e preziosi per il Paese – come quello della “Fabbrica Italia” di Marchionne.<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WEOI5">Corriere della Sera</a>Cesare DAMIANO: «Fiat ha esagerato ma capisco perché Fassino dice si» - INTERVISTA2010-12-30T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549307Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
«Cofferati? Sta assumendo negli ultimi tempi posizioni che non posso condividere».
<p>Cesare Damiano, parlamentare del Pd con una lunghissima esperienza alla guida della Fiom piemontese e poi nazionale, non risparmia critiche all'intesa stipulata dalla Fiat e da Cisl, Uil e Ugl. Per l'ex ministro del Lavoro del governo Prodi, l'imperativo è «impedire che il modello Marchionne divenga il parametro delle nuove relazioni industriali». <br />
Ma Damiano conferma la sua apertura alla sfida della competitività lanciata dall'amministratore delegato del Lingotto. E su questo obiettivo esorta il Pd a «un confronto duro e aperto fra le sue molteplici identità, anche per impedire che il populismo e la narrazione demagogica di Vendola e Di Pietro oscurino la politica della responsabilità».
<p> <b>Piero Fassino afferma che se fosse un operaio Fiat votrebbe sì in un referendum sull'accordo.</b>
<p> E' una posizione che comprendo, animata dalla preoccupazione per il mantenimento degli investimenti, per il rilancio della produzione e dei livelli occupazionali. Condivido anche la critica di Fassino sull'isolamento della Fiom da parte dell'azienda nelle trattative: una strategia sostenuta peraltro dal titolare del Welfare Sacconi, che con una visione di corto respiro lavora da tempo per dividere il sindacato confederale. Quanto al referendum sull'accordo, confesso che sarei molto incerto e in imbarazzo. Ma se dovesse prevalere il sì, la Fiom dovrebbe tenerne conto.
<p> <b>Sergio Cofferati esprime un appoggio convinto alla battaglia della Fiom.</b>
<p> <a href="http://www.openpolis.it/dichiarazione/549296"><b>Cofferati</b></a> ha assunto negli ultimi tempi posizioni assai radicali che non posso condividere. Qualunque accordo sindacale che viene accettato presenta sempre luci e ombre. Come ha ricordato Susanna Camusso, un'organizzazione rappresentativa di lavoratori non può esaurirsi nella politica dei no.
<p> <b>Cosa non le piace dell'accordo su Mirafiori?</b>
<p> Un elemento di assoluta gravità: la clausola che riconosce la rappresentanza aziendale dei lavoratori esclusivamente alle organizzazioni che abbiano firmato l'intesa. E' una lacerazione fortissima del tessuto di relazioni sindacali, che mette in discussione l'accordo stipulato da tutte le confederazioni nel 1993. Un'intesa che garantiva la rappresentatività alle associazioni che sottoscrivevano gli accordi, e alle sigle in grado di raccogliere almeno il 5 per cento di firme per presentarsi alle elezioni nelle aziende. Si tratta di due modelli alternativi, quello esclusivo di Marchionne e quello inclusivo del '93. Il problema, che rivolgo a Confindustria, Cisl e Uil, è quale modello debba prevalere.
<p> <b>Pensa che l'intesa possa svuotare il contratto collettivo di lavoro ed emarginare i sindacati "scomodi"?</b>
<p>Assolutamente sì. Lo ritengo un precedente pericolosissimo. Dobbiamo accettare la sfida lanciata dall'ad di Fiat sulla competitività, affrontando la questione dei turni, degli straordinari, dell'organizzazione del lavoro. Senza dimenticare mai, e rispondo alle accuse di Maurizio Landini, che per chi opera in una catena di montaggio e per il suo equilibrio psicofisico si tratta sempre di un enorme sacrificio. Marchionne però non può pretendere di disporre di pedine a comando, a cui viene negata la possibilità di scegliere il sindacato più rappresentativo e di esercitare il diritto di sciopero individuale. E' una concezione di "fabbrica-caserma", che rischia di allontanare la stessa modernizzazione che l'ad di Fiat si prefigge. Un dirigente che impone un modello così lacerante, che si ritaglia su misura i contratti per ogni fabbrica, come si comporterebbe se avesse acquistato la Opel, in un paese dove in ogni azienda i comitati di sorveglianza hanno un ruolo decisivo?
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<b>Sulla vicenda Mirafiori il Pd è riuscito a coprire quasi l'intero spettro di posizioni politiche.</b>
<p> E' il segno di un partito che stenta a costruire una propria identità. Abbiamo pensato che l'unità del Pd si ottenesse cancellando la pluralità delle nostre culture e sensibilità. Al contrario, dobbiamo avviare un confronto aperto e duro fra le nostre differenti identità, come la mia, laburista europea, e quella di Giuseppe Fioroni. Solo in questo modo potremo realizzare una sintesi creatrice e capace di unire, una politica basata sull'etica della responsabilità. Perché di politica abbiamo bisogno, non di populismo né di narrazioni più o meno accattivanti come quelle di Vendola e Di Pietro.
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<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WENN5">Il Riformista - Edoardo Petti</a>Pietro ICHINO: «Basta con i veti delle minoranze nelle fabbriche» - INTERVISTA2010-12-27T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it549013Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
«Sergio Marchionne - dice subito Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro alla Statale di Milano e senatore del Pd, uno dei massimi esperti del diritto del lavoro e delle relazioni industriali - ha ragione quando chiede che il contratto aziendale sia una cosa seria. Per questo occorre una regola che sancisca il potere della coalizione sindacale maggioritaria di stipulare un accordo con efficacia davvero vincolante per l’impresa e per tutti i dipendenti; compresa la clausola di tregua (ovvero l’impegno a non scioperare contro l’accordo stesso, ndr)».
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<b>È la sintesi, contestuale a quanto sta accadendo in questi giorni dopo l’accordo raggiunto su Mirafiori da Fiat e sindacati, Fiom esclusa, di un suo disegno di legge.</b>
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«Sì: il disegno di legge numero 1872, che ho presentato l’anno scorso, con altri 54 senatori. Ma il progetto risale al mio libro del 2005 A che cosa serve il sindacato, dove quello che sta accadendo in questi giorni è previsto con una certa previsione e spiegato».
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<b>La Fiom, intanto, è rimasta fuori e si prepara ad affrontare il 2011 in una posizione di isolamento, con tutti i rischi che questo può comportare.</b>
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«Quel progetto servirebbe a far sì che la Fiom rimanga dentro il “sistema costituzionale” delle relazioni industriali, anche se non ha firmato l’accordo. Conviene anche alla Fiat che essa abbia i propri rappresentanti sindacali in azienda e non diventi un “super-Cobas”.
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<b>E come si ottiene questo risultato?</b>
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«Occorre una regola che, come è previsto nello stesso disegno di legge numero 1872, attribuisca anche al sindacato minoritario il diritto alla rappresentanza, in proporzione ai consensi ricevuti in un’elezione triennale. Quello che non va riconosciuto al sindacato minoritario è il potere di veto di cui esso dispone nel nostro sistema attuale di relazioni industriali, che proprio per questo è obsoleto e inconcludente».
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<b>L’accordo di Mirafiori, come già quello di Pomigliano, è accusato di violare i diritti fondamentali dei lavoratori…</b>
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«La Fiom ha torto, e con essa hanno torto Sergio Cofferati e Luciano Gallino (<a href="http://www.openpolis.it/dichiarazione/548997"><b>Repubblica del 24 dicembre</b></a>, ndr), quando confondono le regole contenute nel Contratto collettivo nazionale con i “diritti fondamentali dei lavoratori”. La Cgil fece già questo errore nei primi anni ‘50 e subì una durissima sconfitta, proprio nelle elezioni della Commissione interna della Fiat, nel 1955; sembra che oggi se ne sia del tutto dimenticata. Fiom, Cofferati e Gallino sbagliano, sul piano tecnico-giuridico, anche quando denunciano l’illegalità, addirittura l’incostituzionalità, dell’accordo di Mirafiori nella parte in cui esso nega alla Fiom il diritto di costituire una sua rappresentanza sindacale riconosciuta in seno all’azienda».
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<b>Entriamo nel dettaglio.</b>
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«L’accordo applica alla lettera quanto è previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995 (ha diritto a costituire la Rsa solo il sindacato che ha firmato almeno un contratto collettivo applicato nell’azienda). E la Corte costituzionale ha più volte dichiarato la piena compatibilità di questa norma, anche così modificata, con il principio di libertà sindacale sancito dall’articolo 39 della Carta».
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<b>Relazioni industriali più «americane», con meno pluralismo sindacale in azienda?</b>
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«È così: l’articolo 19 dello Statuto, come è stato modificato dal referendum del 1995, è più vicino alla cultura delle relazioni industriali statunitense che a quella italiana, fortemente legata al principio del pluralismo sindacale. Se fino a ieri l’opinione pubblica non se n’era accorta è solo perché, di fatto, si è continuato ad applicare la norma sulle rappresentanze unitarie contenuta nel protocollo Ciampi del 1993; e nessuna grande multinazionale è venuta a chiedere una stretta applicazione della norma del 1995, con la medesima ruvida fermezza con cui lo ha fatto Marchionne».
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<b>A questo punto, come se ne esce?</b>
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«Resto convinto che sia possibile e utile per tutti, a cominciare da Confindustria e dalla Fiat, riscrivere questa norma in modo da conciliare la nostra tradizione di pluralismo sindacale con l’esigenza di togliere il potere di veto alle minoranze e di aprire il sistema agli investimenti stranieri e ai piani industriali innovativi».
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<b>La Cgil ha comunque sempre opposto un muro.</b>
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«A chi aveva avvertito la necessità di una profonda riforma del diritto sindacale italiano la Cgil finora ha sempre risposto difendendo recisamente lo status quo: “Non si deve toccare nulla, per non mettersi su di un piano inclinato: altrimenti, si sa dove si incomincia, ma non si sa dove si va a finire”».
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<b>E così si è arrivati allo strappo.</b>
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«Anche il contratto collettivo nazionale non lo si doveva toccare: infatti quello dei metalmeccanici è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso dal 1972. Ora tutti vedono a che cosa ha portato quella difesa a oltranza dell’intangibilità del contratto collettivo nazionale».
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<b>Adesso che cosa accadrà nella parte restante del nostro tessuto produttivo?</b>
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«Come prevedevo nel mio libro di cinque anni fa, il contratto collettivo nazionale conserverà un suo ruolo insostituibile, ma solo come “rete di sicurezza”, cioè come disciplina applicabile dove manchi un contratto aziendale, stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria. Questo è quello che propongo nel mio disegno di legge; ma mi sembra che le cose si stiano muovendo da sole in questa direzione».<br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WCAKO">Il Giornale - Pierluigi Bonora</a>SERGIO GAETANO COFFERATI: «Diritti negati a chi non sigla il contratto» - INTERVISTA 2010-12-24T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it548997Alla data della dichiarazione: Deputato Parlamento EU (Gruppo: S&D) <br/><br/><br />
L'ex leader della Cgil: stravolto tutto il sistema delle relazioni sindacali.
<p>«Chi pensava che il caso di Pomigliano fosse un´eccezione e che le violazioni dei diritti che quell´accordo produceva fossero dettate dalla necessità, oggi è servito. Diventa chiaro il tentativo di stravolgere tutto il sistema contrattuale e delle relazioni sindacali. La Fiat, con la sua fabbrica simbolo, si pone come punto di riferimento negativo, con un accordo autolesionista per chi l´ha firmato».
<p> Sergio Cofferati, ex leader Cgil, ex sindaco di Bologna e oggi parlamentare europeo Pd, non usa mezzi termini per bocciare l´accordo per il rilancio di Mirafiori tra Fiat e i sindacati Fim, Uilm, Ugl e Fismic, cui manca la firma della Fiom.
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<b>Presentando l´accordo, Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat, ha parlato di "salto di qualità" che permetterà di far partire gli investimenti. Questo rilancio non è una buona notizia per i lavoratori?</b>
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«Altro che innovazione, qui si torna indietro di decenni, siamo di fronte a una regressione bella e buona. Si cancella un accordo che ha fatto storia come quello del ´93».
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<b>Anche il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha parlato di «intesa positiva», migliore rispetto a quella di Pomigliano...</b>
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«Gli investimenti sono sempre apprezzabili ma qui avvengono a discapito dei diritti dei lavoratori. Ci sono due passi indietro, nella direzione sbagliata, un secco peggioramento rispetto a Pomigliano».
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<b>Perché?</b>
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«Prima di tutto perché a Mirafiori non si applicherà mai più il contratto nazionale e questa è la fine del contratto. <br />
In secondo luogo per la negazione di qualsiasi diritto sindacale a chi non firma il contratto. Con un colpo solo si cancella il contratto e si negano diritti fondamentali sanciti dalle leggi che il contratto richiama».
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<b>Quindi anche lei, come Antonio Di Pietro, pensa che questo accordo sia anticostituzionale?</b>
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«I profili di incostituzionalità è probabile siano più di uno».
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<b>Siamo di fronte a un "precedente" che può fare scuola?</b>
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«Si tratta di un inedito gravissimo nel panorama delle relazioni industriali, perché si punta a cancellare qualsiasi forma di rappresentanza sindacale per chi non condivide le risoluzioni dell´azienda. Gli effetti che questo può produrre sono evidenti a tutti».
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<b>Pensa che la Fiom abbia fatto bene a non sottoscrivere l´accordo, anche se questo la isola?</b>
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«La contrarietà della Fiom è del tutto condivisibile».
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<b>E gli altri sindacati?</b>
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«Trovo incomprensibile che si possa arrivare a una cancellazione di diritti individuali e collettivi di questa natura con il consenso di sigle sindacali. Questi accordi sono autolesionisti per chi li firma».
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<b>Adesso che succederà?</b>
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«È auspicabile che ci sia una forte iniziativa politica di contrasto a quanto è successo a Torino». <br />
<br/>fonte: <a href="http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=WBBRT">la Repubblica - Eleonora Capelli</a>Pietro ICHINO: Non buttiamo l'innovazione «buona» per paura di quella «cattiva»2010-12-06T00:00:00ZOpenpolisinfo@openpolis.it548594Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) <br/><br/><br />
Caro Direttore, a Torino Marchionne pone apertamente sul tavolo la richiesta che anche nello stabilimento di Mirafiori, come in quello di Pomigliano, il lavoro sia regolato soltanto da un contratto aziendale e non dal contratto collettivo nazionale. Non solo i sindacalisti, ma anche i funzionari di Confindustria, quando non gli danno dell’arrogante, gli danno almeno dell’eccentrico: perché mai non dovrebbe valere anche per la Fiat lo stesso contratto nazionale che vale per tutte le altre aziende metalmeccaniche che operano in Italia?
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Marchionne potrebbe risponderci che, sì, in Italia per questo aspetto è lui l’eccentrico, ma nel mondo gli eccentrici siamo noi. E almeno in questo avrebbe ragione. In tutti gli altri numerosi Paesi in cui la Fiat opera, dagli U.S.A. al Brasile, dalla Polonia alla Serbia, è consentito assoggettare le condizioni di lavoro in azienda al solo contratto aziendale e quindi adattarle punto per punto alle esigenze specifiche del singolo piano industriale.
<p> Anche in Germania, Paese nel quale il sistema delle relazioni industriali è sempre stato imperniato sulla contrattazione collettiva nazionale di settore, oggi è consentito e largamente praticato che la singola impresa contratti le condizioni di lavoro in casa propria; e in tal caso è soltanto il contratto aziendale ad applicarsi, non quello nazionale.
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Cinque anni prima che si aprissero le vertenze di Pomigliano e di Mirafiori ho scritto un libro per mostrare come nell’ottobre 2000, quando la Fiat annunciò la chiusura dello stabilimento Alfa Romeo di Arese, proprio questo nostro sistema di relazioni industriali imperniato sul principio della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale abbia contribuito in modo decisivo a impedire che che quello stesso stabilimento si candidasse per l’insediamento della produzione della Micra coupé da parte della Nissan (A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005). Questo non perché la Nissan intendesse pagare retribuzioni inferiori ai minimi previsti dal nostro contratto nazionale dei metalmeccanici: al contrario, il suo piano industriale prevedeva livelli di produttività che avrebbero consentito retribuzioni molto più alte, come già a Sunderland nel nord-Inghilterra. Il problema era che quel piano prevedeva un’organizzazione del lavoro - la c.d. lean production - incompatibile con il sistema di inquadramento professionale previsto dal nostro contratto nazionale; e un sistema di determinazione delle retribuzioni, basato sulla performance review individuale (pur con l’assistenza del sindacalista di fiducia del lavoratore) anch’esso incompatibile con la struttura della retribuzione stabilita dal nostro contratto nazionale. Così stando le cose, o Cgil Cisl e Uil erano tutte e tre d’accordo per la deroga (e non lo erano), oppure la deroga non si poteva pattuire. E infatti la trattativa non venne neppure aperta.
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Il punto è che in Italia oggi quasi tutti considerano la “deroga” al contratto collettivo nazionale come sinonimo di “peggioramento delle condizioni di lavoro”, “rincorsa al ribasso”, “concorrenza tra poveri”, “dumping sociale”. Ma le cose non stanno così: la deroga al contratto collettivo nazionale può anche consistere in una modifica della disciplina dei tempi di lavoro che consente all’impresa di sfruttare meglio gli impianti e ai lavoratori di guadagnare di più; oppure in una diversa struttura della retribuzione funzionale a un aumento di produttività di cui saranno i lavoratori per primi a beneficiare; e gli esempi di scostamenti dalla disciplina nazionale potenzialmente vantaggiosi anche per i lavoratori potrebbero moltiplicarsi all’infinito.
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Certo, è ben possibile che la deroga al contratto nazionale sia destinata, invece, a rivelarsi dannosa per i lavoratori. Ma non si può, per paura dell’innovazione cattiva, sbarrare le porte anche a quella buona; a meno che il vero scopo sia quello di proteggere dalle più dinamiche imprese straniere le imprese nazionali nel loro sonnacchioso tessuto produttivo (questo potrebbe spiegare la tiepida e perplessa accoglienza delle proposte di Marchionne da parte dell’apparato di Confindustria). Se non è questo che vogliamo, abbiamo tutti bisogno di un sindacato “intelligenza collettiva dei lavoratori” che sia capace di valutare il piano industriale innovativo e l’affidabilità di chi lo propone; e che, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore su quel piano, negoziandone le modalità di attuazione a 360 gradi.
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Dovremmo per questo mandare il contratto collettivo nazionale in soffitta? Niente affatto: esso ben può – come in Germania – conservare la funzione di benchmark e di disciplina applicabile per default, laddove manchi una disciplina collettiva negoziata da una coalizione maggioritaria a un livello più prossimo al luogo di lavoro. E chissà che in questo modo, oltre agli investimenti di Marchionne, non riusciamo ad attirare anche quelli di molte altre multinazionali, che finora la vischiosità del nostro sistema di relazioni industriali ha contribuito a tenere alla larga dall’Italia.<br />
<br/>fonte: <a href="http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=VVLZChttp://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=VVLZC">Corriere della Sera - Pietro Ichino</a>